La Prima guerra mondiale non completò solo l’unità territoriale del nostro paese, ma per la prima volta nella sua storia gli ha dato una vera unità di sentimenti. È fra le trincee e sul Piave che gli italiani di tutte le classi sociali hanno trovato la loro identità nazionale. La Patria non si costruì dunque solo sulla carta geografica ma anche nel corpo vivo del popolo, dal sovrano al cittadino più umile, come racconta un nuovo saggio di cui «Storia in Rete» anticipa alcune pagine.
di Paolo Gaspari dallo Speciale di Storia in Rete “1915 l’Italia va alla guerra”
Norberto Bobbio sosteneva che gli italiani non possono sviluppare un orgoglio nazionale di matrice democratica per la semplice ragione che: «la nostra storia è costellata più da insuccessi e sconfitte che da momenti di vera condivisione di valori democratici e di libertà». Altri studiosi hanno indicato la Resistenza come il momento in cui collocare il consolidarsi dell’identità patriottica, ma le osservazioni di Galli della Loggia sulla Resistenza-Guerra civile e sui «resistenti» localizzati quasi solamente al nord, rammentano che poche migliaia di persone non possono assumersi il ruolo di democratici autentici, a fronte del 90% del resto della popolazione che rimase estraneo a quel movimento. Un altro pregiudizio che condizionò le opinioni connesse al senso appartenenza e al patriottismo fu quello di voler vedere nella Grande Guerra l’anticamera del Fascismo. Fu questa una spiegazione «politica» che non ha fondamento nella realtà; semmai la Grande Guerra generò i partiti di massa e i sindacati cattolici, socialisti e repubblicani con milioni di iscritti: una sindacalizzazione di massa superiore perfino a quella inglese! Al contrario: la Grande Guerra rappresentò la legittimazione dei diritti di cittadinanza.
Tra i molti che riconobbero nella Grande Guerra l’elemento identitario su cui si fondò il patriottismo di massa vi fu Rosario Romeo: «Milioni di semplici, tolti alla dura e mediocre vita di ogni giorno, si trovarono così coinvolti nel dramma gigantesco, chiamati ad affrontare una prova in cui tragicità e sofferenza superarono nella terribile realtà delle trincee tutto ciò che da molti secoli le popolazioni europee avevano conosciuto». Non c’è infatti confronto tra le brevi guerre del Risorgimento, che coinvolgevano un limitato numero di uomini, e quella che per tre anni e mezzo sostennero questi «semplici». Le battaglie del Risorgimento durarono sempre poche ore, e la possibilità d’essere colpiti era esigua. Al massimo si poteva passare qualche notte all’addiaccio, intorno al fuoco di bivacco o in ricoveri di fortuna. Nella Grande Guerra la migliore chance per sopravvivere era quella di vivere «sottoterra», perché altrimenti – data la potenza dei nuovi cannoni e delle armi automatiche a tiro rapido – si andava incontro a morte certa. I turni italiani di prima linea variavano dai 10 ai 25 giorni; le trincee erano niente più che solchi tra le rocce, per cui si viveva all’aperto a un centinaio di metri dal nemico, soffrendo intemperie e sete, ricevendo cibo solo di notte.
Per oltre 28 mesi gli italiani andarono all’attacco sempre in inferiorità di posizione (dal basso verso l’alto), di fuoco, di addestramento e di tattica. L’aspettativa di vita di un fante, in quell’inferno, era di poche decine di ore. Se fra il 1848 e il 1860, morirono in battaglia 6.200 soldati, nel solo attacco con i gas sul monte San Michele [vedi «Storia in Rete» n. 17 NdR] il 29 giugno 1916, morirono in poche ore 182 ufficiali e 6.250 soldati (ma pochi sanno che i sopravvissuti andarono al contrattacco e ripresero il monte). Ci furono brigate, come la Sassari, la Catanzaro e la Salerno che ebbero oltre 10 mila tra morti e feriti; brigate di 5.500 uomini che quando «scendevano a riposo» dalle trincee del Carso erano ridotte a non più di 1.200 fucili. Rosario Romeo dice che «furono chiamati ad affrontare una prova nella quale idee e sentimenti, convinzioni religiose e politiche, rapporti dell’individuo con la collettività, egoismi individuali e spirito di solidarietà furono sottoposti a tensioni da cui uscirono profondamente modificati e rinnovati. […] I più accettarono la guerra con la forza della rassegnazione e del senso del dovere che fa della Grande Guerra il momento in cui il popolo italiano diede la massima prova di coesione civile di tutta la sua storia».
Quest’affermazione si coniuga con quella del senso dell’onore descritta dallo storico francese Lucien Febvre per il quale esso è «il sentimento sociale che facilita i doveri verso la società civile e la sottomissione degli interessi particolari all’interesse comune». Si tratta dello stesso sentimento che per Emilio Gentile dovrebbe essere alla base dell’orgoglio d’essere italiani e che fu percepito da coloro che combatterono e vinsero quella terribile guerra contro il nemico di tutto il Risorgimento, coniugando l’idea di nazione con l’idea di libertà e di emancipazione. Fu quello il momento storico in cui gli italiani trovarono – per usare le parole del filosofo Ernest Renan nel chiedersi «Qu’est-ce qu’une nation?» – «la grande solidarietà costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti». Nacque, in questo modo, la consapevolezza della propria coesione identitaria su cui erigere un senso civico diffuso rafforzato dal più grande sacrificio collettivo pagato dalle famiglie di tutte le regioni italiane. In guerra la solidarietà che si creava all’interno di un reparto, condizione di ogni successo operativo e di sopravvivenza in situazioni estreme, dipendeva da un insieme di fattori, il più importante dei quali era, senz’altro lo spirito di gruppo che, da quello più informale – come rileva Giorgio Rochat – arriva sino a una vera e propria identificazione nel battaglione, nel reggimento o nel corpo di appartenenza (granatieri, alpini, bersaglieri, arditi, sardi, ecc.): «con un certo grado di provocazione, si può dire che un esercito per funzionare ha bisogno di amore, non come sesso, ma come capacità di rapporti umani intensi e affettivi tra eguali, ma anche tra superiori e inferiori». Quest’analisi di Rochat sulla coesione derivata da rapporti umani intensi tra eguali, tra superiori e inferiori in situazioni così anomale ed estreme come furono quelle che caratterizzarono la guerra sul Carso, va messa in correlazione con il fatto che quella guerra rappresentò la testimonianza della forza e della tenacia dell’intera nazione.
La guerra aveva indubbiamente riaffermato il binomio borghesia-popolo e ufficiali-soldati. Il maggiore storico militare italiano del secolo scorso, Piero Pieri, definì la Grande Guerra «la guerra vittoriosa del popolo in armi guidato dalla borghesia in armi», una guerra combattuta quindi da tutta la società: «la guerra ha veramente portato tutti gli italiani con una dedizione suprema per il trionfo di un’unica causa». Si potrebbe dire che dall’orgoglio «silenzioso» di quella prova di forza e di tenacia nacque il senso di sé ed estese alle masse contadine il senso di patria comune.
Paolo Gaspari
[Per gentile concessione
di Gaspari Editore]