C’era una volta il Medioevo. Il Medioevo luccicante e colorato erede degli stilemi figurativi vittoriani e preraffaeliti, il Medioevo dei cavalieri e dalle dame da salvare, un’età da molti di noi sognata e fantasticata durante l’infanzia e che, nel corso dell’ultimo secolo, si è lentamente sedimentata nel nostro immaginario grazie soprattutto all’industria cinematografica.
di Riccardo Facchini da
Sebbene infatti molti studiosi e appassionati dell’Età di Mezzo si considerino costantemente alla ricerca di prodotti di intrattenimento quanto più “fedeli” al passato, sarebbe disonesto non ammettere che molti di noi si siano avvicinati allo studio del Medioevo grazie proprio al Medioevo immaginario, a quel “Medioevo secondo Walt Disney” per citare un lavoro di Matteo Sanfilippo, troppo spesso denigrato dagli accademici o tutt’al più rilegato a curiosa espressione della cultura popolare.
Questo Medioevo, che merita invece di essere analizzato grazie alle competenze degli studiosi che si occupano di indagare la ricezione e la rappresentazione dell’idea di Medioevo, però non esiste più. O meglio, non è più il modello che la grande industria di intrattenimento tende a preferire nel momento in cui si desideri offrire al pubblico un prodotto di ambientazione medievale, medievaleggiante o fantasy. Ciò che è subentrato prepotentemente nel nostro immaginario nel corso dell’ultima decade è infatti un Medioevo che alcuni studiosi hanno definito “gritty”, un termine che, in italiano, potremmo tradurre con “crudo” o “realistico”.
Esempio evidente di questo Medioevo è la fortunatissima serie televisiva Game of Thrones, (d’ora in poi GoT), prodotta dall’emittente statunitense HBO a partire dal 2011 e tratta dalla saga di George Raymond Richard Martin A song of Ice and Fire. Chiunque abbia visto anche soli pochi minuti della serie in questione saprà sicuramente a cosa mi riferisco: le puntate infatti sono spesso connotate da una elevata presenza di crude scene di sesso e violenza, che nulla hanno a che fare con le atmosfere più rassicuranti di altri prodotti di ambientazione analoga a cui il grande pubblico era stato finora abituato.
Ciò che mi interessa in questa sede evidenziare è che la scelta di raffigurare l’Età di Mezzo come un’epoca costellata da ingiustizie, misoginia e violenze di ogni sorta non è (o almeno, non è soltanto) stata dettata de mere motivazioni di carattere commerciale. Sebbene un certo tipo di far televisione sia ormai condiviso da molte emittenti – prima tra tutte la HBO, che produce GoT – il Medioevo “gritty” di Martin è anche e soprattutto il frutto di una precisa scelta stilistica che affonda le sue radici in un determinato modo di guardare alla storia e, in particolare, alla storia medievale.
In un’intervista rilasciata alla rivista «Rolling Stone», G.R.R. Martin, alla domanda se GoT fosse ispirata alla Guerra delle Due Rose e ai romanzi che l’hanno narrata, Martin rispondeva positivamente, ma aggiungeva che “the problem with historical fiction is that you know what it’s going to happen”. Il problema del romanzo storico è che sai già cosa succederà.
Tale dichiarazione lascia intendere uno dei motivi ricorrenti nel pensiero dell’autore, cioè la convinzione di aver creato una saga non lontana dall’idea di romanzo storico, con l’innesto di pochi elementi fantasy, ambientata in un mondo parallelo ispirato a luoghi ed eventi “medievali”. È lui, infatti, ad aver paragonato la Barriera (enorme muraglia ghiacciata eretta a nord del continente di Westeros) al Vallo di Adriano, o ad aver rilasciato dichiarazioni come “I like to use history to flavour my fantasy”. Mi piace usare la storia per condire la mia fantasia.
La sua opera, e in particolare la sua trasposizione televisiva, dimostra però anche e soprattutto il riflesso di secoli di interpretazioni e rielaborazioni dell’idea di Medioevo, che egli puntualmente mostra di aver assimilato o radicalmente e volontariamente rifiutato.
È infatti lecito chiedersi, quando Martin parla di Medioevo, esattamente, a quale Medioevo si riferisca. A riguardo può tornare utile ricordare quei “dieci modi” di sognare il Medioevo delineati da Umberto Eco nel 1983, tra i quali, a mio avviso, i due che più hanno influenzato l’immaginario di GoT sono quelli che lo scrittore definiva il modo “romantico” e quello “barbarico”.
L’idealizzazione romantica, e soprattutto la sua eco novecentesca, ha ricoperto un ruolo basilare nella formazione dell’autore, nato nel 1948, cresciuto negli anni in cui si affermava Il Signore degli Anelli (la prima edizione è del 1955) e in cui la Disney codificava il suo Medioevo grazie a lungometraggi come La Spada nella Roccia (1963).
Entrambi questi poli – unitamente alla saga di Maurice Druon I Re Maledetti – sono fondamentali nella comprensione della idea di Medioevo di Martin, poiché sono i punti da cui partirà per poi distaccarsene nettamente.
In particolare, la sua attenzione si concentrerà non tanto sull’opera di Tolkien, ma su quella dei suoi emuli, cioè su quel filone definito solitamente High Fantasy o Sword and Sorcery sviluppatosi in seguito alla pubblicazione della trilogia.
Gli imitatori di Tolkien avrebbero infatti la colpa di averne radicalizzato l’impostazione, rinchiudendosi in schemi che diventeranno poi tipici di buona parte del fantasy novecentesco come, ad esempio, la netta divisione tra bene e male o tra eroi e antagonisti. Per descrivere questo fenomeno, Martin parla di “Disneyland Middle Ages”, laddove il riferimento al parco divertimenti vuole polemicamente alludere alla creazione di un Medioevo falso, erede degli stereotipi vittoriani, creato per quella fetta di popolazione statunitense in cerca di punti di riferimento morali certi.
Nonostante le sue dichiarazioni di “realismo” storico assistiamo quindi in Martin non alla rappresentazione di una percezione del “vero” Medioevo, ma di un Medioevo già mediato, già filtrato attraverso precedenti rappresentazioni. Questo brutale distaccarsi di Martin dal “Disneyland Middle Ages” – un’espressione oltretutto utilizzata in modo simile da Tyson Pugh e Susan Aronstein nel loro Disney Middle Ages – ha suscitato spesso le paure di spettatori preoccupati per i propri figli o le ire dei movimenti femministi, secondo i quali le scelte di Martin, traslate in modo ancor più crudo sul piccolo schermo, sono dettate solo da ragioni di mercato o, nel caso peggiore, da posizioni maschiliste.
A tali accuse l’autore ha sempre risposto di non aver fatto altro che raffigurare il “vero” Medioevo o di essere addirittura un femminista e, in merito all’elevata presenza di scene di violenza sessuale, di aver narrato non le espressioni di una sessualità contemporanea, ma di una di tipo medievale. Sembra quindi che l’ossessione per il realismo non abbia fatto altro che condurre Martin a raffigurare un Medioevo non lontano da quello di molti stereotipi.
Emblema del travagliato passaggio da un immaginario medievale post-vittoriano ad uno “gritty” è il personaggio di Sansa Stark, incarnazione dello spettatore medio, cresciuta ascoltando le gesta dei cavalieri e poi scontratasi con la realtà della corrotta capitale del regno, Approdo del Re. È infatti proprio lei la vittima di quella violenta rieducazione dei personaggi condotta da Martin che si traduce nel passaggio da un Medioevo all’altro, dall’età infantile a quella adulta. Eloquente al riguardo è la battuta in cui l’eroina riconosce che nella vita “Non ci sono eroi. Nella vita sono i mostri a vincere”.
Nonostante il continuo richiamo al realismo, il Medioevo di GoT rimane però una anche summa di tutti i Medioevi immaginati o sognati dall’Occidente. Usando le categorie delineate da Cardini nel 1986, in GoT possiamo infatti trovare quello barbarico, colto, feudale, cittadino, nordico, mediterraneo, mistico, scettico, irreligioso, mercantile e guerriero. Realtà cronologicamente e spazialmente lontane tra loro, ma qui unite in un unico universo.
In GoT non si attinge però a piene mani da topoi neomedievali solo per trasmettere una precisa idea di Medioevo, ma anche per invitare lo spettatore al paragone con la società odierna, immettendo così nella narrazione anche quel “necessario anacronismo” di cui parlava György Lukács a proposito del romanzo storico. Il realismo in Martin, secondo Elyzabeth Wawrzyniak, si delinea quindi spesso come una “coperta ideologica” che giustifica le sue scelte stilistiche e contenutistiche.
Se questa operazione ha avuto successo (GoT ha battuto infatti il record di show televisivo più scaricato e piratato della storia), ciò è probabilmente dovuto a una lunga serie di fattori. Escludendo quelli più squisitamente tecnici, tra essi possiamo sicuramente annoverare il medievalismo di Martin, che sembra combaciare con la definizione di Tison Pugh e Angela Jane Weisl, che lo definiscono “a comment on the artist’s contemporary sociocultural milieu”. Un commento sull’ambiente socioculturale contemporaneo dell’artista.
Martin, narrando le vicende che si svolgono nel continente di Westeros, interagisce infatti spesso col suo pubblico e con i temi cari a quest’ultimo.
Egli non si limita soltanto a sovvertire i canoni del genere, a ingannare le aspettative dei fan, a “giocare” con la nostra idea di Medioevo, ma mira anche a intrattenere un contatto stabile con la contemporaneità.
Tale aspetto, senza scadere nel “presentismo”, ovvero nella tentazione di paragonare qualsiasi evento narrato con eventi o aspetti dell’attualità, merita di essere indagato sia per capire le intenzioni dell’autore, e il ruolo che il Medioevo ha nello svolgere questo ruolo, sia per studiare la ricezione e l’impatto della serie.
Nonostante infatti GoT possa sembrare “solo” una serie televisiva, essa è anche un prodotto sociale storicamente condizionato, che proietta le nostre ansie e paure in un lontano e immaginario Medioevo dipinto, in questo caso, con pretese di realismo storico. Martin, cristallizzando una versione del Medioevo che reputa verosimile, ci ha restituito uno spaccato di come l’uomo contemporaneo oggi veda e immagini l’Età di Mezzo.
La sua, così come gran parte delle produzioni audiovisive di argomento storico, è quindi quasi un’opera storiografica degna di investigazione, che conferma in un certo senso ciò che Marc Ferro sosteneva negli anni Settanta, quando affermava che l’immaginario sia “storia tanto quanto la storia”.
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