Sergei Maslov ha 91 anni. Partecipò alla leggendaria parata di Mosca nell’autunno 1941; è cavaliere dell’ordine della Stella Rossa e dell’ordine della Gloria, ed è stato presidente del Consiglio dei Veterani della cittadina di Mamontovka, vicino Mosca. Ma un anno fa gli sono stati revocati tutti i titoli e le onorificenze ottenute: la Russia è venuta a sapere che Maslov prestò servizio per tre anni nel battaglione punitivo tedesco “Mitte”, scontò dieci anni di detenzione nei lager per il reato di tradimento della Patria, nel 1980 si procurò con dei sotterfugi un certificato da veterano di guerra e da allora in poi si è sempre spacciato per un eroe. Durante lo svolgimento del processo, Maslov si è categoricamente rifiutato di parlare con i giornalisti. Un anno dopo della sua conclusione ha accettato di raccontare la propria storia.
Vladimir Emeljanenko da del 1 luglio 2014
La resistenza e la prigionia
“Nel 1942 il tenente delle Trasmissioni dell’undicesimo corpo di armata della cavalleria, dopo essere rimasto ferito e avere completato i corsi da ufficiale negli Urali, fu trasferito nei dintorni di Rzhev. Nel bel mezzo del cosiddetto “sacco di Rzhev”, una battaglia in cui i fascisti circondarono alcune divisioni sovietiche, il diciannovenne Maslov manteneva le comunicazioni tra i vari reparti ormai sparpagliati dell’Armata Rossa”, leggo io. Maslov ascolta con diffidenza il riassunto della nota della Procura Generale e del KGB bielorusso, dai cui archivi provengono le fonti delle accuse mossegli. “Io mantenevo le comunicazioni?”, chiede sdegnato Maslov. “Non c’erano comunicazioni. C’era da mangiare ancora per tre mesi, e poi basta. Le comunicazioni consistevano in un cavallo sul quale io attraversavo il bosco e raggiungevo i nostri vicini assediati. I cavalieri venivano uccisi e i cavalli fuggivano nel bosco. Noi li catturavamo, e ce li mangiavamo crudi. Per chiunque accendesse un fuoco c’era la fucilazione. Bevevamo dagli acquitrini”.
Volendo credere al verbale dell’interrogatorio, Maslov venne catturato mentre si recava dai vicini per consegnare un rapporto. Durante il tragitto, nei pressi del villaggio di Sergeevka, Maslov si imbatté nei tedeschi e non fece in tempo a fuggire nel bosco. Il suo cavallo fu colpito dai proiettili. “Non ho nessuna giustificazione”, afferma Maslov. “Sapevo che per statuto i soldati dell’Armata Rossa non potevano arrendersi, ero io stesso a insegnarlo ai combattenti. Non feci in tempo a suicidarmi perché persi i sensi. Sarebbe stato meglio se il mio cavallo mi avesse calpestato”. Quest’ultima frase Maslov la ripeté più volte nei lager di Orsha e di Borisov. Là i prigionieri non ricevevano cibo per intere settimane. Una volta lo diedero persino per morto.
La complicità
Quella volta che venne erroneamente considerato morto, per Maslov fu come prendere la scossa: o moriva, o doveva fare di tutto per sopravvivere. Chi l’avrebbe mai detto che il duello con se stesso per la sopravvivenza sarebbe durato anni? “Noi mezzi morti fummo trasferiti a Bobrujsk, e là vennero a sapere che ero della cavalleria”. I tedeschi condussero il prigioniero nella scuderia. Maslov seppe cogliere al volo la sua chance: i cavalli avevano una malattia per cui gli zoccoli erano bagnati e rischiavano di imputridire. Il tenente ripulì le stalle, spiegò che servivano delle tavole di legno e della sabbia, preparò dei recinti asciutti. Stando ai documenti, fu lo stesso Maslov a chiedere di diventare stalliere del reggimento di riserva di Bobrujsk dell’Esercito russo di liberazione (ROA) del generale Vlasov. In seguito, i soldati di Vlasov e i tedeschi vennero caricati su un treno; Maslov era convinto che fossero diretti verso l’interno della Russia “sconfitta”: così dicevano i tedeschi.
“Stentavo a capire cosa stesse succedendo”, racconta il vecchio socchiudendo gli occhi, “ci stavano portando da qualche parte, e, proprio come il bestiame, noi andavamo dove ci spingevano”. In Bretagna, nelle vicinanze di Saint-Brieuc, li fecero scendere. Il lager era circondato dal filo spinato, ma si poteva uscire all’aria aperta liberamente. I detenuti furono sistemati in una baracca con venti cuccette, vennero date loro un’uniforme e delle bricchette di carbone per riscaldarsi. Maslov notò subito che di tedeschi in giro non ve n’erano quasi. E che non c’era la guerra. Il lager era variopinto: le uniformi azzurre francesi, qualche uniforme tedesca e dei vestiti esotici alla moda. Dappertutto si udivano le familiari imprecazioni russe.
Maslov venne informato: i tedeschi avevano spostato i loro uomini sul fronte orientale; avevano lasciato una parte dei loro soldati di guardia nelle postazioni fortificate costiere dell’Atlantico, e vi avevano aggiunto l’internazionale della Wehrmacht. Così Maslov venne a sapere che era stato aperto un nuovo fronte, e che il primo si era spostato verso la Germania. “Io non combattei contro la mia patria”; vorremmo poter credere a questo vecchietto, ma è difficile. “Se avessi combattuto, non mi avrebbero dato dieci anni di Gulag, ma mi avrebbero fucilato. E non sono mai stato un boia. È vero che ho vissuto con loro in Francia e negli Stati Uniti. Quando ero prigioniero collaborai per sopravvivere. Se non avessi lavorato per loro, mi avrebbero avvolto nei miei stracci e mi avrebbero gettato nella fossa. È un grave peccato rinunciare alla propria vita, perché essa è un dono di Dio.
Il tradimento
Per andare in America Maslov prese un aereo. Era la prima volta che volava in vita sua. “Nel lager vicino a Washington restammo sbalorditi”, ride il vecchio. “Al posto della baracca c’erano delle stanze da due cuccette, i materassi non erano imbottiti di paglia, c’erano le lenzuola bianche. Al mattino si faceva ginnastica, il mangiare era buono, e ci trattavano come esseri umani. Giocavamo a calcio. C’era un polacco americano che faceva la guardia da una torretta. Una volta ci mettemmo a parlare: suo padre lavorava in un allevamento di cavalli. Mi disse: “Vieni da noi”. Quando Maslov aveva ormai cominciato ad abituarsi alla vita in America, nell’autunno del 1945 nel lager arrivò un rappresentante della missione diplomatica militare sovietica. L’inviato propose ai prigionieri di firmare un documento per il rientro volontario in URSS. Nessuno accettò la proposta: sapevano che in patria li aspettava il Gulag. Vi fu una sommossa.
“Ci rastrellarono e ci portarono nella stiva di una nave, ci spogliarono completamente e ci fecero sdraiare su dei materassi; se qualcuno provava ad alzarsi o chiedeva di poter andare in bagno, le guardie subito ci puntavano le mitragliatrici nella schiena. Ci tennero così per un giorno e una notte. Poi, sempre nudi e ammanettati, ci portarono su un traghetto. Quando partimmo, tutti capivano bene dove eravamo diretti. Gli americani che ci accompagnavano restituirono agli insorti i vestiti e gli effetti personali, e persino i gioielli, mentre eravamo nell’oceano. Non lasciavano uscire nessuno dalla stiva, per evitare che qualcuno si buttasse in mare.
Il Gulag e la libertà
Maslov trova la sua sentenza di condanna. Dieci anni nei campi di lavoro per “tradimento della patria”, perché “…in seguito alla cattura da parte delle truppe degli Alleati rivelò agli organi di intelligence americani informazioni sulla struttura organizzativa dell’Armata Rossa”. Il risultato fu che Maslov divenne un meccanico in una fabbrica di confezioni tessili vicino a Vorkuta. Dopo l’esperienza nei lager, Maslov si ritrovò a Mozhajsk, nei pressi di Mosca. Dapprima lo assunsero come meccanico, poi, violando le disposizioni ricevute, lo fecero vicedirettore di un’azienda di costruzioni stradali. Maslov ebbe sotto di sé dei delinquenti amnistiati: al lavoro si presentavano persone sempre diverse, e talvolta non si presentavano affatto.
Quando la sua fedina penale tornò pulita, Maslov si impegnò e ottenne un impiego in Rosavtodoroga; divenne un uomo rispettabile, padre di due figli, fece da consulente per il film “Guerra e pace” e per le cerimonie di inaugurazione e di chiusura delle Olimpiadi nel 1980. Per nove volte chiese di essere riabilitato, cosa che coerentemente gli venne rifiutata per nove volte: l’ultima fu nel 2007. Fu proprio quella volta che i servizi speciali rivolsero la loro attenzione al suo certificato di combattente nella Grande guerra patriottica, rilasciato nel 1980, in cui si attestava la sua attività al fronte dal 1941 al 1945. Come se non vi fosse mai stata alcuna prigionia.