Uno dei massimi esperti di esplosivi e indagini forensi ha scritto per noi un articolo ricco di informazioni sulle troppe pecche che hanno inquinato le indagini sulla più grave strage avvenuta in Italia in tempo di pace: la bomba alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980. Se si fosse indagato con maggior attenzione avremmo saputo tanti anni fa quello che sappiamo oggi. Soprattutto a proposito dell’esplosivo usato. Che non è quello che si è sempre pensato e, oltretutto, diverso da quello impiegato negli altri attentati compiuti in Italia in quegli anni. Un dato di fatto che riporta in auge la pista libico-palestinese già avvallata da importanti politici italiani della Prima Repubblica. A iniziare da un certo Francesco Cossiga…
di Danilo Coppe – www.esplosivi.it – da Storia in Rete n. 185
A beneficio dei più giovani lettori ricordiamo che alle 10,25 del 2 agosto 1980 la sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna venne squarciata da un’esplosione. Una valigia piena d’esplosivo, lasciata nell’angolo tra la sala d’aspetto di seconda classe e i locali annessi della tavola calda della stazione, esplode. La detonazione distrugge tutta l’ala sinistra dell’edificio e investe il treno Adria Express fermo sul primo binario, a nove metri di distanza dal luogo dello scoppio. Il bilancio finale della tragedia è sconvolgente: 85 morti accertati. Si susseguono svariate perizie tecniche nei diversi processi. Nel 2018 mi inserisco personalmente nella vicenda. Nominato perito dalla Corte di Assise di Bologna nel nuovo processo a Gilberto Cavallini, il mio incarico partiva dal terribile presupposto che nel 2006 un magistrato avesse dato disposizioni affinché si potessero distruggere tutti gli elementi di prova materiali risalenti al 1980. Premetto che non considero quella nefasta azione dettata dalla malafede di una volontà depistatoria; personalmente la ritengo un’imperdonabile sciocchezza causata dai meandri della burocrazia nazionale.
Per accettare il caso avevo due scelte: lavorare su quanto già scritto dai vari collegi peritali del passato oppure cercare nuove tracce. I miei oltre trent’anni di attività nel settore esplosivistico a 360 gradi mi ha permesso di intessere rapporti di collaborazione con tutte le realtà istituzionali e private del settore. Fra questi annovero anche l’amicizia con un generale dell’Esercito Italiano che da giovane ufficiale prestò servizio a Bologna, nel periodo della strage, che ricordava l’esistenza di un’ex area militare, a Prati di Caprara, ancora circoscritta e sorvegliata e nella quale, a suo tempo, erano state gettate le macerie della Stazione accantonate dopo il tragico evento. Inoltre, tramite una «triangolazione» di persone, arrivai a interfacciarmi con Paolo Bolognesi – presidente dell’associazione delle vittime del 2 agosto – il quale mi diede un grande aiuto mettendomi in contatto con alcuni familiari che conservavano ancora ricordi appartenuti ai parenti deceduti a Bologna e che, volontariamente, mi mettevano a disposizione. Disponevano di tali reperti perché, a suo tempo, gli inquirenti, in possesso di un’infinità di campioni estratti dalle macerie e nel cratere, furono prodighi nel riconsegnare l’esubero di oggetti personali ai legittimi eredi.
Con questi presupposti del poter analizzare oggetti presenti in prossimità dell’esplosione e conscio della straordinaria evoluzione in campo analitico forense, accettai quindi l’incarico con l’opzione di valutare solo successivamente gli elementi cartacei a disposizione. Un caso di tale rilevanza tecnica e storica meritava comunque il coinvolgimento delle nostre istituzioni delegate alle indagini. I pubblici ministeri hanno nominato loro consulenti i due maggiori esperti della Polizia Scientifica di Roma, Paolo Zacchei e Paolo Egidi, due veterani del servizio e dei quali ho grandissima stima. Anche per poter utilizzare le apparecchiature più sensibili e affidabili sul mercato nazionale, ottenni di essere affiancato in collegio peritale dal tenente colonnello Adolfo Gregori del Racis Carabinieri di Roma. Con questa squadra, certamente refrattaria a ogni condizionamento mediatico o politico, sono iniziati i lavori in piena estate del 2018. A venire in mio aiuto è stata anche la mia partecipazione in qualità di docente al master di Analisi Chimiche e Chimico-Tossicologiche Forensi dell’Università di Bologna, sotto la direzione del professor Stefano Girotti, i cui allievi erano già tutti laureati in materie chimiche, farmaceutiche o biologiche, quindi con un’adeguata preparazione e attenzione ai reperti e alla loro catena di custodia.
È stato quindi realizzato un imponente smassamento delle macerie, sulle quali in 39 anni era cresciuta una vera e propria foresta, dopo di che è stata realizzata la successiva nuova setacciatura. Contemporaneamente veniva smontato un pannello pubblicitario in cartone presente nella sala d’attesa durante l’attentato del 1980 e ivi rimesso dopo essere stato conservato per 30 anni da un ferroviere e poi donato all’associazione delle vittime che lo hanno riposizionato nel luogo originario. Niente è rimasto intentato per mettere le mani su altri reperti originali, cercando fra i corpi di reato sparsi fra diverse università italiane, presso depositi militari e persino nei laboratori della polizia tedesca. Tutto perché anche il supporto cartaceo che riguardava queste distribuzioni risultava incompleto nei documenti relativi ai successivi movimenti dei reperti stessi; anche il monumentale fascicolo istruttorio era malamente archiviato, con documenti inutili ripetutamente riprodotti che appesantivano le ricerche. Gli originali fotografici, indispensabili al nostro lavoro, erano sparsi fra Bologna e Roma in diversi archivi.
Sono emersi fin dall’inizio i chiari segni di una mancata regia investigativa nelle prime indagini e nelle varie perizie svolte. Alcuni esempi:
- niente rx su tutti i corpi alla ricerca di schegge significative;
- niente ricostruzione del «momento zero» (arredi e persone);
- niente ricerca «archeologica» sul campo;
- niente analisi sulle immagini video e fotografiche durante i soccorsi;
- niente confronto competente su dichiarazioni di testimoni, indagati, collaboratori di giustizia;
- niente preservazione di campioni;
- niente nuove analisi nei processi successivi;
Solo ad alcune di queste mancanze si è potuto porre rimedio, ad altre no. Dove si è potuto procedere con nuove analisi, per ottenere campioni a prova di contestazione circa il rilevamento delle tracce dell’esplosivo utilizzato, si è anche provveduto a esumare i resti di un cadavere che, per il loro stato, rappresentavano una sicura vicinanza all’ordigno esploso. Con il contributo dell’ausiliario medico legale, il dottor Stefano Buzzi, sono stati predisposti i campioni sui quali si è potuta svolgere un’analisi al microscopio elettronico, che ha dato risultati rivoluzionari e fondamentali per l’attribuzione della reale natura dell’esplosivo usato, in particolare relativamente al solfato di bario, rilevato dal primo collegio peritale e attribuito quale stabilizzante della nitroglicerina anch’essa rinvenuta, per giungere alla conclusione che si trattava di un ordigno a base di gelatina civile. Tale presupposto si è rivelato invece errato, in quanto il solfato di bario è risultato essere quello presente nelle vernici dei muri della sala d’attesa. Inoltre, all’epoca delle prime analisi la presenza di stabilizzanti da cariche di lancio ha permesso di rilevare la possibile presenza di nitroglicerina, appunto quale ingrediente primario dei propellenti militari a conferma che l’esplosivo individuato su tutti i reperti provenienti dai diversi nostri filoni investigativi fosse in realtà una miscela di TNT (trinitrotoluene o tritolo) e RDX (ciclotrimetilentrinitroammina, conosciuta anche come ciclonite, o T4) di chiara provenienza bellica. Tale abbinamento di esplosivi prende il nome di «Compound B» nelle produzioni anglo-americane prima e durante il secondo conflitto mondiale, o di «Tritolite» nelle produzioni europee.
I residui utilizzati per arrivare a queste conclusioni sono stati trovati, come già detto, oltre che nei resti umani anche nei ricordi delle vittime, nel cartellone pubblicitario e in alcuni reperti estratti dalle macerie di Prati di Caprara. L’analisi del DNA dei resti esumati ha inoltre permesso di escludere la loro appartenenza a una vittima il cui corpo non è mai stato identificato, gettando quindi una nuova luce sull’errata attribuzione dell’epoca che anche allora suscitò notevoli perplessità. Con il colonnello Gregori abbiamo svolto anche uno straordinario e certosino riordino di tutte le perizie riguardanti sia la stazione di Bologna sia le altre stragi dello stesso periodo storico, in Italia e all’estero; inoltre sono stati esaminati anche i verbali tecnici su alcuni mancati attentati o sequestri di materiali. Questa complessa operazione di riordino e verifica ha permesso di cercare eventuali correlazioni tecniche fra tutti i modus operandi dell’epoca. Credo che il materiale prodotto nel processo del 2019 servirà soprattutto nei prossimi anni come unica e vera base di partenza per quanto riguarda le tipologie di ordigni usati in quel periodo storico.
In breve, la conclusione cui si è giunti dopo tutto questo lavoro è che l’esplosivo usato il 2 agosto 1980 alla Stazione di Bologna non è quello che si è sempre pensato essere in base alle prime perizie. Si è trattato di un materiale esplodente che la seconda guerra mondiale ha lasciato ovunque, da Berlino a Tripoli. Rispetto alle altre stragi italiane del periodo, le cui perizie sono più o meno attendibili, tale utilizzo risulta essere un unicum. Questo fatto rende ancora più evidente come buona parte delle dichiarazioni rilasciate dai pentiti nel corso degli anni sono risultate imprecise o inattendibili dal punto di vista tecnico-esplosivistico. Inoltre, gli inquirenti hanno sempre ignorato la cosiddetta pista «libica o palestinese» nonostante le dichiarazioni del terrorista Carlos, del Dossier Mitrokhin [le migliaia di dossier redatti dai servizi inglesi sulla base delle informazioni fornite dall’ex archivista del Kgb sovietico Vasilij Mitrochin e resi noti tra il 1999 e il 2000, NdR] ed anche delle ricostruzioni effettuate dall’allora sottosegretario agli Esteri Giuseppe Zamberletti (con il suo introvabile libro «La Minaccia e la Vendetta» – Franco Angeli Editore, 1995) e anche dall’ex ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Sia Zamberletti che Cossiga hanno richiamato più volte l’attenzione sulle possibili implicazioni della Libia di Gheddafi che, nel 1980 non aveva ancora subito il raid statunitense quale punizione per la manifesta partecipazione a tanti attacchi terroristici contro cittadini americani.