Il 27 aprile di 45 anni fa, dopo il via libera parlamentare dell’ottobre precedente, entrava in vigore la legge che dal 1968 regola il ricorso all’aborto nel Regno Unito. Il bilancio ufficiale delle interruzioni volontarie di gravidanza oltremanica assume oggi dimensioni ben più catastrofiche di un bollettino di guerra: a tutto il 2011, ultimo anno di cui si conoscono i numeri complessivi, oltre 7 milioni e 600mila bambini sono stati eliminati nel grembo materno.
di Lorenzo Schoepflin da La nuova bussola quotidiana del 7 maggio 2013
Negli ultimi dieci anni, la cifra annuale oscilla costantemente attorno ai 200mila aborti, il che significa più di un aborto ogni tre minuti. Di questi, con riferimento all’anno 2011, più della metà sono stati effettuati su ragazze al di sotto dei 24 anni di età (33mila quelli che hanno coinvolto adolescenti tra i 15 e i 19 anni, mille le gravidanze interrotte da donne che non avevano raggiunto il quindicesimo anno di età). Tra tutte coloro che hanno scelto di non proseguire la gravidanza, sempre relativamente al 2011, oltre 50mila avevano già abortito una volta, ma si registrano casi di madri che per ben sette o più volte avevano già optato per l’aborto e di ragazzine di 16 anni al terzo o quarto aborto.
In calo, ma sempre attestati oltre le 6mila unità ogni anno, gli aborti effettuati da donne residenti all’estero, in particolare provenienti dalla vicina Irlanda, dove la legge che regolamenta l’interruzione di gravidanza è molto restrittiva. Non dimentichiamo che Londra era la meta dei viaggi organizzati negli anni Settanta dal Cisa, il Centro informazione sterilizzazione e aborto diretto tra gli altri da Emma Bonino, che portava le donne italiane ad abortire laddove la legge lo consentiva. Proprio tra il 1972 e il 1974 le donne provenienti dall’estero e recatesi ad abortire in Inghilterra furono oltre 160mila.
Significative sono anche le statistiche relative all’età gestazionale e alla tecnica utilizzata per abortire: la tendenza emersa nell’ultimo decennio sembra essere quella di gravidanze interrotte molto precocemente (nel 2011 quasi l’80% entro la nona settimana) grazie al ricorso sempre più diffuso all’aborto farmacologico a scapito di quello chirurgico.
Un fenomeno, insomma, che non conosce limiti di età e confini geografici e che appare inarrestabile anche in termini di recidive, con margini sempre più ristretti per intervenire per salvare il concepito.
A dispetto dei numeri, come detto praticamente costanti da anni, le politiche sanitarie dello Stato – spaventato dal ricorso all’aborto così comune tra le adolescenti – si concentrano più sulla massiccia propaganda a favore della contraccezione che su reali misure preventive. Non ci si concentra, cioè, sul sostegno alla maternità, soprattutto se non accettata dalla donna, ma piuttosto sull’evitare il concepimento. Non ci si arrende al fatto, chiaro proprio grazie alle statistiche britanniche e confermato da pubblicazioni scientifiche e analisi di dati provenienti da altri Paesi, che più contraccezione non significa meno aborti.
Non accoglienza della vita, dunque, ma rifiuto: tutto in nome di una cultura figlia della cosiddetta liberazione sessuale, che ad essa non vuol rinunciare anche qualora la riconosciuta piaga dell’aborto ne sia uno degli esiti allarmanti.
Tra gli aspetti importanti relativi agli aborti praticati nel Regno Unito c’è anche quello delle ragioni che inducono i medici ad acconsentire alla richiesta della donna: nella quasi totalità dei casi (98%), l’interruzione di gravidanza viene catalogata tra quelle effettuate per preservare la salute fisica o mentale della donna. Tra questi, addirittura il 99,96% degli aborti è riconducibile a questioni legate alla sola salute mentale. Un passepartout, quello del rischio psichico della madre, che tanto ricorda la legge 194 italiana.
Sembra esserci una sorta di di assuefazione all’orrore quando si parla di difesa della vita nascente, se si considera che da non molto sono state rese note anche le statistiche legate al ricorso alla fecondazione artificiale. A inizio 2013, grazie a insistite interrogazioni parlamentari, la Human Fertilisation Embryology Authority, autorità governativa britannica in tema di procreazione medicalmente assistita, pubblicò le cifre del ricorso alla provetta: 3 milioni e 600mila embrioni creati in laboratorio dal 1991. Tra essi, 1 milione e 700mila sono stati eliminati subito dopo il concepimento, mentre oltre 1 milione, seppur impiantati in utero, non sono sopravvissuti.
Trascurando gli oltre 800mila embrioni congelati, se si sommano quelli morti nei laboratori e gli aborti farmacologici e chirurgici dal 1968 ad oggi, si supera l’esorbitante totale di 10 milioni di esseri umani eliminati col benestare delle leggi dello Stato.