Pacchi su pacchi di schede: «Così grossi, raccontava mio padre, che ci si potevano infilare le braccia». Tutte schede già votate, e tutte con la croce sullo stesso segno: a sinistra, sull’Italia turrita che simboleggiava la Repubblica, contro la monarchia rappresentata dallo scudo dei Savoia.
di Luca Fazzo da Il Giornale del 12/12/2016
Il giovane brigadiere Tommaso Beltotto vide quelle schede, negli scantinati del ministero degli Interni. Era la notte del 4 giugno del 1946, e i risultati del referendum non erano stati ancora annunciati, ma la voce nei palazzi romani già girava: vittoria alla Repubblica, Umberto II si preparava all’esilio di Cascais. Di ombre su quel risultato si è sempre parlato. Ma ora, a settant’anni di distanza, arriva il ricordo di un testimone oculare dei brogli. Tommaso Beltotto allora aveva venticinque anni, e già alle spalle una vita intensa. Controfirmò la relazione del duca Giovanni Riario Sforza, comandante in capo dei corazzieri reali, con la descrizione minuziosa di quei sacchi nelle cantine del Viminale. E proseguì la sua vita da carabiniere.
Sono passati settant’anni, Beltotto è morto nel 2001. Di quei sacchi non ha più parlato, se non in famiglia. Oggi è suo figlio Gianpiero a raccontare in presa diretta al Giornale l’immagine quasi fotografica del referendum truccato, così come riferita da suo padre. A cosa dovessero servire quei sacchi di schede truccate, Beltotto non lo sapeva, e non lo sappiamo noi oggi: erano già state conteggiate come vere, o dovevano servire in caso di bisogno per ribaltare un risultato sgradito? Di sicuro, erano la prova concreta di un referendum fasullo.
Suo padre si era scandalizzato? «Era un uomo concreto, realista. Semplicemente, quando in televisione o sui giornali qualcuno ipotizzava brogli nel referendum del 1946, sorrideva: c’è poco da ipotizzare, i brogli li ho visti con i miei occhi».
Il brigadiere Tommaso Beltotto non era lì per caso, la notte del 4 giugno. Nel settembre del 1943, quando comandava la stazione dell’Arma a Monterotondo, aveva avuto l’ordine di arrendersi ai tedeschi e consegnare le armi: se ne era ben guardato, e si era unito alla Resistenza con i suoi fucili e i suoi carabinieri
Durante la guerra civile aveva fatto da collegamento tra le truppe partigiane di montagna e i reparti che operavano a Roma: e fu testimone dei tentativi vani del Cln di bloccare l’attentato di via Rasella. «Insomma – dice suo figlio – aveva una fama di persona equilibrata e devota. Sono convinto che il maggiore Riario Sforza quei sacchi di schede truccate li avesse già visti prima, e che avesse bisogno di un testimone affidabile». Qualcuno, cioè, che non andasse a raccontare al bar l’incredibile scoperta: e che però fosse pronto, nel momento del bisogno, ad attestarne la verità.
Così quando il duca Riario Sforza (che pochi giorni dopo verrà ritratto in foto rimaste storiche, mentre saluta per l’ultima volta Umberto che lascia il Quirinale) dovette scegliere qualcuno che controfirmasse il suo rapporto, la scelta cadde quasi inevitabilmente su Beltotto, che non era un suo subalterno, ma che aveva avuto modo di conoscere in quei frangenti delicati e complessi. Erano due uomini perbene e rigorosi, il duca e il brigadiere.
Il primo devoto di casa Savoia. Il secondo carabiniere fin nel midollo, «ma al referendum – dice il figlio – aveva votato Repubblica». Mettono per iscritto ciò che hanno visto, e sanno di avere fatto il loro dovere.
Dell’esistenza del rapporto si è saputo nel settembre scorso, nell’aula del processo a Palermo per la presunta trattativa Stato-mafia, ormai evoluto in una bizzarra ricognizione giudiziaria dell’intera storia della Nazione. Un generale in congedo dei carabinieri, Niccolò Gebbia, ha raccontato che la relazione di Riario Sforza venne trasmessa al generale Romano Dalla Chiesa. L’originale, o una copia, arrivò nelle mani del figlio del generale, Carlo Alberto: che proprio per questo sarebbe stato corteggiato dal capo della P2, Licio Gelli, cui quel rapporto avrebbe fatto gran gioco; ma evidentemente non lo ottenne.
E i fogli erano forse nella cassaforte della prefettura di Palermo che venne svuotata nel 1982 poco dopo che Carlo Alberto Dalla Chiesa era stato ucciso.
Che fine abbia fatto il rapporto, insomma, non si sa: e potrebbe essere uno dei tanti misteri delle nebbie impenetrabili che avvolgono quegli anni. D’altronde Riario Sforza è morto da tempo, e sono morti anche i suoi due figli: e la nuora, Elisa, racconta che «in casa di questa vicenda non ho mai sentito parlare». Ma per fortuna nelle cantine del Viminale il duca non era da solo. C’era con lui il brigadiere Beltotto.
Era nato nel 1918 a Trinitapoli, in provincia di Foggia: e l’unica vera marachella della sua vita era stata alzarsi l’età, per arruolarsi nell’Arma prima ancora di essere maggiorenne. La sua biografia negli anni convulsi dopo l’armistizio è simile a quella di tanti italiani disabituati a decidere dal ventennio fascista, e che pure al momento di fare una scelta non si tirarono indietro. Ma Beltotto ad orientarlo aveva una stella polare: l’Arma. Perché gli alamari da carabiniere li aveva sulla pelle.
E scelse la sua strada liberamente solo perché era stato il Re a scioglierlo dal giuramento che aveva prestato. D’altronde proprio Monterotondo, dove Beltotto era comandante, era stato teatro di uno dei primi e più cruenti scontri tra reparti italiani e truppe tedesche, paracadutate dalla Luftwaffe sulla cittadina per conquistare Palazzo Barberini, sede provvisoria dello Stato Maggiore.
Fece la sua parte, con semplicità e concretezza, e non immaginava che di lì a poco si sarebbe trovato, in quella cantina del Viminale, a fare da testimone a un crocevia della storia. Della sorte del suo rapporto probabilmente non si preoccupò più, perché il suo dovere lo aveva fatto e concluso firmandolo.
Di come una copia, o l’originale, potesse essere arrivata nelle mani di Dalla Chiesa forse non seppe niente, e comunque a casa non ne parlò. «Ma io sono convinto – dice il figlio Gianpiero – che un esemplare fosse comunque approdato a re Umberto, e che se si cercasse attentamente nelle carte di Cascais qualcosa forse salterebbe fuori». Una sola volta Beltotto ne parlò con un politico: avvenne a Ortisei, dove negli anni Sessanta, ormai maresciallo, indagava sugli attentati degli indipendentisti. Un politico passava spesso le vacanze in zona, e Beltotto confidò a lui la storia dei sacchi di schede. Ma il politico si chiamava Giulio Andreotti e, ovviamente, non lo disse a nessuno.