Mi sono molto divertito nella consultazione di questo singolare documento medievale. E’ proprio vero che le ricerche storiche, nelle sue indagini, possono iniziare da qualunque facezia. Capita di ricevere un impulso, ad esempio, da un racconto appena accennato, dalla lettura di una lettera, dalla dicitura di un’insegna oppure, come in questo caso, da un contratto d’affitto. In questo documento redatto nell’anno 1266 ad Asti dal notaio Oberto de Cesi, si stabilisce che la locazione venga pagata non con denari, bensì con pranzi. Da questo curioso contratto d’affitto noi possiamo stabilire quali fossero le vivande che comparivano correntemente sulle mense medievali piemontesi. Si tratta di un argomento importante, in quanto tolti i vari menù di castelli e palazzi, non sappiamo ancora bene tutt’oggi cosa i nostri avi mangiassero realmente in quel periodo. In questo caso invece ne abbiamo la possibilità, così, dopo la lettura del contratto, proveremo ad esaminare vivanda per vivanda, ricostruendo uno scorcio, il più preciso possibile, sulle abitudini e sui cibi consumati nel Piemonte del XIII secolo.
dal Blog Curiosità Storiche di Fabrizio Baccolla del 2 maggio 2015
“Anno del Signore 1266, mercoledì 20 ottobre. Alla presenza dei testimoni sotto indicati, Michele Coparino e Anselmo Focaccia di Govone, intenzionati ad obbedire, come debbono, ai mandati del solo signore Pancia di Solaro, alla presenza di Lorenzo Bucintoro giudice e vicario del podestà di Asti Guglielmo di San Nazzaro, dietro richiesta del suddetto loro signore Pancia dichiarano che è loro obbligo dare ogni anno, in perpetuo, al detto Pancia e ai suoi eredi, a titolo di affitto per le terre e i beni qui sotto elencati, due pranzi per due persone. I pranzi debbono essere corrisposti secondo le seguenti modalità: uno nel mese di gennaio e uno nel mese di maggio, ogni anno. In ciascuno dei pranzi, i suddetti Michele e Anselmo e i loro eredi dovranno dare al suddetto Pancia e al compagno che egli vorrà condurre con sé, le seguenti vivande: per cominciare un limone ciascuno, poi due libbre di carne porcina fresca per ciascun commensale, accompagnata da un piatto di ceci bianchi a persona; indi un cappone arrosto per ciascun uomo e le salse appropriate per i suddetti cibi. Poi sei castagne e un frutto del paradiso per ciascuna persona. Pane bianco, quanto potranno mangiarne; vino buono, puro e chiaro, quanto potranno berne. Il tutto servito sopra una tovaglia bianca e pulita. Se ogni cosa non sarà fatta esattamente nei modi prescritti, il suddetto signor Pancia e i suoi eredi possono rientrare in possesso delle terre e dei beni affittati, senza possibilità di contestazione da parte di alcuno. Fra i suddetti Michele e Anselmo fu pattuito che Michele deve sostenere due terzi delle spese per i suddetti pranzi, Anselmo un terzo”.
Leggendo il testo possiamo trarre due conclusioni. Siamo qui di fronte ad un patteggiamento per un pacifico contenzioso riguardo a beni e terre dati in affitto, nel quale viene deciso di livellare il debito con due pranzi dati all’anno in perpetuo. Questi pranzi simboleggiano la differenza di denaro che andrebbe colmata e tradotti, possiamo individuarli come quei pranzi domenicali che ormai comparivano spesso sulle mense degli “homines novi”: cioè quella nuova forza cittadina che nel Medioevo si era sottratta lentamente ai domini del contado, disertando le campagne per cercare l’inurbamento nel tentativo di migliorare le proprie condizioni. E’ questo il caso delle famiglie Allione, Damiani, Lorenzi, che immigrati ad Asti dal contado nel corso del XIII secolo e stabilitisi nei sobborghi cittadini, non solo divennero importanti politicamente ed economicamente ma seppero anche innalzarsi socialmente, appoggiando di volta in volta le forze politiche dominanti o contraendo fortunati e prestigiosi matrimoni con fanciulle della vecchia nobiltà. Si tratta dunque di menù lontani dai saltuari e indefinibili pasti dei poveri, ma lontani anche dai lussuosi menù di corte. Un solo esempio dello stesso periodo sulla differenza lo possiamo leggere nel banchetto di corte Savoia del 25 dicembre 1274, dove vennero serviti dieci buoi e mezzo, tredici maiali, tre caprioli, trentatré oche, settantun galline, due capponi, novantun pernici, un fagiano e settanta conigli. Oltre ad una quantità non precisata di piccola cacciagione piumata, nonché trote “di grosso formato” . E come accompagnamento vennero cotti cavoli, rape, riso, salse piccanti e agrodolci e fu servita una quantità incredibile di vini e moltissimi dolci. Oggerio Alfieri, cronista astigiano vissuto nel 1200, è anche l’autore del “Codex Astensis”, nel cui testo è descritto il contratto d’affitto in questione. Narrando le vicende della regione e della città fino al 1294, l’Alfieri scrive che Asti “è fornita di vino buono e ottimo, et di tutte le altre cose necessarie ai bisogni di una città”. Per compiacere in qualche modo l’autore inizieremo l’esame della lista delle vivande proprio dai vigneti piemontesi del periodo.
Dei vini del Piemonte medievale ne abbiamo una discreta descrizione: si trattava per lo più di preparazioni e metodologie ormai scomparse ed è quindi interessante venirne a conoscenza. Il “Vinus Citoniorum” era una bevanda medievale ottenuta dalla fermentazione del mosto delle mele cotogne ed era anche usato come componente di salse per arrosti e bolliti, ricordando in parte la tipica mostarda d’uva. Il “Vino Moretus” invece, era una aristocratica bevanda di more in infusione nel vino sempre presente nelle dispense di Casa Savoia e della famiglia dei Savoia-Acaja. Altra preziosa e delicata bevanda liquorosa, diffusa nel Piemonte medievale, era il “Vinus Mulsus” , ottenuta con la lunga bollitura di vino vecchio, mosto e miele ed era presente soprattutto nelle case dei Signori, ma anche usata per scopi medicinali. Ed infine non dimentichiamo il più celebre di tutti: il “Vino Claretus”, che ho già descritto in un precedente articolo(http://12alle12.it/panettone-vecchio-piemonte-114930). Apparivano sulle mense nobiliari, e non solo su quelle naturalmente, anche gli antichi, ora tradizionali, ora rarissimi, vini piemontesi. In carte dell’VIII secolo già si parla di un’uva “Barbexina”, riferendosi al Barbera. Il “Barbisino” invece, era il nome di un vitigno certamente coltivato intorno al 1250 nella zona di Casale Monferrato. Il “Beaune” o “Belna”, oltre ad essere una città francese della Borgogna, risulta essere stata un’uva molto diffusa in Piemonte dal XIII al XIV secolo, come attestano documenti pinerolesi e torinesi dell’epoca. La “Croatina”, o Il “Barbarossa”, con uva omonima, ormai scomparso dal territorio tortonese, è stato “riscoperto” in Romagna nel 1995 in un vitigno abbandonato da 150 anni nei pressi della Rocca di Bertinoro, dove l’Imperatore Federico soggiornò a lungo. La “Balsamina”, invece, è il nome di un’uva rossa coltivata un tempo nel Monferrato e con la quale si produceva anche un vino dolce da dessert. Pier De Crescenzi, bolognese (1230-1320), fu per molti anni giudice ad Asti e intorno al 1310 scrisse un’opera: “Ruralium Commodorum”, in cui ci sono molte testimonianze soprattutto relative alle uve e ai vini coltivati in quell’epoca. E’ tra i primi a parlare dell’uva e del vino Nebbiolo: “una spezie di uva nera detta Nubiola, la quale è meravigliosamente vinosa e fa vino ottimo”. Da questa affermazione, possiamo dire che Barbaresco, Barolo, Carema, Fara, Boca e innumerevoli altri rossi della nostra regione, seppur di antica memoria, sono tutte derivazioni del vitigno madre: cioè il Nebbiolo. A rappresentare i vini bianchi del Piemonte medievale giunge invece “L’Uva Greco”. Proveniente proprio dalla Grecia tra il XII e il XV secolo, l’uva greco ebbe un gran successo commerciale in Piemonte ed esistono persino documenti ufficiali in cui si attesta che i Savoia nel 1381, acquistarono ingenti quantità di “vino greco” sul mercato di Pavia. L’attuale uva greco sarebbe ciò che resta di quella moda medievale. In un certo senso i tecnici definiscono anche “greco” l’Erbaluce di Caluso: anzi il vino Caluso Passito sarebbe ormai l’unico prodotto analogo ai vini “greci” sopravvissuto nei secoli.
Abbiamo visto che il pranzo allestito due volte l’anno da Michele ed Anselmo per il nobile Pancia ed un eventuale suo ospite doveva avere inizio con un limone ciascuno. In questo caso individuiamo una pallida imitazione delle consuetudini in uso presso i nobili di cui qui si vuole fare omaggio. Questo lo deduciamo dal fatto che la frutta è presente anche alla fine del pasto, come è abitudine usuale presso il volgo. Quel “frutto del paradiso”, cioè una semplice mela e le sei castagne, cibo per i disagiati, la dice tutta su quel limone “ante pastum”, magari servito ossequiosamente da qualche serva malpagata e raccolti frettolosamente in quelle “limonere” che ogni contadino, custode ormai di una certa agiatezza, aveva la possibilità di stipare in cascina, al riparo dall’inverno, potendone usufruire anche nel mese di gennaio. Tutt’altra era la mentalità dei nobili per i quali la frutta era un segno e un simbolo di gusti raffinati, cioè una stravagante golosità che si conveniva solamente a persone di prestigio. Tutto ciò è anche dimostrato dai registri delle spese di Corte Savoia, che pur attenti ad annotare ogni tipo di acquisto, non viene quasi mai fatta menzione di spese di questo genere dall’XI al XIII secolo. Tra la poca frutta citata figurano quasi esclusivamente le pere e i melograni che erano tuttavia esplicitamente riservati al conte, alla contessa e ai loro figli. La stessa cosa si può pensare per le due libbre di carne porcina fresca e il piatto di ceci bianchi: entrambi cibi popolari. Durante il Medioevo la corporazione dei “salcizzari” era una delle più potenti della città. Venduta non a peso ma a spanne, si conservava a lungo annegata nello strutto fuso. Solamente nel 1488 il comune di Asti ordinava che le salsicce da 4 once di peso (circa 100 grammi) non potessero essere vendute se non dopo almeno tre giorni di stagionatura. Sarà comunque grazie al pepe, giunto con le Crociate di cui i piemontesi furono fondamentali fautori e attivi partecipanti, che la carne di suino insaccata potrà essere conservata a lungo dando vita all’affermazione dei salami nostrani. I ceci erano uno degli alimenti fondamentali del cibo povero della nostra regione. Zuppe, minestre e farinate erano particolarmente apprezzate nelle campagne. La diffusione della coltura e del consumo dei ceci in Piemonte è parallela allo sviluppo delle colonie ebraiche nella regione. Gli stessi ebrei hanno contribuito alla diffusione dell’oca e di diversi altri volatili. Nel nostro menù si parla di cappone arrosto servito con salse. Nella Moncalvo medievale vi era la consolidata abitudine da parte della comunità ebraica, perfettamente integrata nel costume piemontese, tanto da dar vita ad una parlata ebraico-piemontese, di servire i volatili arrostiti in forno, coperti di salvia con una salsa agrodolce di verdure a parte. In questo periodo comunque, in Piemonte, sono le spezie appena giunte dall’oriente il perno della nuova cucina medievale, contribuendo a dar vita ad alcune pietanze dai forti e violenti contrasti di sapore. Alle antiche e già presenti salse ricavate dalla fermentazione della frutta come la “Cugnà”, mostarda ricavata dal mosto d’uva con l’aggiunta di noci, nocciole, fichi, pere e mele cotogne, bollita a bassissimo fuoco per decine di ore, o la “salsa d’Avije” (salsa d’api), ottenuta pestando una ventina di noci in una tazza di miele con senape e brodo, si aggiungono la “Salsa Cammellina”, così chiamata perché le spezie che la componevano erano portate in Europa a dorso di cammello o la “Salsa de Pavo”, con cannella, zenzero, zafferano e mandorle. Entrambe le salse sono scomparse. E’ più probabile comunque che la salsa servita su questa mensa, fosse semplicemente quella “verde” di prezzemolo e aglio stemperato nell’olio, piuttosto che il “Jotha”, o “Rohita”, fatto con mosto di uva nera e chicchi di melograno. Bevuto come dissetante liquoroso era anche utilizzato per la preparazione di salse agrodolci. Infine è menzionato il pane. Nel medioevo astigiano il formato utilizzato era la “Micha”, di peso variabile tra le 2 e le 33 oncie, cioè 60 grammi per il pane fior di farina e un chilo per il pane grigio.
L’ultima e non meno importante considerazione è la specifica imposizione sul contratto d’affitto di servire il pasto su una “tovaglia bianca e pulita”. Sottolineare questa raccomandazione ci rivela l’abitudine quasi implicita, che nei normali pasti giornalieri del volgo, questo non avvenisse; avvertendo così un tangibile ambiente domestico sempre precario e ben lontano da quell’ideale nobile e cortese che tanto amiamo identificare nei comportamenti di quel periodo.