A Vienna Filippo Semmelweis, medico ungherese di metà Ottocento, capì per primo che una maggiore igiene di chirurghi e ostetrici poteva evitare la morte di moltissime donne al momento del parto. Sembrava una conquista di civiltà ma l’Accademia e i colleghi lo ridicolizzarono, lo misero all’angolo e alla fine lo espulsero. Per Semmelweis la ragione arrivò solo dopo la sua morte… Un caso che fa riflettere ancora oggi a proposito di scienza, medicina e cure “rivoluzionarie”.
di Elena e Michela Martignoni – da Storia In Rete n. 63 – gennaio 2011
Anno 1846: Prima Divisione Ostetrica dell’Ospedale Generale di Vienna. Un prete avanza lungo il corridoio preceduto dal suono di una campanella: porta i Sacramenti alle donne in fin di vita. Sono tutte puerpere. Lo squillo di morte semina il terrore tra le altre che hanno appena partorito o che devono partorire. Presto quella campana potrebbe suonare per loro. Scrive il dottor Ignac Semmelweis (1818-1865): “Quando sentivo il suono che si affrettava oltre la mia porta un sospiro sfuggiva dal mio cuore per la vittima che ancora una volta era reclamata da una forza sconosciuta. La campanella era una dolorosa esortazione per me, a cercare con tutte le mie forze questa causa sconosciuta”. Chi era il dottor Ignazio Filippo Semmelweis? Chi era questo ‘Salvatore delle Madri’ alla ricerca di una forza sconosciuta? Era un genio della medicina, incompreso ai suoi tempi e, ancora oggi ignoto per molti.
La sua tragica storia, scrisse Cèline, che su di lui nel 1924 compose la sua tesi di laurea in medicina, è la dimostrazione di quanto sia pericoloso voler troppo bene agli altri. Semmelweis amò le sue donne, le sue puerpere, le sue morte. Molte morte. Nella prima divisione, diretta dal dottor Klein, il più grande detrattore di Semmelweis, nel 1846 morirono 549 puerpere su 4010. Solo nel mese di gennaio di quell’anno la mortalità raggiunse il 40%, per assestarsi poi su una media del 30%. Così anche altrove: a Parigi, stesso periodo, nell’ospedale del dottor Dubois,il 18% di decessi, a Berlino da Schuld il 26%, a Torino su 100 puerpere ne morirono 32. Percentuali da flagello! Un flagello di nome FEBBRE PUERPERALE. Un flagello che colpiva gli innocenti: i neonati, infettati dalle madri, morivano quasi tutti e i pochi sopravvissuti rimanevano senza latte, senza protezione, senza amore.
Chi erano le madri di Semmelweis? Le nobili dame dell’impero Asburgico? Le ricche borghesi austriache? No, queste partorivano nei loro palazzi, tra lenzuola ricamate, assistite da linde cameriere e curate dagli stessi barbuti e saccenti professori dell’infernale ospedale viennese. Tra quei sapienti non c’era Semmelweis: l’élite non lo amava. Ungherese, indipendentista – e quindi di idee poco gradite al governo austriaco – arrogante, polemico e violento. Era quello che Céline definì “umanamente un maldestro”. Una volta accettò di curare una nobildonna affetta da cancro al collo dell’utero, ma non convinto della diagnosi, si ripresentò urlando a casa della malata in piena notte pretendendo di rivisitarla. Nessuna delle amiche della signora si fece dare il suo indirizzo. Solo le ragazze perdute e le prostitute, le reiette abbandonate dai padri e senza mariti, morivano nei padiglioni viennesi. Povere disperate che Semmelweis e gli altri ostetrici cercavano invano di strappare alla febbre letale. Esse avrebbero preferito partorire per strada, tra i liquami di una città sozza, come erano tutte le città ottocentesche, piuttosto che finire sotto i bisturi dei baroni dell’ospedale: sapevano che in quei reparti maledetti suonava la campana della morte. Ma perché?
Se ci fosse concesso sorridere, e non lo è, lo faremmo pensando, oggi, alle cause che i medici attribuivano alla febbre puerperale: con l’interruzione delle lochiazioni, i fluidi tossici prodotti dall’utero si diffondevano nell’organismo causando l’infezione; oppure era l’utero ingrossato che bloccava l’intestino e lasciava marcire le feci, o peggio: erano i gas velenosi presenti nell’aria, inalati dalle pazienti – e chissà perché solo dalle puerpere? – a provocare questa inspiegabile malattia. La più assurda di queste ipotesi è che fosse la vergogna di presentare le proprie nudità a medici maschi la causa scatenante delle febbri mortali. Centinaia, migliaia di donne morivano di vergogna? La causa invece era molto semplice, e quella sì avrebbe dovuto far morire di vergogna un’intera generazione di ostetrici!
La risposta al mistero della puerperale si trovava negli stessi reparti del mastodontico ospedale, culla natale dell’anatomia e della fisiologia patologica, luogo di formazione dei più grandi medici europei. Sporcizia e lenzuola sudice contribuivano al contagio, ma la verità impronunciabile richiedeva troppo coraggio per essere promulgata: Erano i medici stessi gli assassini di quelle povere madri. Assassini? Peggio! Untori! Essi, e i loro studenti, senza né lavarsi le mani né cambiarsi d’abito, passavano dalle sale di anatomia nelle quali sezionavano i cadaveri, alle visite ginecologiche e all’assistenza ai parti. Provate a immaginare! Mani sporche di morte che frugano nei segreti della vita… che imbrattano con superbia i sacri luoghi della maternità. Semmelweis l’aveva capito e provato! E solo un coraggioso, un emotivo, un indomabile come lui poteva gridarlo ai quattro venti… Ma nessuno lo ascoltava… nessuno gli credeva! Non c’era di che impazzire? Non c’è di che impazzire ad aver compreso che basta lavarsi le mani per evitare a migliaia di donne e neonati di morire tra atroci tormenti e non poterlo fare? Nel breve periodo in cui Semmelweis riuscì a imporre a medici, studenti e infermiere di lavarsi le mani con cloruro di calcio prima di toccare una puerpera e di cambiare frequentemente le lenzuola, le percentuali dei decessi scesero in modo impressionante all’1%. Non c’era di che convincersi? O almeno, non c’era di che incuriosirsi?
Theodor Billroth, un grande chirurgo tedesco, così definì nel 1876 i professori dell’università di Vienna: “una generazione educata in una camicia di forza intellettuale, con occhiali scuri davanti agli occhi e tappi nelle orecchie”. Come potevano credere a Semmelweis individui così limitati? Le sue costrizioni igieniche, poichè imposte da un uomo troppo originale, troppo fuori dal suo tempo, vennero considerate coercitive, insostenibili, offensive per la casta dei medici. Semmelweis perse il suo posto. Non solo a Vienna, anche nella sua Budapest, dove, invano tentò di farsi credere. Nel 1861, con il suo trattato “Eziologia e profilassi delle febbre puerperale” cercò legittimazione alla sua scoperta. Peggio che mai. Il suo libro, in effetti confuso ed emozionale, fu un fiasco totale.
Semmelweis perde la ragione, delira, si masturba in pubblico, appende volantini ai muri dove diffida le donne dal rivolgersi agli ‘ostetrici assassini’. Ha un ulteriore prova di aver visto giusto. Uno dei suoi pochi amici, il dottor Kolletcha, uno dei pochi, pochissimi, che l’aveva sostenuto, muore per essersi infettato col bisturi usato durante un’autopsia. Effettuando l’esame autoptico sul corpo stesso di Kolletcha si riscontrano gli stessi effetti devastanti delle morte per febbre puerperale. Il morbo è lo stesso, e viene dai cadaveri. Semmelweis ne ha la certezza. Ancora nessuno gli crede. Finché si arriva al 1865.
Sulla sua morte circolano leggende, non sappiamo quale sia la verità. Studi recenti e autopsie di nuovo effettuate sui suoi resti sembrano dimostrare che era affetto dal morbo di Alzheimer e che morì… di percosse. Cèline dà un’altra versione, forse troppo letteraria. Semmelweis non è riuscito con i risultati, non è riuscito con le parole e allora prova a dimostrare con un ultimo gesto forsennato l’esattezza della sua scoperta: non ha potuto salvare le sue donne, morirà come loro. Irrompe nella sala dove si seziona un cadavere, si appropria di un bisturi, lo immerge nelle carni del morto, lo impregna di umori letali e poi si taglia con esso. Dopo tre settimane, straziato dalle stesse terribili infezioni delle puerpere: linfangite… peritonite… pleurite… meningite… in un manicomio, la campana suonò per lui. Aveva 47 anni. Solo Pasteur, 14 anni più tardi, riuscirà a dimostrare che Semmelweiss aveva ragione.
Elena e Michela Martignoni