Esperta di storia e di letteratura inglese, Elisabetta Sala ha scritto in questi anni saggi storici come L’ira del re è morte (Ares 2008), Elisabetta la sanguinaria (Ares 2010), L’enigma di Shakespeare (Ares 2011). La sua ricerca ha portato a rivisitare momenti della storia inglese spesso cristallizzati in giudizi e formule un po’ troppo sommari e riduttivi, aprendo nuove piste di indagine e chiavi interpretative.
di Giovanni Fighera del 5 settembre 2017
Non sorprenderà allora che il suo primo romanzo L’esecuzione della giustizia (2017), pubblicato da D’Ettoris Editori, cerchi di far luce sull’«atto terroristico più celebre e raccapricciante – anche a livello simbolico – dell’era moderna» (come lo definisce l’autrice), la congiura delle polveri, sventato nel 1605. La lettura è particolarmente suggestiva per la felice ricostruzione storica, per la suspence che caratterizza le vicende, per la fine capacità di seguire la crescita e la formazione del protagonista, un adolescente, che viene in poco tempo deprivato di tutto, dopo che il padre è stato condannato a morte, perché accusato di aver preso parte alla congiura.
Nelle tue opere hai mostrato particolare interesse storico per quei cent’anni che vanno dal primo Cinquecento al primo Seicento. Per quale ragione ami così tanto quegli anni?
A parte il fascino per la storia in sé, quelli sono stati anni cruciali per l’Europa e per il mondo. Penso ai viaggi di esplorazione, all’eccezionale fioritura artistica e letteraria, allo splendore delle corti nobiliari; ma anche, e soprattutto, alle gravissime lacerazioni prodotte dal protestantesimo, alla minaccia ottomana mai completamente stornata, ai conflitti sanguinosi tra le grandi potenze, agli intrighi, allo sviluppo dei servizi segreti. Da queste acque agitate emergono a tratti storie straordinarie di sofferenza ed eroismo.
Ora hai scelto un episodio come la congiura delle polveri per un romanzo storico, L’esecuzione della giustizia. Puoi delineare in estrema sintesi la vicenda? Si è compreso bene come è andata o credi che, dopo le opere scritte da alcuni Gesuiti nell’Ottocento per chiarire come andarono i fatti e la risposta dello storico Gardiner, si debba ancora far chiarezza sull’intrigo?
È difficilissimo «chiarire» una storia simile, già poco chiara in partenza e vecchia di quattrocento anni. C’è un altro gesuita, però, Francis Edwards, che, in tempi ben più recenti rispetto alla controversia tra Gerard e Gardiner, ha dedicato la vita ad indagare sui complotti di epoca elisabettiana e giacobita. Trovo la sua meticolosa ricostruzione dei fatti assolutamente affascinante. La vicenda in sé è semplice e anche piuttosto nota (a prescindere da V per Vendetta): il 5 novembre 1605 fu sventato a Londra quello che rimase forse l’atto terroristico più celebre e raccapricciante – anche a livello simbolico – dell’era moderna. Il cattolico Guy Fawkes, esecutore materiale dell’attentato ai danni della monarchia e del parlamento, fu immortalato nel «Guy Fawkes’ Day», celebrato ininterrottamente in quella data da allora ai giorni nostri.
Perché hai deciso di passare dalla saggistica a un romanzo che è, credo, a metà tra il romanzo storico e il giallo?
Un romanzo stava lì, in un cassetto della mente, almeno dai tempi del liceo. Il romanzo storico, poi, unisce le mie due passioni indiscusse, letteratura e storia. Diciamo che finora ho raccolto forze e strumenti in attesa del momento «giusto», nel senso che un romanzo è decisamente più faticoso di un saggio, perché è un’esperienza totalizzante. Il saggio è semplice ricerca, analisi e sintesi, mentre la narrativa, come direbbe Tolkien, è sub-creation: noi, fatti a immagine di Dio Creatore, creiamo a nostra volta il nostro piccolo mondo. E durante la «creazione» viviamo in quel mondo: dentro i personaggi, insieme ai personaggi e nel loro ambiente. È tinto di giallo perché credo che un romanzo debba essere avvincente e certo la faccenda delle Polveri lo è; sia per le circostanze in cui si verificò, sia perché nelle ricostruzioni dell’accaduto diversi conti non tornano. E quindi mi stupisce che nessuno, in tempi recenti, abbia pensato a un romanzo sull’argomento, mentre invece, per fare un esempio, le versioni della storia d’amore tra Enrico VIII e Anna Bolena non si contano più.
Qual è il tuo maestro o, se preferisci, quali sono i tuoi punti di riferimento, i grandi scrittori a cui ti ispiri?
Shakespeare, of course, che, oltre a molto altro, ha anche insegnato ai posteri a “risuscitare i morti”, come afferma il suo Prospero nella Tempesta. Non è a caso che il romanzo storico sia nato in Inghilterra, con gli History Plays come pilastri. E poi i grandi romanzieri dell’Ottocento, Tolstoj e Dostoevskij in testa a tutti, seguiti da George Eliot e dalle Bronte. Del Settecento, Fielding. Del Novecento, Orwell e Tolkien.
Il protagonista è Jack, un ragazzo, figlio di un cospiratore condannato a morte, che, per essere riabilitato nella società, è costretto a distaccarsi dalla famiglia, a ripudiare il suo passato e giurare fedeltà. Delinei bene la sua inquietudine prima e poi il suo tentativo di dimenticare per poter ricominciare. Ma questo si rivela impossibile… Perché?
Perché deve diventare uomo. In questo senso parliamo anche di Bildungsroman. Si diventa uomini (o donne) affrontando difficoltà e frustrazioni, non fuggendo e cercando il compromesso meno doloroso. Jack è fortunato perché fa incontri importanti che gli permettono di diventare uomo.
Tra i diversi personaggi incontriamo anche dei letterati. Shakespeare su tutti. Qual è il volto umano di questo grande genio?
In realtà non lo sappiamo! A noi studiosi piace però identificarlo con quel che si può evincere dalle sue opere: amore per la giustizia, sano patriottismo, fedeltà, simpatia per i deboli e i perseguitati, insieme a un’attenzione tutta particolare rivolta alle piccole gioie quotidiane e al mondo campestre.
Ne L’enigma di Shakespeare ti sei già soffermata sullo scrittore tra l’altro parlando della sua cattolicità. In che senso? Che cosa sostengono gli ultimi studi al riguardo?
Se per «Cattolicità» intendiamo universalità e trasversalità, siamo a posto e tutti concordi. Se invece parliamo di fede, andiamo a toccare una nota dolente per il mainstream, soprattutto anglofono. Però ormai persino loro ammettono che, quantomeno, cattolico era il suo retroterra. Quanto alle tracce di «papismo» nelle opere, tenendo conto che si trattava di una fede proscritta e perseguitata, per individuarle bisogna conoscere in modo dettagliato, oltre alle circostanze storiche di ogni opera, anche il «papismo». In altre parole, piuttosto ovviamente, scoprire il cattolicesimo spetta ai cattolici. Ma qui bisogna leggere accuratamente e in controluce, dato che la censura poteva bloccare contenuti religiosi troppo espliciti. In questo campo l’altro mio grande maestro, il caposcuola della corrente «cattolicista», è stato Peter Milward, scomparso il mese scorso a novantun anni. A lui, amico carissimo, il mio romanzo è dedicato.