La Francia considera sacra Verdun, l’America non permetterebbe mai che fosse profanato il nome di George Washington, l’Inghilterra tiene al villaggio belga di Waterloo al punto da aver chiamato così la stazione dove arrivavano i treni da Parigi. Anche noi abbiamo una battaglia fondativa. Un luogo, San Martino, e una data, 24 giugno 1859, un secolo e mezzo fa: prima l’Italia non c’era, e dopo sì. Ma non si può dire che noi italiani ne abbiamo rispetto.
Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera
L’affresco racconta che fu re Vittorio Emanuele a comandare le cariche, e la scritta a fianco che Maurizio ama Sonia (o almeno la amava il 2/3/89). Qui Garibaldi guida i Mille, e accanto Luciano ha inciso la data delle nozze con Patrizia (25/10/2008). Lassù Cadorna e i bersaglieri aprono la breccia di Porta Pia, e «la famiglia Sala grida: forza Inter!». Decine, centinaia, migliaia di scritte, graffiti, incisioni si sono accumulati da più di vent’anni nel sacrario che celebra San Martino, dove Napolitano e Sarkozy verranno tra due settimane per il centocinquantesimo anniversario della battaglia che vide italiani e francesi sconfiggere gli austriaci e dare a un popolo una patria.
Il luogo è bellissimo, una torre su un colle che guarda il Garda, e lungo la scala grandi affreschi che ricordano tutte le guerre d’indipendenza, e anche il conflitto ’15-‘18. Ma è divenuto il ricettacolo d’ogni bizzarria di generazioni di visitatori. Scritte vagamente politiche: «Le guerre fanno tutte schifo», «se Garibaldi se ne stava a casa sua era meglio per tutti», e ovviamente «Padania libera » (più volte). Ma anche insulti, profferte sessuali, disegni osceni, motti di spirito — «qui Deborah e Marco tentarono di fare un figlio ma furono disturbati da un visitatore» —, citazioni Anni ’80 di Bob Marley e recentissime di Jovanotti, una firma di Renato Zero si spera apocrifa, e una grande statua di re Vittorio Emanuele II con una ragnatela sulla spada, un’altra sull’orecchio destro, una terza lungo i calzoni… L’altoparlante che diffonde il Va pensiero e l’Inno di Mameli rende il quadro se possibile più surreale.
La colpa è di tutti, quindi di nessuno. Certo non dell’associazione «Solferino e San Martino» e del comune di Desenzano, che anzi hanno appena restaurato le lapidi del viale che porta all’ossario, con le iscrizioni in cui le cariche sono ovviamente «impetuose» e le fanterie «eroiche» (qui si intravede «strenua artiglieria», qui «indomito valore»). Non dell’amministrazione provinciale e regionale che certo hanno cose più urgenti cui badare, così come il ministero della Difesa. Ma neppure le migliaia di grafomani probabilmente hanno creduto di profanare qualcosa di sacro, o almeno di importante. Devono aver pensato che in fondo lo fanno tutti, e che il loro nome non vale meno di quelli dei generali sabaudi o dei volontari napoletani incisi nella pietra; loro, oltretutto, sono vivi.
Il Risorgimento non è di moda. Lo sono molto di più i briganti, i Borboni, il Papa Re. Cavour è stato ribattezzato Cavour in mezza Italia. Vengono rivalutate le insorgenze, si cita spesso la Napoli- Portici prima ferrovia della penisola (omettendo di ricordare che serviva a portare i cortigiani da una reggia all’altra), si piange sugli zuavi pontifici. Degli 846 caduti di San Martino — cui vanno aggiunti i 375 morti nei giorni successivi per le ferite, i 3707 mutilati, i 774 prigionieri o dispersi — non sembra importare quasi a nessuno.
Peccato, perché è una storia affascinante, di quelle da raccontare ai bambini. Due imperatori in campo, di là Francesco Giuseppe, di qua Napoleone III (molti visitatori sono francesi, che vanno ancora giustamente fieri della prova offerta dall’Armée, piene le città di vie dedicate a Solferino, a San Martino, a Mac Mahon). Un re popolano, Vittorio Emanuele II, che alle esangui dame dell’aristocrazia europea preferisce la figlia di un tamburino. Brigate che portano nomi piemontesi — la Casale, la Pinerolo, la Acqui, la Cuneo, la Savoia, la Aosta, oltre ai granatieri di Sardegna — ma rafforzate da volontari venuti da tutta Italia. L’ossario custodisce resti di milanesi, veneti, trentini, toscani e anche giovani del Sud, che forse non afferrarono tutte le parole che Vittorio Emanuele gridò in dialetto — «o gli prendiamo San Martino o ci fanno fare sanmartino» (sanmartino in piemontese è il trasloco, dal giorno in cui scadevano i contratti dei mezzadri) —, ma che dovettero aver compreso benissimo quel che il re intendeva dire. Tra i volontari toscani c’era Collodi, l’inventore di Pinocchio. E tra i testimoni ci fu lo svizzero Henri Dunant, che — impressionato dai lamenti dei feriti lasciati senza soccorso, qui e a Solferino — disse a se stesso che quella sarebbe stata l’ultima battaglia tanto crudele. Così il 24 giugno 1859 nasceva, con l’Italia, la Croce Rossa.
Più che il Risorgimento, forse è l’idea di patria a essere ancora fuori moda, o comunque non del tutto rivalutata. Ciampi in particolare ha lavorato molto sui simboli dell’unità nazionale: il tricolore, l’inno di Mameli, il Vittoriano. Quel che continua a sfuggirci è l’idea del bene comune, di una storia condivisa, di un valore che ci riguarda tutti e nello stesso tempo ci trascende. Perciò, per un governo che ha dichiarato guerra ai graffiti, i primi da cancellare sono quelli di San Martino.
Aldo Cazzullo
07 giugno 2009
Inserito su www.storiainrete.com l’8 giugno 2009