Sul «Corriere della Sera» del 9 aprile, Paolo Mieli preannuncia l’uscita del libro 25 luglio 1943 (Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 288), dedicato alla caduta del regime fascista. Un crollo che per l’autore, Emilio Gentile, era dipesa dai «progetti dei militari contro Mussolini, predisposti dalle decisioni del Gran Consiglio». In attesa di leggere il volume, in libreria dal 12 aprile, bisogna sottolineare lo strano modo adottato da Mieli per presentarlo ai lettori del «Corriere» con il titolo reboante «Le vanterie di Dino Grandi. Il gerarca fascista esagerò il ruolo che aveva avuto nel far cadere il Duce». Piuttosto che esporre e commentare il ruolo dei «vertici militari i generali Vito (recte: Vittorio) Ambrosio, Giuseppe Castellano e il capo della polizia Senise» che con la complicità del re predisposero «i piani per un colpo di Stato», Mieli discute solo le mene condotte da Dino Grandi (1895-1988) nella caduta del regime mussoliniano.
di Nunzio Dell’Erba da Avanti! del 12/04/2018
Nell’incipit dell’articolo Mieli riporta le parole che Pietro Badoglio rivolse il 18 ottobre 1943 agli ufficiali italiani, per la maggior parte riuniti nei «campi di riordinamento» istituiti dallo stato maggiore dell’esercito. Quelle parole, contenute nel noto discorso di Agro San Giorgio Jonico dalla località in cui sarebbe stato tenuto, sono citate malamente da Mieli, a cui sfugge la parte più interessante, quella relativa all’aspra critica rivolta a Mussolini. Più volte Badoglio definisce il dittatore fascista un «furfante» e un «brigante» che ha coperto le ruberie più spudorate dell’Azienda Generale Italiana Petroli (AGIP) con «novanta milioni di deficit»; della Gioventù del Littorio che «costava allo Stato più di un miliardo e mezzo»; del «dopolavoro» con «un altro miliardo e mezzo di passivo per lo Stato»; del ministero della Cultura popolare «che finanziava un numero incalcolabile di signore romane, con stipendi di cinque, otto, dieci mila lire» e di altri dispendiosi ministeri privi di ogni contabilità.
Così l’opinionista del «Corriere» si dilunga sulla riunione del Gran Consiglio del 24-25 luglio, riportando alcune notizie sull’organo supremo del regime fascista, sulla sua istituzione informale dell’11 gennaio 1923 e sulle 186 riunione convocate «nei suoi vent’anni di vita», senza aggiungere nulla di nuovo a quello reperibile su Internet. Nella sua lettura superficiale e frettolosa Mieli commette un errore storico, inserendo anche la riunione del 15 dicembre 1922, per cui le 186 ricordate e tratte dal sito sono di un numero inferiore. La riunione del Gran Consiglio durò quasi dieci ore e mise in minoranza (19 voti contro 7) il duce, approvando – come scrive Nenni nei suoi Diari – «un ordine del giorno Grandi che suonava sconfessione della sua direzione della guerra e invito a al sovrano a provvedere a norme della Costituzione» ” (cfr. P. Nenni, Tempo di guerra fredda. Diari 1943-1956, SugarCo, Milano 1981, p. 25).
Sulla base dell’annotazione di Nenni, secondo cui era implicita la richiesta al sovrano e ai ministri di restituire i poteri previsti dallo Statuto, l’interrogativo di Emilio Gentile ripreso da Mieli risulta fuorviante nella spiegazione della riunione del Gran Consiglio: “Se Mussolini considerava l’ordine del giorno Grandi, da lui conosciuto poco prima della riunione, «un atto inammissibile e vile» (come «sembra» che lo avesse definito lui stesso), perché si chiede Gentile, «accettò che venisse discusso in Gran Consiglio e di chiedere su di esso la votazione, anche se non era obbligato a fare né l’una né l’altra cosa, dal momento che solo al capo del governo, presidente di diritto del Gran Consiglio, spettava di fissare l’ordine del giorno delle sedute?». Strano che un giornalista così acuto come Mieli accolga questo interrogativo, senza formulare una critica e senza chiedersi il motivo per cui Mussolini decise di convocare il Gran Consiglio: la spiegazione più attendibile può essere quella che egli si considerava ancora in grado di dominare la riunione e che mai avrebbe creduto ad una approvazione così larga dell’ordine del giorno Grandi.
Su questo aspetto sembra che Mussolini sia stato convinto da Hitler nel suo incontro di Feltre (19 luglio ’43) non tanto «per chiedere aiuto contro gli invasori», come sostiene con ingenuità Mieli, ma per conoscere la sua opinione sulla convocazione del Gran Consiglio. Il Führer consigliò di convocare la riunione, che fu indetta da Mussolini per dimostrargli di essere ancora il «conducator» dell’Italia. Il comunicato del suo incontro fu coperto da notizie brevi e prive di significato in quell’ora drammatica per Roma, bombardata quel giorno da aerei inglesi dopo che erano stati lanciati volantini di sprono alla ribellione contro Mussolini e Hitler.
Nella successione degli eventi, accertati e riportati da Mieli, è taciuto l’importante aspetto che riguarda la concessione del Collare dell’Annunziata a Dino Grandi. Il 25 marzo 1943, quattro mesi prima della riunione del Gran Consiglio, il re gli concesse infatti l’insigne onorificenza con grave disappunto di Mussolini, che per l’occasione fece inviare ai giornali l’ordine di dare la notizia «senza eccessivo rilievo». L’onorificenza fu proposta da Luigi Federzoni (1878-1967), amico di Grandi e già «Collare dell’Annunziata» dal 1932, che ricevette alcuni anni prima l’annuncio positivo da Pietro Acquarone, Aiutante di campo del sovrano.
L’episodio, peraltro rilevante per comprendere il ruolo di Grandi, fu considerato l’anno successivo da Mussolini un «elemento della congiura», ma era chiara la finzione dell’ex dittatore, volto a giustificare il suo operato e le sue responsabilità di fronte alla guerra. Mussolini aveva ritardato la concessione del Collare a Grandi, proponendo al sovrano di assegnarla a Giacomo Suardo (1883-1947, presidente del senato e più anziano di lui. Una versione diversa venne data da Grandi, che fornì una spiegazione personale riconducibile solo ai suoi meriti diplomatici e politici. Il 21 luglio 1943 Grandi ebbe un incontro con Federzoni, che accolse la sua conclusione delle dimissioni di Mussolini, per poi sottoporla a Giuseppe Bottai, a Umberto Albini e a Giuseppe Bastianini, tre membri influenti del Gran Consiglio.
Dalle carte di Federzoni, che riguardano la riunione del Gran Consiglio, possono venire spiegazioni sui legami amicali con Grandi e sui vari interventi dei protagonisti nella riunione del Gran Consiglio; ma essi devono essere letti alla luce di altre testimonianze, delle quali quella di Grandi assume un significato particolare per il suo ruolo rilevante. Sul piano storico Grandi fece durante la riunione una «requisitoria nel Gran Consiglio contro la dittatura» di Mussolini, che – come ricordò poi – «ha ascoltato, 48 ore fa, tutto ed esattamente quanto sto per dire … egli tacque e non mi smentì. Lo avrebbe fatto se avessi potuto smentirmi. Egli conosceva il mio ordine del giorno perché il segretario del Partito glielo aveva comunicato». Il noto ordine del giorno provocò la caduta del duce, al termine di una drammatica seduta in cui – come giustamente afferma Paolo Nello – «si dimostrarono decisive l’energia e la risolutezza dello stesso Grandi», ma anche l’inefficacia della linea filotedesca del suo rivale politico. Esagerato o meno il ruolo del gerarca fascista, esso fu decisivo per la caduta di Mussolini almeno per la presentazione di un ordine del giorno, con cui si richiedeva «la restituzione al re dei sui poteri politici e militari» e la formazione di un nuovo governo affidato a Pietro Badoglio.