Una nuova biografia del leader comunista che sottoponeva i suoi collaboratori a ogni sorta di umiliazione, tenendoli svegli fino a notte fonda. Conosceva poco l’economia, che trattava come una fortezza da espugnare. E giustificava i suoi crimini come un frutto della legge della storia.
di Tommaso Piffer da il Club della Lettura del Corriere della Sera del 16 giugno 2015
Gestiva direttamente e con pugno di ferro ogni aspetto della vita della sua dacia, la casa di campagna alle porte di Mosca, dove soggiornava sempre più di frequente. Controllava tutto, senza lasciare niente nelle mani dei subordinati, inviando quasi ogni giorno ordini dettagliati che spaziavano dalla coltivazione delle piante all’amministrazione della dispensa. Lo stesso «approccio patriarcale» lo avrebbe applicato, con esiti tragici, a una proprietà ben più grande: l’Unione Sovietica. È uno Stalin inedito quello che emerge dalla nuova biografia da poco uscita in Russia e negli Stati Uniti (Yale University Press) a firma di Oleg Chlevnjuk, già autore di una importante Storia del Gulag (Einaudi, 2006). Uno Stalin che è il centro della vita politica sovietica fino al 1953 e la chiave di volta per comprendere i cardini del sistema politico che porta il suo nome, lo stalinismo.
Il primo aspetto è la concentrazione assoluta del potere, che Stalin esercitava delegando di volta in volta compiti specifici, ma mantenendo un controllo diretto sui lavori di ripavimentazione di una strada di Mosca così come sui livelli della produzione industriale o sulle trattative con la Germania di Hitler. I membri del governo sopravvissuti alle purghe degli anni Trenta erano tenuti sotto stretta sorveglianza e sottoposti a ogni genere di umiliazione da parte di Stalin, che spesso li costringeva a intrattenersi fino a notte inoltrata nella speciale sala di 155 metri quadrati approntata a questo scopo nella sua abitazione privata.
Le decisioni si riversavano sul Paese sotto forma di «campagne»: l’intera popolazione veniva mobilitata per il raggiungimento di obiettivi per lo più irrealizzabili, che venivano perseguiti con metodi straordinari e la sospensione di ogni procedura legale. Seguivano inevitabilmente un periodo di crisi e una «ritirata», che assumeva la forma di una contro campagna, spesso di pari intensità, che non di rado eliminava i responsabili della prima iniziativa e stabilizzava la situazione. Ogni passo di questo processo, che comportava la perdita di molte migliaia di vite umane e di ingenti risorse, era seguito direttamente da Stalin. Solo durante la Seconda guerra mondiale, con il dittatore impegnato altrove nella conduzione delle operazioni militari, il sistema conobbe un certo allentamento, per essere rapidamente ripristinato dopo la vittoria del 1945.
Il secondo cardine del sistema era la paura, esercitata attraverso l’imponente sistema di sicurezza sottoposto direttamente al dittatore. Davanti al terrore, il singolo cittadino era impotente, così come lo era il più alto funzionario del partito, la cui esistenza poteva essere spazzata via da un minuto all’altro. Chlevnjuk calcola che tra il 1930 e il 1952 furono fucilate oltre 800 mila persone, e che almeno 60 milioni furono soggette a una qualche forma di repressione, dall’arresto all’invio al Gulag, da lunghi periodi di detenzione ingiustificata alla perdita del lavoro perché parenti di un «nemico del popolo». A questi vanno aggiunte le oltre 5 milioni di vittime della carestia indotta da Stalin per piegare la resistenza dei contadini alla collettivizzazione tra il 1932 e il 1933.
Nello Stalin di Chlevnjuk, invece, c’è meno spazio per l’ideologia. La concezione del mondo del dittatore georgiano era certamente improntata agli insegnamenti di Marx e di Lenin, e in particolare a un violento anticapitalismo. Stalin si nutriva di una concezione estremamente semplificata della realtà, ridotta alla lotta tra classi, tra socialismo e capitalismo, che gli permetteva non solo di ignorare ogni complessità, ma anche di presentare i suoi crimini come frutto ineludibile della legge della storia. Aveva inoltre una conoscenza solo approssimativa del funzionamento dell’economia, che trattava come «una fortezza da espugnare».
Ma sono soprattutto altri, secondo Chlevnjuk, gli elementi ai quali guardare per comprendere come l’Unione Sovietica scivolò nell’incubo totalitario. Uno è indubbiamente la competizione per il potere, che Stalin condusse in modo spietato attraverso l’eliminazione di tutti i suoi avversari. A questa dinamica, per esempio, va ricondotta in parte la prima fase del Grande terrore del 1937, che, prima di colpire indiscriminatamente la popolazione, prese di mira quanto era rimasto delle opposizioni interne e della leadership collettiva emersa dopo la morte di Lenin. Vi era poi indubbiamente una componente patologica, che portava Stalin a vedere ovunque nemici pronti ad attaccare alle spalle lo Stato socialista. Più di un indizio fa inoltre pensare che negli ultimi anni prima della sua morte il deteriorarsi delle condizioni di salute di Stalin ne abbia offuscato ulteriormente la capacità di giudizio, aumentando i sospetti verso chi lo circondava e spingendolo verso una nuova ondata repressiva che fu interrotta solo dalla sua morte, il 5 marzo 1953.
Il volume di Chlevnjuk ha il fascino della biografia, dove i grandi movimenti della storia, le ubriacature ideologiche, la lotta per il potere e le meschinità personali si mischiano fino a diventare indistinguibili, per poi dar forma concreta alla storia e alle decisioni degli uomini. Su quanto ciascuno di questi ingredienti abbia contribuito a determinare il risultato finale, il dibattito è aperto.
(Illustrazione di Guido Rosa)