Nel 1915, l’Italia, ruppe gli indugi e dichiarò guerra all’Impero Austro-Ungarico per liberare Trento e Trieste e completare quel processo di (ri)unificazione nazionale iniziato nel 1861. Morirono in 600 mila sul Piave e sul Carso. Venivano da ogni angolo di quella giovane Italia così affamata e proletaria da volere ad ogni costo un ruolo di primo piano sullo scacchiere internazionale.
di Federico Depetris dal Primato Nazionale del 7 maggio 2015
La guerra fu durissima. Si combatté, per la prima volta, con armi dal potenziale devastante, mai adoperate prima. Fu la prima guerra moderna, sanguinosa e spietata dell’epoca contemporanea. Si pativa il freddo e la fame, al fronte come nelle città e nelle campagne. Le donne, sole, mandavano avanti la casa ed il lavoro nei campi mentre aspettavano i padri, i fratelli ed i mariti tornare dalla trincee. Fu una guerra totale che coinvolse pressoché tutta la popolazione italiana.
Una guerra di quelle proporzioni e di quella violenza non si era mai vista prima. Mai. Eppure tutti si rimboccarono le maniche e tra mille difficoltà, non solo la guerra continuò ininterrottamente per tre anni, ma alla fine, fu anche vinta.
Le cronache dell’epoca raccontano di fughe precipitose di migliaia di persone che cercano di emigrare clandestinamente fuori dai confini nazionali per sfuggire all’orrore della guerra e ai morsi della fame? No. Tutti noi rimanemmo ai nostri posti, a combattere nelle trincee, come a casa. Stringemmo la cinghia, maledicemmo il Re ed i suoi Generali, ma continuammo ad indossare la divisa e a cercare di sfondare le linee nemiche.
Cesare Mainella, nato a Venezia nel 1885, è stato un noto ritrattista e paesaggista della prima metà del ‘900 italiano, amico, tra gli altri, di Amedeo Modigliani. Mainella, figlio d’arte, la mamma ed il papà erano pittori apprezzati in tutta Europa, è divenuto noto per la sua vita avventurosa, passata a dipingere luoghi remoti e selvaggi: Rhodesia del Sud, Argentina e Africa Orientale Italiana. Nel 1915 Mainella era un illustre cittadino italiano emigrato a Buenos Aires, come tanti altri nostri connazionali. Nelle sue memorie (recentemente pubblicate da L’Espresso), in merito allo scoppio della Prima Guerra mondiale, scriveva: “Partii per l’Italia ai primi di dicembre, assieme a migliaia di italiani che abbandonavano lavoro ed anche la famiglia per andare a combattere, allora si sentiva molto il richiamo della madre Patria”.
Pochi lo sanno, ma durante la Prima Guerra mondiale migliaia di italiani residenti stabilmente dall’altra parte dell’Atlantico investirono i loro pochi risparmi per tornare in Italia, per combattere. Oggi – che assistiamo a fughe di massa dai conflitti bellici da parte di ragazzi in ottima salute e di giovane età – sembra quasi impossibile credere che in migliaia, nel 1915, decidessero di tornare in Italia invece che rimanersene al sicuro lontano dal devastante conflitto che stava bruciando l’Europa.
Eppure in tanti partirono per arruolarsi volontari e tanti altri risposero alle convocazioni per la chiamata alle armi.
Una pellicola del 1935, Passaporto Rosso del regista Guido Brignone, racconta proprio uno di questi “ritorni” di italo-argentini che non se la sentirono di abbandonare i loro connazionali al loro destino.
Un fenomeno, quello dei volontari emigrati che tornarono per combattere, taciuto dai media e che certo rischia di creare non pochi imbarazzi alla Boldrini e a tutti coloro che spandono pietismo a piene mani nei confronti dei “profughi” in fuga dalle guerre in Africa. Qualcuno, infatti, potrebbe anche chiedersi: ma com’è che questi scappano all’estero, mentre noi tornavamo proprio perché c’era una guerra da combattere e c’era una Nazione da difendere?