«Storia In Rete» è lieta di ospitare, ancora una volta, un intervento di un lettore: è questa volta il turno di un docente di Savona, il professor Leonello Oliveri che ha proposto questa dettagliata ricostruzione del primo bombardamento navale subito dall’Italia nella Seconda Guerra mondiale.
Il 10 Giugno di 65 anni fa l’Italia dichiarava guerra alla Francia. A Mussolini servivano «alcune centinaia di morti» per sedersi, di lì a pochi mesi -così assicurava- al tavolo del vincitore. Come sia andata, è noto a tutti: i morti furono alcune centinaia di migliaia, i mesi quasi 60 e Mussolini finì come sappiamo. La guerra per la popolazione civile cominciò bruscamente, in Liguria, a Savona e a Genova, alle 4,26 del 14 giugno, quando alcune esplosioni provenienti dai serbatoi combustibili di Vado Ligure, seguiti due minuti dopo da altri boati provenienti dalle installazioni metallurgiche di Savona diedero la sveglia agli abitanti. Contemporaneamente altri scoppi si sentivano a levante, verso Genova. Erano le granate provenienti dalla flotta francese, che stava impunemente bombardando la Riviera Ligure. Si trattava della terza squadra navale francese, guidata dal Contrammiraglio Duplat. Composta da 4 incrociatori da 10 mila tonn. (Algerine, Foch, Dupleix, Colbert, con 8 pezzi da 203) scortati da 11 caccia da 2700 tonn.e 4 sommergibili, era partita dalla rada di Tolone alle 21 e 10 del 13. La copertura aerea era assicurata da 9 bombardieri. Come obiettivi aveva le installazioni industriali di Vado Ligure, Savona e l’area industriale- portuale di Genova. La missione, ritorsione ad un’incursione aerea italiana su Tolone, aveva però anche motivazioni psicologiche. Giunta a 20 miglia a sud di Capo Vado alle ore 0348, la squadra francese si divide in due gruppi, con obiettivo rispettivamente Vado/Savona e Genova. Alba di fuoco Alle 4 e 26 l’incrociatore Algerie inizia il fuoco da una distanza di circa 15 mila metri sugli insediamenti industriali di Vado: i serbatoi combustibili, la Soc. Monteponi, colpita da 32 granate da 203, la soc. Carboni fossili, l’Agip. «Si scorgono, – scriverà più tardi il cap. di vascello francese De Loynes nella sua relazione – fiammate e colonne di fumo che si innalzano dai serbatoi». Due minuti dopo il Foch apre il fuoco sull’Ilva di Savona: «il bersaglio scompare nel fumo delle esplosioni». Contemporaneamente i caccia si fanno sotto costa ed aprono il fuoco sui depositi della Petrolea e su altre officine di Savona. La reazione italiana è pronta ma inefficace: la XIII flottiglia MAS attacca i caccia francesi al largo di Bergeggi, col lancio di 6 siluri: l’incrociatore Foch manovra per evitare, i caccia reagiscono e i Mas si allontanano senza aver conseguito nessun risultato; il MAS 535 e il 534, colpiti da schegge di granata lamentano anzi alcuni feriti a bordo. Altrettanto inutile è l’intervento della batteria di Capo Vado. Anche il treno armato n. 3, di stanza – se così si può dire – alla Galleria della Torretta ad Albisola (l’area dove sorgeva il suo bunker di servizio è oggi occupata da un tratto della nuova passeggiata di Albisola Superiore) interviene con i suoi pezzi da 120/45: 93 colpi, nessun risultato. Contro di lui sarebbero stati tirati, così abbiamo letto, 60 colpi da 203 e 138 di calibro minore, anche questi senza esito. Alle 4 e 48 l’attacco su Savona cessa: In totale sono stati sparati da parte francese circa 400 colpi da 203 e altrettanti da 138, 300 da quella italiana. Le navi francesi si ritirano indisturbate. A Genova: bombe dal mare mentre la Calatafimi va all’assalto Intanto il 2° gruppo navale si dirige su Genova: dalle 4e 26 alle 4 e 40 incrociatori e caccia francesi tirano sul porto e sugli stabilimenti dell’Ansaldo. A questo punto l’imprevisto: dalla foschia sbuca all’improvviso una nave da guerra italiana, una piccola, vetusta torpediniera, la Calatafimi. La vecchia nave, 967 tonn., armata con pezzi da 102, si trovava di scorta ad un posamine: vista la squadra francese, il comandante, della Calatafimi, tenente di Vascello Brignole, malgrado la sproporzione delle forze, non ha esitazioni e si lancia contro la squadra francese. Spara coi piccoli pezzi, lancia 2 siluri da 3000 metri, poi inverte la rotta .Una seconda coppia di siluri si inceppa nei tubi di lancio. Anche le difese terrestri rispondono al fuoco: dal porto di Genova il pontone armato194 con i suoi pezzi da 381 tira 3 colpi, poi deve sospendere il fuoco per il vento che spinge il fumo delle caldaie nella coffa della direzione di tiro, il pontone 269 riesce a sparare 1 colpo da 190. Ma il fuoco più vigoroso è quello della batteria Mameli: 64 colpi da 152 da una distanza di 9000 m. Un proiettile colpisce il caccia francese Albatros, penetra nel locale caldaie di poppa dove esplode: 14 uomini sono gravemente ustionati e 12 moriranno ritornando a Tolone. Nella batteria, invece, il pezzo n. 3 va fuori uso. Alle 4 e 48, in seguito ai danni sull’Albatros e ai colpi della Mameli che cadono sempre più vicini, anche il secondo gruppo francese si ritira riunendosi alle navi della prima divisione. Nel frattempo i 9 velivoli francesi eseguono un’incursione su Vado e sul campo di aviazione di Novi Ligure, perdendo (ma non è chiaro se in quella incursione o in una del giorno successivo) un aereo i cui frammenti furono poi esposti a Savona Invece i 19 aerei italiani SM 79 decollati da Viterbo e di Pisa non riescono neppure ad intercettare la flotta in rotta verso la Francia.. Danni a Savona Allontanatesi indisturbate le navi francesi, incomincia la conta dei danni e delle vittime. La guerra mostra subito quello che sarà il suo volto: in prima linea non solo i militari ma anche le città e i civili. A Savona i morti sono 6 e 22 i feriti. Morti e feriti, ma in numero minore, anche a Vado-Zinola. Contenuti, nel complesso, i danni materiali: oltre agli impianti industriali, risultano danneggiati diversi edifici e abitazioni civili. L’ampia raccolta di fotografie pubblicata nel bel libro di R. Aiolfi, N. De Marco, Bombe su Savona e provincia, Sabatelli Editore, Savona 2004 (alcune delle quali corredano il presente articolo: grazie per l’autorizzazione alla pubblicazione) illustra eloquentemente i danni subiti dalle strutture civili: l’albergo del Falco Reale, il Casello ferroviario di Zinola, il Municipio di Savona (dove andò fra l’altro distrutto l’affresco di Eso Peluzzi dedicato alle Camice Nere), case danneggiate in v. Grassi, corso Ricci, via Accorsero. Danni anche alla Stazione Letimbro, Caserma dei RR.CC., linea ferroviaria. Colpito pure il cimitero di Zinola: smettetela di uccidere i morti, scriverà più tardi un poeta. Più limitate le perdite fra i civili a Genova. Ma il bilancio più pesante, quello su cui si sarebbe dovuto riflettere, soprattutto da parte dei vertici militari, fu quello strategico. Di fronte al valore, al coraggio e anche alla capacità dimostrati dai militari sul campo (Mas e Calatafimi all’assalto di nemici molto più forti, il treno armato che reagisce sotto il fuoco, la batteria Mameli che inquadra e colpisce il caccia francese, uno dei 9 velivoli attaccanti abbattuto), la spedizione francese rese evidente la fragilità del nostro apparato militare: l’attacco delle motosiluranti senza esito, due siluri della Calatafimi che – a quanto pare- si inceppano nei tubi di lancio, il pontone armato che non può sparare perché accecato dal suo fumo, un pezzo della Mameli che va in avaria. Soprattutto fu evidente l’incapacità dell’apparato militare a provvedere alla difesa delle nostre città e dei loro abitanti: una flotta nemica poteva arrivare inavvertita e praticamente indisturbata fino davanti a Genova e ritirarsi altrettanto indisturbata, con l’assoluta mancanza di ogni attività di ricognizione da parte della nostra aviazione, le grandi unità della Marina del tutto assenti, i nostri aerei che non riescono ad intercettare le navi nel viaggio di ritorno. Era evidente che la nostra gente era stata buttata in una terribile avventura con mezzi del tutto sproporzionati rispetto alle velleità e alla reazione che si sarebbe scatenata. Se l’opinione pubblica poteva essere in qualche modo ingannata dalle notizie pubblicate sui giornali (che scrissero di un caccia e un incrociatore ausiliario affondati, un altro caccia colpito, alcuni sommergibili colati a picco), la realtà era molto diversa e non poteva essere ignorata da chi doveva decidere. Già dal 14 giugno del ’40 i vertici militari e istituzionali italiani, dal fatto che navi nemiche potessero arrivare inavvertite, bombardare la terza città industriale italiana ed allontanarsi indisturbate, avevano gli elementi (o potevano trovarli se li avessero cercati) per capire come sarebbe andata a finire la guerra. Ma per trarre – e solo parzialmente – le conclusioni si dovrà aspettare fino al 25 luglio del ’43.