Lo storico francese Le Moal, in un saggio approfondito, rivaluta il sovrano che vinse la Prima guerra mondiale ma dovette convivere col fascismo. Pagandone le conseguenze.
di Francesco Perfetti da “Il Giornale” del 09/09/2015
Vittorio Emanuele III salì al trono all’inizio del secolo scorso e vi sarebbe rimasto per quasi mezzo secolo, fino al 1946. La cerimonia – che seguì, com’era tradizione, quella funebre per il padre Umberto assassinato a Monza – si tenne l’11 agosto 1900 a Palazzo Madama in un’aula parata a lutto, di fronte a deputati e senatori visibilmente commossi.
Quel giorno, un sabato, era particolarmente caldo, uno dei più caldi di una estate tanto torrida che Leone XIII aveva fatto sospendere i pellegrinaggi. La città era semideserta, ma l’aula, anche nelle tribune laterali riservate al pubblico, straripava. C’era una grande attesa per le parole del nuovo sovrano, il primo principe di Savoia nato nell’Italia unita. Il discorso, in realtà, era stato scritto dal vecchio Giuseppe Saracco, ma lui, Vittorio Emanuele, aveva voluto rivederlo di persona e lo aveva ritoccato e integrato.
L’ascesa al trono del «piccolo Re» avvenne in un momento particolare. Coincise con una svolta politica, economica e sociale. Il Paese, avviato sulla strada di una faticosa industrializzazione, assisteva sia all’affermazione delle idee socialiste sia al destarsi di quel sentimento nazionalista che, di lì a qualche tempo, avrebbe conquistato borghesia colta e ceti intellettuali. Vittorio Emanuele III impresse al regno uno stile diverso da quello che aveva caratterizzato il regno del padre. Umberto aveva dato spazio alla corte, puntando sull’esigenza di rappresentatività di una monarchia che aveva ancora bisogno di consolidarsi come espressione dello Stato unitario nelle coscienze dei cittadini. Vittorio Emanuele, invece, stabilì un clima di austerity: tagli drastici di spese, falcidia di servitù, eliminazione degli aspetti sfarzeschi e mondani della vita di corte. Questa scelta fu certamente “politica” ma anche, per certi versi, legata alla personalità del sovrano. Durante il regno del padre, Vittorio Emanuele non aveva avuto ruoli di primo piano. Era stato un bambino introverso ma intelligente, gentile e generoso, probabilmente anche infelice, perché consapevole del suo stato di inferiorità fisica. Con i genitori aveva avuto relazioni formali e, quasi, episodiche. La sua educazione, dagli otto ai vent’anni, era stata affidata al tenente colonnello Egidio Osio, rigido ufficiale milanese già addetto militare a Berlino dove aveva conosciuto il principe ereditario Federico Guglielmo di Prussia. La natura schiva del suo carattere e l’umore arcigno avevano, forse, contribuito a tenere Vittorio Emanuele ancor più in disparte di quanto le regole protocollari avrebbero richiesto e a fargli diffidare della vita di corte. Non a caso alcuni studiosi videro in lui, e nel suo attaccamento alla vita familiare, un «re borghese».
Eppure, Vittorio Emanuele III non fu, o non fu soltanto, un sovrano borghese. Lo dimostra la bella biografia dello storico francese Fréderic Le Moal, appena pubblicata con il titolo Victor-Emmanuel III. Un roi face à Mussolini (Perrin, pagg. 560, Euro 26): un’opera, frutto di anni di ricerche in archivi pubblici e privati e che, legittimamente, al di là di valutazioni più o meno condivisibili, ambisce ad essere la prima biografia veramente “scientifica” di un personaggio che è, a detta dell’autore, uno dei sovrani «più enigmatici» del XX secolo. Il titolo farebbe pensare a un lavoro sui rapporti fra Vittorio Emanuele III e Mussolini, ma in realtà ci troviamo di fronte a una biografia classica, che segue la vita del sovrano dalla nascita alla morte e all’interno della quale la parte dedicata ai rapporti fra Corona e fascismo è importante, ma non più importante di altri periodi.
Vittorio Emanuele III non aveva un carattere facile. Era chiuso, sospettoso, apparentemente freddo. Non era facile alle amicizie, ma aveva la capacità di saper giudicare gli individui. Di Giovanni Giolitti, per esempio, per tanti versi da lui così diverso, seppe cogliere le grandi e indiscutibili capacità politiche che ne fecero il dominatore incontrastato di tutta un’epoca. E ciò, anche se fra i due non si stabilì mai un rapporto di cordialità e amicizia e, anzi, si creò una frattura profonda, o quanto meno una freddezza ostentata, quando, in occasione del Primo conflitto mondiale, la scelta fra interventismo e neutralismo li fece trovare schierati su sponde opposte.
Sul «piccolo Re», e sul giudizio storico-politico che ne è stato dato, ha pesato molto il rapporto con Mussolini. Ma quale fu veramente questo rapporto? Le Moal lo analizza a fondo, al di fuori dei luoghi comuni. Il sovrano e il capo del fascismo appartenevano a mondi ideali e politici del tutto eterogenei. È fuori discussione il fatto che si guardarono sempre, l’un l’altro, con malcelata diffidenza, mista a un reciproco sentimento di inferiorità. Mussolini, in fondo, rimase, sempre, repubblicano e non abbandonò mai del tutto l’idea di liquidare, prima o poi, la monarchia. Vittorio Emanuele III, dal canto suo, non provò mai eccessiva simpatia per un uomo che considerava un avventuriero della politica. Cionondimeno, i due, «solitari prigionieri della loro stessa solitudine» (un’espressione di Dino Grandi), si intesero. Non è un caso che il 18 giugno 1943, alla vigilia del colpo di Stato, Vittorio Emanuele III, parlando di Mussolini, esclamasse: «Eppure quell’uomo ha una gran testa».
Il sovrano guardò, però, sempre con preoccupazione al fascismo. Anche la scelta di affidare, nell’ottobre 1922, all’indomani della marcia su Roma, venne fatta non per convinzione ideologica ma per ragioni di opportunità politica, per evitare uno scontro sanguinoso e nella convinzione di poter dar vita a un «compromesso» controllabile. Durante il ventennio la collaborazione tra il Re e il Duce fu tutt’altro che priva di spine. Le Moal ricorda tanti motivi di contrasto – la creazione, per esempio, del grado di primo maresciallo dell’impero o il varo delle leggi razziali – ma sottolinea la riluttanza di Vittorio Emanuele III a scegliere la strada della prova di forza, un po’ per il suo formalismo giuridico e un po’ per evitare il rischio di una guerra civile. La decisione di liquidare Mussolini e il regime, il Re la prese troppo tardi, impostando un «complotto del Quirinale» che fu preceduto dalla «congiura» del 25 luglio 1943. Uno degli errori «più tragici» di Vittorio Emanuele III fu, secondo Le Moal, quello di non aver lasciato il figlio Umberto a Roma, dopo l’armistizio dell’8 settembre, e di aver impedito che questi, com’era sua intenzione, interrompesse il viaggio verso il Sud e vi ritornasse. Dalle pagine del volume di Le Moal, documentato ed equilibrato, emerge un ritratto a tutto tondo di Vittorio Emanuele III, il «Re della vittoria» nella prima guerra mondiale, ma anche il Re del «compromesso» con il fascismo e l’uomo che concluse, dignitosamente, la sua esistenza in esilio, chiuso e taciturno sotto il peso di responsabilità politiche, vere o presunte, e del ricordo di eventi che non era riuscito a controllare.