Tra la Colombia e l’Unesco scoppia una diatriba sulla leggendaria nave che giace a 600 metri di profondità, ritrovata dopo 307 anni. Il presidente Santos: «è roba nostra».
di Agostino Gramigna dal Corriere della Sera del 23 maggio 2018
All’origine della guerra (politica) c’è una vecchia mappa. Di quelle che si vedono nei film di pirati. Chi l’ha in mano e l’osserva è interessato al punto che indica la costa di Cartagena de Indias, in Colombia. Perché è lì, negli abissi, a più di 600 metri di profondità, che giace il leggendario galeone San José. La mappa è nelle mani di Manuel Santos, presidente colombiano, che l’ha ricevuta in dono tre anni fa da uno storico cubano. È felice. I suoi collaboratori più stretti dichiarano di non averlo mai visto così. Ma sarà il contenuto di quella mappa che porterà Santos, futuro Nobel per la Pace (2016), a provocare la guerra (politica) tra il suo Paese e l’Unesco. L’elemento che scatena la contesa è proprio il San José, ritrovato tre anni fa dopo 307 anni.
Affare di Stato
Santos vuole portare in superficie il galeone spagnolo affondato nel 1708 dai cannoni dell’ammiraglio inglese Charles Wager e sottrarlo al cimitero subacqueo dove da secoli, tra pesci e correnti, è sepolto ciò che resta (niente) dei 600 uomini dell’equipaggio. I corpi umani non ci sono più, mangiati dal mare, ma le merci che trasportava il galeone sì. Solo tra monete e lingotti d’oro il tesoro potrebbe valere oltre 10 miliardi di euro. Affare di Stato. Santos ne parla così. Rivendica tutto il carico che definisce «patrimonio nazionale». L’Unesco interviene e denuncia. Il San José, dice, appartiene al mondo, alla culturale universale. La Colombia si appella ad una legge del Paese del 2013, che consente di utilizzare il tesoro anche a scopo di lucro. Per l’Unesco, tuttavia, la norma viola la Convenzione sul patrimonio culturale subacqueo entrata in vigore nel 2009. Ernesto Montenegro, uno dei responsabili dell’operazione di recupero giustifica così la posizione colombiana: «Non accettiamo limitazioni su questioni che mettono in discussione la sovranità e l’autonomia nazionali nella gestione dei beni. Tanto più che noi non abbiamo firmato la Convenzione».
Il ruolo dei privati
L’accusa mossa dall’Unesco è che nella società che dovrebbe finanziare l’operazione di recupero ci sono noti cacciatori di tesori, che hanno come scopo il profitto. Auron Tare, presidente del Consiglio consultivo della Convenzione, ha dichiarato: «Disperdere la collezione di oggetti trovati e, quel che è peggio, finanziare lo scavo attraverso la vendita del patrimonio, distrugge le più preziose tracce del passato che le acque della Colombia hanno da offrire». Santos però non si ferma. Procede: è pronto il contratto di oltre 600 pagine, sono stati individuati i partner privati che dovrebbero finanziare il recupero (tra questi Anthony Peter Clake, membro di un fondo di venture capital britannico) ed è definito l’investimento. Che comprende la spedizione, la costruzione di un laboratorio per analizzare i materiali e un museo a Cartagena de Indias.
L’inventario
L’inventario è già iniziato grazie a un complesso lavoro fotografico. Negli scatti si riconoscono le forme di cannoni, anfore, pentole, altro materiale da cucina e una discreta quantità di porcellana cinese. «Tutte le merci saranno classificate — afferma Montenegro —. E una volta stabilito cosa è patrimonio e cosa no, si deciderà cosa si può vendere e cosa invece finirà nei musei». Le polemiche dureranno ancora. Del resto sono decenni che il San José, con il suo leggendario carico di preziosi, alimenta sogni e litigi. Di chi è veramente? Fosse dipeso da un altro Nobel colombiano, Garcia Marquez, la contesa tra Colombia e Unesco forse non ci sarebbe stata. Florentino Ariza, protagonista di un suo romanzo (L’amore ai tempi del colera), scrive una lettera a Fermina Daza, la sua amata. Nella missiva la informa di essere impegnato nel recupero di un tesoro. Che vorrebbe consegnare a lei. È quello del galeone affondato l’8 giugno del 1708.