In soli quarantadue giorni – quelli compresi tra il 29 maggio 1940 quando Mussolini decise di entrare in guerra e l’8 luglio, data della battaglia di Punta Stilo – maturarono le premesse della sconfitta italiana nel secondo conflitto mondiale.
di Francesco Perfetti da Il Giornale del 14 marzo 2014
Le sei «incredibili» settimane cominciarono con l’annuncio dato da Mussolini al Maresciallo Pietro Badoglio e a Italo Balbo di aver informato Hitler che egli non intendeva «restare con le mani alla cintola» e che, di lì a qualche giorno, sarebbe stato «pronto a dichiarare la guerra all’Inghilterra». Si conclusero con la rinuncia ordinata da Supermarina, contro il preciso desiderio dell’ammiraglio Bergamini, ad attaccare, in condizioni di massimo favore, la flotta inglese: una decisione che si rivelò fatale perché non si sarebbe più ripresentata una occasione così favorevole e che avrebbe potuto assicurare all’Italia, all’inizio del conflitto, una vittoria navale di grande importanza. In mezzo, il 10 giugno, ci sono la consegna agli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna da parte di Galeazzo Ciano, in divisa da colonnello dell’aeronautica, della dichiarazione di guerra e il discorso di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia che si conclude con la frase: «Popolo italiano: corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio e il tuo valore».
La ricostruzione analitica degli avvenimenti italiani di quei giorni, con uno sguardo comparato con quanto stava avvenendo negli altri Paesi e sui teatri bellici, costituisce l’ultima parte di un celebre volume di Franco Bandini, Tecnica della sconfitta (Florence Press, pagg. 544, euro 24) ripubblicato, con una introduzione di Franco Cardini, a distanza di mezzo secolo dalla prima edizione. Quei quarantadue giorni rivelarono tutta l’improvvisazione delle scelte politiche e strategiche dell’Italia. Peraltro, anche se gli errori compiuti in quelle settimane non ci fossero stati, difficilmente l’Italia avrebbe potuto uscire vincitrice dal conflitto: osserva, in proposito, Bandini che c’è, anzi, «da meravigliarsi che si sia riusciti a rimanere in piedi per tre anni» vista «la nostra direzione militare, quella politica e quella diplomatica» per non dire della «incredibile ottusità e incultura della nostra classe dirigente».
Quando apparve nel 1963, Tecnica della sconfitta riscosse un grande (e meritato) successo non solo e non tanto per l’analisi anticonformistica di quella manciata di settimane critiche che precedettero e seguirono l’entrata in guerra dell’Italia, quanto piuttosto per le considerazioni generali sulle origini del conflitto che mettevano in luce risvolti sottovalutati dalla storiografia. Bandini, per esempio, sottolineava, fin dalle prime pagine del volume, l’importanza della gara fra le grandi potenze per il predominio sui mari. A spingere Neville Chamberlain sulla strada della garanzia militare alla Polonia furono, in questo quadro, non motivazioni di tipo politico o ideale ma la conferma di notizie allarmanti per la Gran Bretagna sulla reale portata delle costruzioni navali di Hitler. Non era ammissibile, infatti, per gli inglesi che la Germania potesse diventare una potenza navale troppo forte in grado di far loro concorrenza sui mari: ecco perché il governo britannico decise, con una guerra pensata sostanzialmente come «preventiva», di attaccare la Germania, e solo la Germania. Logica avrebbe voluto che nel mirino fosse entrata anche l’Urss, complice del nazismo nella spartizione della Polonia in virtù del patto Molotov-Ribbentrop, ma ciò non avvenne, anche perché appariva già come realistica (o, quanto meno, auspicabile) la prospettiva di un futuro accordo con Stalin per esorcizzare il pericolo della potenza tedesca.
Sulla scacchiera del grande gioco della politica internazionale, l’Italia si mosse in maniera del tutto inadeguata, dilettantesca e contraddittoria. Secondo Bandini, la scelta della «non belligeranza», all’inizio, irritò i tedeschi perché tolse loro uno strumento di pressione negoziale nei confronti degli anglo-francesi subito dopo la fine della campagna di Polonia, ma poi non dispiacque a Hitler convintosi che l’intervento italiano avrebbe comportato, più che un aiuto concreto e decisivo, un mare di complicazioni. L’intervento italiano, nel giugno 1940, con l’improvviso attacco alla Francia e con una carente preparazione militare, si rivelò funzionale al disegno strategico di Churchill e agli interessi inglesi che puntavano sull’allargamento del conflitto per coinvolgere anche gli Stati Uniti.
Frutto di lunghe ricerche e di una continua riflessione sui fatti, il volume di Franco Bandini, indipendentemente dalla condivisibilità o meno di talune sue tesi, rimane ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, un testo di riferimento, di piacevole lettura e pieno di suggestioni. Forse non è il lavoro più conosciuto di un autore il cui nome è legato a due opere famose: Vita e morte segreta di Mussolini (1978), dove è sviluppata la tesi della «doppia fucilazione» del dittatore italiano e del ruolo dei servizi segreti inglesi in quella vicenda, e Il cono d’ombra (1990) che getta un fascio di luce nuova sull’assassinio dei fratelli Rosselli e sui misteri che lo avvolgono. Ma è, certamente, il suo libro di maggiore spessore storiografico.
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