«Ti invoco, padre mio Amon. Sono nel mezzo di una folla sconosciuta. Tutti i paesi stranieri hanno fatto lega contro di me, e mi ritrovo solo, senza nessuno. Le mie numerose truppe mi hanno abbandonato e nessuno dei miei carristi si occupa di me. Ho un bel gridare verso di loro, nessuno intende i miei richiami. So che Amon mi sarà di maggiore aiuto che milioni di fanti, che centinaia di migliaia di carri, che diecimila fratelli e figli uniti nello stesso slancio».
Maurizio Assalto da del 9 luglio 2017
Nel momento più drammatico della battaglia, quando tutto sembra perduto, dalla nube di polvere che oscura la piana di Qadesh si leva la preghiera del giovane Ramesse II al dio più potente del pantheon egizio, che nell’ ideologia del potere faraonico è concepito come padre di tutti i sovrani. E il dio risponde. «Mi tese la mano, e me ne rallegrai. Mi parlò dietro le spalle, come se fosse vicino: “Coraggio! Sono con te. Sono tuo padre e ti darò man forte. Sono meglio di centomila uomini, sono il signore della vittoria e amo il valore!”».
In un giorno di fine maggio di un anno non ben precisabile all’ inizio del XIII secolo a. C. – i calcoli cronologici sono discordanti, ma i più propendono per il 1274 – quello che passerà alla storia come il «faraone trionfante» fa le prime prove della propria epopea. A Qadesh, a metà strada tra Sinai e Anatolia, nella regione siriana, va in scena il grande scontro tra Egitto e impero ittita, le due superpotenze dell’ epoca. Da una parte Ramesse, al quinto anno del suo lunghissimo regno, dall’ altra il maturo Gran Re Muwatalli II.
Minuto per minuto
È la prima battaglia della storia: nel senso che è la prima di cui ci sia giunta documentazione scritta e visiva, e in grande copia, quasi un «tutto Qadesh minuto per minuto». Tanto che oggi, con qualche cautela, possiamo seguirne lo svolgimento nei minimi dettagli.
E fa una certa impressione pensare che più o meno negli stessi anni un altro grande conflitto avvenuto alla periferia nord-occidentale di Hatti (come anche era noto l’impero ittita), ossia l’ assedio degli aggressivi Ahhiyawa sul regno vassallo di Wilusa, dovette aspettare secoli per condensarsi nella mitologica guerra cantata da Omero. La cautela è imposta dalla considerazione che della epocale battaglia ci è giunta soltanto la versione egiziana, abbondantemente viziata dalle finalità propagandistiche del faraone, mentre nulla è rimasto da parte ittita – a meno che gli scavi di Tarhuntassha, la capitale di Muwatalli localizzata dieci anni fa, non restituiscano le tavolette degli archivi reali.
L’ antefatto della battaglia di Qadesh era stata la campagna condotta da Ramesse un anno prima lungo la costa siriana per riprendere il controllo dei territori perduti ai tempi del «criminale» Akhenaton, il faraone monoteista su cui si era abbattuta la damnatio memoriae .
Grande produttrice di grano e snodo cruciale nei rapporti commerciali tra Mediterraneo e Vicino Oriente, la Siria era suddivisa in piccoli regni, vassalli di volta in volta dell’ Egitto o di Hatti. L’ avanzata del faraone si era conclusa con la riconquista di Amurru, il regno che due generazioni prima aveva sottoscritto un trattato con Suppiluliuma, nonno di Muwatalli, e il cui re Benteshinna non aveva esitato a passare nuovamente dalla parte degli egiziani.
Assicuratasi la costa, Ramesse poteva rivolgersi verso l’ interno: adesso toccava a Qadesh.
Il faraone partì dalla sua capitale Pi-Ramesse, sul delta del Nilo, nella primavera dell’ anno successivo, alla testa di un’ imponente armata composta da quattro divisioni – ognuna delle quali contava circa 5000 soldati e 500 carri – che portavano i nomi delle divinità tutelari della città in cui erano di stanza, Amon, Ra, Seth e Ptah.
A queste si aggiungeva un corpo di spedizione formato da uomini scelti a cui era stato affidato l’ incarico di risalire la costa per convergere da Occidente al momento dello scontro, con una manovra aggirante, in modo da stringere i nemici in una tenaglia. In quanto guidati dal dio incarnato – il faraone, che aveva il potere di mantenere l’ ordine nel cosmo nilotico e se il caso di estenderlo oltre confine, respingendo i barbari nel caos circostante – gli egiziani non potevano dubitare della vittoria.
Dopo aver percorso quasi 700 chilometri in un mese, Ramesse, alla testa della divisione di Amon, guadò il fiume Oronte e si accampò a Nord-Ovest di Qadesh, mentre le altre divisioni procedevano a distanza con qualche difficoltà nei collegamenti. E qui scattò la trappola di Muwatalli.
«Ucciderò, massacrerò…»
Secondo le convenzioni dell’ epoca, le battaglie avevano uno svolgimento formale, che prevedeva la scelta del terreno da parte dei difensori: in questo caso gli Ittiti, che però agirono altrimenti.
Mandarono avanti due beduini, che si consegnarono al faraone informandolo che il Gran Re si trovava nei pressi di Aleppo, a 190 chilometri di distanza. Invece l’esercito ittita, di cui le fonti egiziane enfatizzano la consistenza per farlo apparire molto più numeroso del loro, si era acquartierato già da qualche giorno a Qadesh antica, a tre chilometri dal nuovo insediamento.
L’ attacco partì a sorpresa, il giorno 10, contro la divisione di Ra che aveva appena superato l’Oronte e fu in breve travolta dai micidiali carri nemici, i panzer dell’ antichità. Quindi la soverchiante armata di Hatti si riversò sull’ accampamento della divisione di Amon per chiudere la partita. E qui, in mezzo ai suoi soldati in rotta, Ramesse decise che il suo momento era venuto.
Al fedele Menna che lo esortava a mettersi in salvo («Guarda, fanteria e cavalleria ci hanno abbandonato! Perché stai qui a proteggerli?»), il faraone rispose con regale imperturbalità: «Sii fermo, rincuora te stesso, o mio scudiero! Io agirò per loro come l’ artiglio di un falco, ucciderò, massacrerò, li getterò al suolo!».
Con una serie di efficaci contrattacchi, e grazie all’ arrivo del corpo di spedizione proveniente dalla costa, Ramesse riuscì a fermare il nemico. «Sua Maestà sorse come suo padre Montu.
Afferrò le armi da battaglia, infilò la cotta di maglia: era Baal in azione!». Per non restare intrappolati, gli Ittiti dovettero ripiegare disordinatamente oltre il fiume, dove molti, compresi due fratelli di Muwatalli, trovarono la morte. Al racconto degli scribi, nel Poema e nel Bollettino di Qadesh, fa puntuale riscontro la rappresentazione «cinematografica» sulle mura dei templi, da Abido a Karnak a Tebe a Abu Simbel, dove le diverse fasi della battaglia sono «montate» in modo da riempire ogni spazio, senza rispettare la successione cronologica: qua il faraone con il suo scudiero, là ancora il faraone nell’ atto di tendere l’ arco, e poi i cadaveri degli Ittiti nell’ Oronte, e il re di Aleppo, loro alleato, appeso a testa in giù per fargli vomitare l’ acqua ingurgitata nel fiume, le spie nemiche flagellate per farle confessare, gli scribi che annotano il numero delle mani sinistre amputate ai nemici uccisi, in una macabra contabilità.
Il giorno dopo, raggiunto anche dalla divisione di Ptah, fu Ramesse a prendere l’ iniziativa dell’ attacco. Ma ben presto ci si rese conto che i due eserciti, ormai sfiniti, non potevano continuare la battaglia. Muwatalli inviò una proposta di armistizio: «Guarda: ieri hai passato il giorno a uccidere centomila uomini e oggi sei ritornato e non risparmi gli eredi. Non portare troppo avanti il tuo vantaggio, re vittorioso! La pace è migliore della guerra». I generali egiziani, convocati dal faraone, concordarono: «La pace è il miglior bene, sovrano nostro signore! Non vi è colpa nella riconciliazione».
Il trattato di pace
Bisogna però ricordare che questa è la versione egiziana. Nonostante l’ imponente apparato celebrativo dispiegato da Ramesse, la battaglia con tutte le sue vittime non era servita che a ribadire lo status quo . La linea di confine tra le due potenze non si era spostata, Qadesh restava in mano agli Ittiti, e dopo la ritirata dell’ esercito egiziano anche Amurru era stata ripresa da Hatti. Muwatalli morì poco dopo, e il fratello Hattusili, che gli succedette spodestando il nipote, si premurò di stabilire buoni rapporti con Ramesse. I due re si scambiarono lettere e doni, e altrettanto fecero le loro spose principali, Nefertiti e Puduhepa.
Ma al trattato di pace vero e proprio si giunse soltanto nel 1259. Il testo ci è pervenuto sia nella versione egizia sia in quella ittita, riemersa dagli archivi reali di Hattusha, dove il nuovo sovrano aveva riportato la capitale. È il più antico documento esistente di questo genere. I due sovrani si giurarono «fraternità eterna», impegnandosi al rispetto dei confini e all’aiuto reciproco in caso di attacchi esterni o interni. Per il suo dosato equilibrio questo documento è considerato ancora oggi esemplare, e una sua copia è esposta nella sede delle Nazioni Unite a New York.