di Dino Cofrancesco dal Huffington Post del 30 gennaio 2021
Il dovere della memoria nel nostro paese ― ma forse anche nel mondo ― sta diventando il diritto ad abbandonare il laboratorio degli storici per partecipare attivamente ai riti collettivi del ricordo, della esecrazione, dei moniti solenni. E poiché la memoria è soprattutto quella della Shoah (ed è comprensibile giacché il razzismo nazionalsocialista è stato l’episodio più sconvolgente del XX secolo), tutto ciò che è collegato con l’antisemitismo ne viene contaminato. In altre nazioni, penso soprattutto alla Francia, il fondamentalismo ideologico trova sempre degli anticorpi—si veda il Dictionnaire historique et critique du racisme, a cura di Pierre-André Taguieff (Puf 2013), un intellettuale della stoffa dei Raymond Aron, dei Jean-François Revel, dei François Furet —; da noi li si cerca invano. In Italia, più che altrove, il riflesso condizionato del pensiero è diventato lo slippery slope argument (la teoria del piano inclinato) per cui basta differenziarsi un poco dal pensiero dominante e dalla pedagogia buonista che lo sorregge per ritrovarsi sull’orlo di un pendio che porta alla perdizione morale e all’imbarbarimento della società. Il risultato è il trionfo dell’ipocrisia: il discorso pubblico è una cosa, quello privato un altro. Ma non è soltanto questione di discorso e di opinioni ma anche di vissuto e di esperienze collettive: se qualcuno dice che durante il ventennio i treni arrivano in orario o che alcune opere e istituti del regime (come l’IRI) all’estero riscossero molta attenzione, corre il rischio di essere isolato da un cordone sanitario. Del ‘male assoluto’ può esserci memoria ma non storia.
Nel 1975, quando uscì la celeberrima “Intervista sul fascismo” di Renzo De Felice a Michael Ledeen sembrava quasi che ci si stesse avviando verso una comprensione più distaccata del nostro passato. Il docente reatino venne aspramente attaccato —soprattutto dalla cultura azionista che parlò di ‘pugnalata dello storico’ — ma altresì difeso anche da comunisti doc come Giorgio Amendola, la cui “Intervista sull’antifascismo” (1976), a cura di Piero Melograni, confermava non poche tesi dell’altra. A torto si ritenne allora di poter mettere finalmente una pietra sul passato e, sull’esempio della Spagna, di essere pronti anche noi a sottoscrivere il civilissimo ‘patto dell’oblio’ con cui post-franchisti e antifranchisti avrebbero segnato l’ingresso del loro paese nell’era democratica. In realtà, avevamo sottovalutato sia l’Italia sia la Spagna, da anni ormai in preda all’iconoclastia antifascista e decisa a far rivivere― “nella memoria” ― ovviamente la guerra civil, come mostra la vicenda della Val de los Caidos.
Il fatto è che in una repubblica, come la nostra, povera di idee e a corto di progetti di medio e lungo termine, alle prese con una società civile sempre più in affanno, con un debito pubblico salito alle stelle e con una decadenza economica pare inarrestabile, il collante antifascista, almeno per una parte dei vecchi partiti, è rimasto il solo produttore di identità etico-sociale nella desertificazione dei valori. E poiché il fascismo è finito da più di settant’anni se ne scovano i presunti eredi per ravvivare l’antica fede anpista. All’armi, all’armi siam tutti antifascisti! Ormai è una gara a chi le spara più grosse giacché le sole ‘memorie’ non bastano più ― anche se “la scuola ha fatto un ottimo lavoro”, come riconosce Simon Levis Sullam intervistato da Lucia Campagnino sul ‘Secolo XIX’ del 27 gennaio (Nessuno è immune dal rischio del virus dell’odio e del razzismo). Sullam lamenta che più “non si parla della dittatura fascista e della sua natura criminale, che si rivelò ben prima delle leggi razziali del 1938, fin dalla Marcia su Roma del 1922” e annuncia che “è arrivato il momento per gli italiani di sviluppare le implicazioni del loro impegno antirazzista”. Parole di colore oscuro, dal momento che fioccano le leggi che puniscono il reato d’incitamento all’odio razziale e, in genere, di ‘apologia del fascismo’. Che fare allora? Non sono sufficienti le scuole, le questure e i tribunali? dobbiamo scendere sulle strade e sulle piazze per gridare il nostro no pasaran? Se fin dalla marcia su Roma il fascismo mostrò la sua ‘natura criminale’, dobbiamo cancellare strade, scuole, piazze intitolate a grandi liberali come Benedetto Croce o Luigi Einaudi che di quella natura non si avvidero almeno fino al delitto Matteotti? Alberto Asor Rosa, nel 1975, aveva definito il fascismo “la fogna” in cui era confluito l’aspetto arcaico, arretrato, provinciale e schizofrenico della cultura italiana postunitaria”. Recentemente ha parlato di “regime criminale di massa” parafrasando la nota espressione “regime reazionario di massa” impiegata da Palmiro Togliatti nelle sue lezioni sul fascismo (lezioni, sia detto per inciso, di grande interesse sul piano storico-teorico pur se ideologicamente viziate): il ‘reazionario’, ormai, è diventato sinonimo di ‘criminale’, in uno stile di pensiero che sarebbe piaciuto al benemerito Comitato di Salute Pubblica del 1793.
Sulla stessa linea inquisitoria, Furio Colombo, su Radio3, ha sostenuto essere blasfemo equiparare fascismo e comunismo, giacché il primo era fin nel profondo antisemita e razzista (per loro fortuna, Stalin morì prima che potesse attuare il suo piano di sterminio degli ebrei russi, al quale aveva destinato due Lager ai confini dell’URSS). Si ha quasi la sensazione che si stiano spezzando tutti i freni inibitori, che una volta garantivano buon senso e buon gusto, e che la storia reale di quel che avvenne tra il 1922 e il 1945 non interessi, alla fin fine, più nessuno. Dalle vette del sapere — v. l’Umberto Eco teorico dell’Ur-Faschismus — agli scantinati della mezza cultura — v. il libello di Michela Murgia, Istruzioni per diventare fascisti (Einaudi 2019)— è tutta una corsa al rialzo tra chi lancia più anatemi, infiamma di più gli animi, acquista un maggior numero di benemerenze denunciando i delitti ‘contro l’umanità’ .
In questo clima (artificialmente) incandescente, non è l’erogazione della violenza in quanto tale a suscitare orrore e disperazione ma solo la violenza di una cultura politica determinata, quella che non si riconosce nella filosofia delle ‘magnifiche sorti e progressive’ e parla di decadenza dell’Occidente. Nell’articolo pubblicato l’anno scorso sulla ‘Verità’ (5 febbraio) Dittatura della memoria ultimo atto, Marcello Veneziani scriveva con amara ironia: “Il comunismo non è mai esistito, se non come idea benefica e generosa, deturpata da alcuni incauti dittatori, di cui si perdono le generalità nella preistoria. Ma sopravvive intatta la sua Utopia nell’alto dei cieli e guida il mondo all’uguaglianza e i migranti alla conquista dell’Occidente. Non c’è alcun ricordo pubblico di quei regimi, di quei massacri, di quegli eventi; e non c’è alcuna responsabilità storico in chi abbracciò il comunismo, sostenne i regimi più criminale, lavorò per il suo avvento in Italia. Il comunismo? Ma di che parli? E’ solo un’ossessione paranoica nelle vostre teste”. Veneziani è un intellettuale militante di destra — anzi può considerarsi lo studioso più informato e profondo della sua area ideologica: non a caso è stato vicino a quello che può ritenersi il più grande filosofo politico italiano della seconda metà del Novecento, Augusto Del Noce; è portatore di una filosofia politica che non è la mia e, come i suoi antagonisti di sinistra, non è mai entrato nell’universo liberale, nel quale ho fissato stabile dimora. Ma proprio per questo mi dispiace di dovergli dare ragione. Oggi chi ricorda più—se non in qualche documentario televisivo che certo non entra nelle scuole—i milioni di morti ammazzati da Stalin? la ferocia con cui Mao si sbarazzò dei suoi avversari politici, a cominciare da Liu Shaoqi e sacrificò al folle progetto del grande balzo in avanti, il triplo degli ospiti dei Lager nazisti? Le piramidi di teschi di Pol Pot—un dittatore paranoico più spietato di Hitler e degli altri due messi assieme?
Lo stucchevole universalismo che ispira la nuova isteria antifascista insegna nelle scuole che solo ad Auschwitz e a Birkenau si capisce cos’è stato il nazismo ma si rifiuta di accettare il principio inverso che solo nei Gulag si comprende cos’è stato il comunismo. E avrebbe ragione a non ridurre quest’ultimo—portatore di un valore antico che risale a Platone—allo stalinismo ma, per essere coerente, dovrebbe applicare le stesse misure all’odiato nemico ideologico, riconoscendo ad es. che i pregiudizi antisemiti, pur presenti nel fascismo italiano come in vasti settori sociali condizionati dal tradizionalismo cattolico, non avevano come sbocco fatale le infami leggi razziali del 1938 — peraltro indigeste a non pochi fascisti a cominciare da Italo Balbo e decisamente estranee al comune sentire della borghesia italiana (alla quale il duce voleva dare un pugno nello stomaco con l’antisemitismo di Stato).
Nell’artificiale rigurgito antifascista ‘fuori stagione’ c’è un elemento paradossale. A ben riflettere, infatti, i Simon Levis Sullam, gli Asor Rosa, i Furio Colombo, le Michele Murgia, gli Umberto Eco sono il ‘paese legale’ dei nostri giorni, quello che dà le direttive ideali e vuole imporre alla gente comune simboli remoti poco sentiti. Il ‘paese reale’ sarà pure qualunquista ma certo non li sta a sentire e anzi è spinto a votare per i veri populisti/nazionalisti/sovranisti proprio per reagire al Minculpop antifascista mai stanco di demonizzarli col ricordo dei loro ‘criminali’ antenati. “Ogni giorno, ha scritto Veneziani, i telegiornali ricordano Auschwitz e dintorni, c’è sempre un motivo, un pretesto, un personaggio, una data da ricordare. La tardiva scoperta di un sopravvissuto finora ignoto, la confessione dopo ottant’anni di silenzio che a casa sua nascondevano gli ebrei. La Giornata della Memoria è ogni giorno, è un’istituzione permanente, una preghiera quotidiana. Una rubrica fissa a cui dedicare uno spazio sacro e intangibile”.
Dobbiamo lasciare alla destra la lucidità dello sguardo?