L’articolo di Ruth Ben-Ghiat su “The New Yorker” dimostra come ormai il populismo non sia solo più appannaggio della politica, ma è entrato, con la formula subdola del politicamente corretto, anche nel giornalismo di qualità.
di Fulvio Irace dal Sole24Ore del 9 ottobre 2017
L’autrice infatti è professore di storia e di Italian studies alla New York University, ma paradossalmente sembra ignorare, nelle sue argomentazioni contro la presunta “architettura fascista”, quel travagliato e complesso lavoro di elaborazione storiografica che per molti decenni, a partire dai pionieristici lavori di Renzo De Felice sul “fascismo del consenso”, ha consentito una concezione meno settaria e rozza del ventennio.
Parte da lì infatti , l’elaborazione di una lettura della storia che ha permesso di elaborare le zone d’ombra contro il bianco e nero della versione ufficiale, mettendo a fuoco i meccanismi del consenso e dell’adesione sociale su una base più ampia che la singola vita di una persona.
Quando, nel 1974, uscì il quarto volume della biografia di Mussolini, la nota tesi dello storico romano secondo cui il fascismo nella prima fase della sua affermazione avesse goduto di un’adesione popolare e soprattutto di una simpatia manifesta di buona parte delle culture d’élite, provocò scandalo e suscitò generalizzate proteste. Ma aprì anche la strada allo studio diretto delle fonti e dei documenti, senza i paraocchi dell’ideologia del dopoguerra che tendeva a negare l’esistenza stessa di una cultura fascista. Nel 1972 Cesare De Seta fu tra i primi storici dell’architettura a proporre una visione meno manichea tra “buoni” e “cattivi” architetti durante il ventennio, mettendo in questione il significato stesso del termine “architettura fascista” che oggi, con tanta spavalda sicurezza, viene richiamato dal New Yorker nella sua battaglia per un’epurazione tardiva.
Di fronte alle obiezioni di chi contestava ogni possibilità di revisione di quella storia, condannandola in blocco alla condanna della memoria – che abbiamo visto recentemente all’opera con l’abbattimento delle statue di Saddam Hussein in Iraq dopo la guerra del golfo o con i Budda di Bamiyan in Afghanistan – stava la testimonianza incontrovertibile della qualità di un’architettura che, negli anni del Regime, aveva prodotto autentici capolavori, come la stazione di Firenze, la casa del Fascio di Como, il palazzo dei Congressi all’Eur di Roma, eccetera.
Nel processo di revisione bisognava far i conti anche con l’arte, che, proprio sotto il fascismo, imboccò la strada dell’arte urbana, invadendo con affreschi, bassorilievi e statue strade e piazze d’Italia. Mario Sironi, un dei nostri massimi pittori del XX secolo, divenne così l’equivalente di Terragni, sia per la comune fede fascista, sia per la loro capacità di trascendere il simbolismo politico per attingere all’espressione di una più generale condizione umana.
Da allora, per mezzo secolo, abbiamo continuato a studiare e a valutare, arrivando a riconoscere come generico e ingiustificato l’appellativo di “architettura fascista”, sempre più spesso sostituito dai termini di architettura razionale, architettura monumentale, architettura tra le due guerre.
Abbiamo imparato a valutare in modo più distaccato ed equilibrato i valori di quegli edifici che hanno segnato l’ingresso dell’Italia rurale nella modernità e hanno costituito di fatto l’ultima stagione dell’intervento pubblico di qualità (con la sola eccezione forse del programma Ina Casa del dopoguerra) nel paese.
La proposta di demolire questi edifici risulta tanto puerile e semplificatoria quanto criticamente fallace. Certo, dopo la guerra i monumenti pubblici furono “ripuliti” con l’erosione dei simboli più evidenti del fascio, del littorio e delle dediche al Duce: ma nessuno si sognò di demolirli, non fosse altro che per i costi economici e sociali. Ci si convisse e in alcuni casi addirittura si portò a compimento il programma interrotto, come per il cantiere dell’Esposizione Universale del 1942, che è diventato il quartiere storico dell’attuale Eur a Roma.
C’è voluto molto tempo, ma insomma ci siamo accorti che molta dell’edilizia costruita in quegli anni era stata disegnata su criteri di grande qualità da architetti che erano stati formati a una scuola di pensiero urbano: possono piacere o no, ma piazza della Vittoria a Brescia, via Roma a Torino, le città di Sabaudia, Aprilia, Guidonia, ecc nell’Agro Pontino, gli edifici delle Poste di Angiolo Mazzoni, di Giuseppe Vaccaro, di Mario Ridolfi o di Adalberto Libera, a Bergamo, a Palermo, a Napoli, a Roma sono tuttoggi alcune delle migliori interpretazioni del tema dell’edilizia pubblica in una città italiana.
Questa considerazione implica anche che sarebbe antistorico e sbagliato pensare di salvare pochi “capolavori” demolendo le “brutture” dell’edilizia cosiddetta minore. Prima perché la storia ci insegna che ciò che si è considerato minore un tempo è stato spesso rivalutato e riconosciuto come prezioso e fondamentale. Poi perché la storia non può avere la pretesa di riscrivere il passato a suo piacimento, essendo esso il patrimonio condiviso di una memoria collettiva.
In fin dei conti non sorprende neanche la presa di posizione della critica americana, nonostante l’arte del ventennio sia stata nell’ultimo quarto di secolo esposta e valutata in esposizioni di prestigiosi musei di tutto il mondo.
L’idea che la storia sia una tabula rasa che si può ridisegnare secondo i criteri del politicamente corretto del momento, purtroppo è diventata la regola di dittatori e populisti democratici in cerca di legittimazione. Non ci vuole molto infatti a capire che dietro le parole del New Yorker si celi l’ennesima versione del funesto principio dell’esportazione della democrazia, che tanti dissesti ha creato nelle coscienze e nella geopolitica di questo inizio secolo.