Dallo speciale di “Storia in Rete” dedicato al centenario del conflitto mondiale, “1915. L’Italia va alla guerra“, anticipiamo l’editoriale di Fabio Andriola. (SiR)
Per noi di «Storia In Rete» la Grande Guerra è sempre stata un tema un po’ speciale. Ci sembra, infatti, che in quella straordinaria anche se drammatica esperienza l’Italia, come nazione, abbia dimostrato doti e risorse importanti, esemplari. E nei periodi difficili, come gli anni che viviamo, un esempio importante di compattezza e vigore può essere utile anche perché smentisce tanti luoghi comuni che gli italiani per primi alimentano in se stessi. Ma più ci si avvicina alla fatidica data del 24 maggio (giorno in cui si «celebrano» o forse più semplicemente si «ricordano» i cent’anni dall’ingresso italiano nella Prima guerra mondiale) più aumenta la consapevolezza che l’Italia si avvia verso l’ennesima occasione mancata. In un’epoca in cui carta d’identità e passaporto sono ridotti ad un puro fatto amministrativo, mentre i confini e la stessa sovranità nazionale vengono considerati dettagli, quasi fastidiosi, retaggio di un passato lontano, inutile se non vergognoso, che possibilità c’è di ricordare con orgoglio lo sforzo titanico che il giovane Regno d’Italia compì tra il 1915 e il 1918? Uno sforzo fatto proprio per far coincidere i confini naturali con quelli politici e culturali, per chiudere un processo iniziato nel 1848 con la prima guerra di Indipendenza intrapresa dal Regno di Sardegna di Carlo Alberto di Savoia. Certo, non tutto fu lineare e il percorso che portò l’Italia all’Unità non fu tra i più semplici ma alla fine si arrivò all’obbiettivo. Un obbiettivo raggiunto in gran parte nel 1859-1861 (Seconda guerra d’Indipendenza e Impresa dei Mille), consolidato in qualche modo tra il 1866 (Terza guerra d’Indipendenza) e il 1870 (Presa di Roma) e coronato proprio nel 1918 con la riunione alla Madre Patria di Trento e Trieste, dell’Istria e della Dalmazia.
Tutto questo è costato parecchio, soprattutto vite umane. Sacrifici immensi di almeno tre generazioni di italiani – i nostri nonni, bisnonni, trisavoli – che andrebbero onorati, rispettati e conosciuti nei loro dolori ma anche nei loro successi, nelle loro paure ma anche per il loro coraggio, per come affrontarono le sfide immani che la Storia poneva loro dinanzi. E invece l’orientamento prevalente quale è? Uno squallido appiattimento sulla retorica minimalista che, in televisione e in libreria, al cinema come sui giornali punta esclusivamente a mettere l’accento sulla dura vita del fante in trincea, carne da cannone in mano a generali ottusi, cinici, inumani a loro volta al servizio di politici miopi e ambiziosi ad un tempo. Tutto qui: una lunga, infinita, drammatica «inutile strage» che poteva e doveva essere evitata. Il «perché» doveva essere evitata e come si sarebbero potuti raggiungere in altro modo determinati obbiettivi nessuno però lo dice. Meglio guardare con ostinazione il dito (le sofferenze della vita in trincea) e trascurare la Luna (gli obbiettivi). Un modo molto «politicamente corretto» di affrontare i problemi come dimostra anche la cronaca di questi anni e mesi.
La «strage» ci fu. Ma fu davvero inutile? Dovrebbero star bene attenti i cialtroni che confondono la retorica anti-guerra (ma a chi piace la guerra? Può mai davvero essere bello fare la guerra?) con le guerre necessarie che sono, soprattutto, le guerre di liberazione nazionale, come appunto fu la Prima guerra mondiale per l’Italia. Mica contestano i greci, gli slavi, i russi, i libici, gli abissini che combattevano – legittimamente ma non di rado con eccessi uguali e contrari a quelli che invece vengono imputati ai militari italiani – i nostri soldati nella loro veste di invasori e colonizzatori. Mica contestano i reduci repubblicani della Guerra civile spagnola che – volenti o nolenti – nel 1937-39 combattevano per la Repubblica ma anche a fianco degli uomini di Stalin. O, men che meno, i partigiani che presero il fucile per combattere il tedesco invasore. E ci mancherebbe… Durante le ridondanti celebrazioni per il 70 anni della Liberazione, lo scorso 25 aprile, avete forse sentito qualcuno dire che i partigiani si sono sacrificati e in gran numero sono morti nel corso di una «inutile strage»? Le sofferenze della vita in montagna o comunque della clandestinità nell’Italia occupata dai tedeschi non vanno forse inquadrate nell’ottica di un contesto di guerra finalizzata ad un «obbiettivo superiore»? Ebbene, cosa ha di più il partigiano del 1944-1945 rispetto al fante del ’15-18? La consapevolezza? Ma in quante guerre il soldato ha, inizialmente, una totale consapevolezza di cosa sta facendo e per quali motivi sta combattendo? Del resto molte lettere e diari ci dicono invece che tanti soldati, anche spesso poco più che alfabetizzati, sapevano cosa stava accadendo e che lo sforzo di tutti era quello necessario per arrivare finalmente in fondo alla strada aperta nel 1848. I nemici? Non a caso erano sempre gli stessi. Lo scopo? Anche lui era sempre quello. Certo i morti si son contati a centinaia di migliaia ma sono morti (a differenza, spiace ma è così, dei soldati austriaci e ungheresi che, più o meno consapevoli, combattevano per l’Imperatore di Vienna) non per conquistare un Paese straniero, per occupare, sfruttare e deportare popolazioni pacifiche, per depredare opere d’arte, industrie e campi stranieri. Sono morti per portare a compimento una cosetta da niente per alcuni. Una cosetta che si chiama Unità nazionale e che si è sempre pronti a rivendicare, giustamente, quando qualcuno, da qualche parte dell’inquieto pianeta Terra la minaccia o la nega a piccole enclave, a minoranze etniche, a paesi economicamente sottosviluppati. Basta che certe rivendicazioni non siano in capo, ieri come oggi, all’Italia: allora diventano populistiche, revansciste, «nazionaliste» (che brutta parola!), antistoriche…
Nel più classico ed esemplare strabismo pseudo-pacifista quello che valeva e vale per chiunque non vale per i nostri nonni che, nel migliore dei casi, erano «inconsapevoli» e mandati a morire senza un perché. Invece, pur con tutte le zone d’ombra che qualunque evento storico si porta dietro (e di cui cerchiamo di dar conto nelle prossime pagine) pensiamo che la Grande Guerra sia stata, per l’Italia, una guerra necessaria e, in una prospettiva storica, perfino una «guerra utile» per le indubbie ricadute che ha avuto non solo per la modernizzazione e la democratizzazione della società ma, soprattutto, per l’opera di formazione e consolidamento di quella strana cosa (almeno in Italia) che si chiama «identità nazionale»: una «consapevolezza di sé» in quanto appartenente ad un gruppo umano e sociale che non solo parla la stessa lingua e vive sulla stessa terra ma che ricorda anche come le generazioni precedenti hanno contribuito a delimitare lo spazio geografico e culturale in cui il gruppo stesso storicamente si muove e opera. L’«identità nazionale» può essere avvertita e affermata anche in modo rustico senza che questo ne infici il valore e il senso. Un esempio interessante: lo scorso 18 novembre 2014, durante la trasmissione di approfondimento politico «Quinta colonna» (in onda su Rete4), nel mezzo del solito collegamento infuocato dove residenti di periferia si confrontano e lamentano della vicinanza di campi rom, un sanguigno signore bolognese, di fronte alla giustificazioni di un peraltro civilissimo contraddittore rom che rivendicava il proprio essere «italiano» ha sbottato così: «Vi dovete comportare come dice la legge italiana. Siete in Italia, cazzo. Mio nonno era sul Carso a combattere. Tuo nonno dove cazzo era?».
Ecco: porsi certe domande mentre il delirio del «multiculturalismo senza se e senza ma» soffia fortissimo può aiutare a capire cosa si vuole o se lo si vuole ancora. Dove erano i nostri nonni e bisnonni nel ’15-’18? A fare che? Secondo noi in moltissimi casi erano a fare qualcosa di difficilissimo, durissimo, bellissimo e che merita non solo rispetto ma rappresenta un valore attuale e da riaffermare: finivano di fare l’Italia, portandola alla sua dimensione naturale e a confini sicuri dopo secoli di invasioni da ogni parte dell’arco alpino. Un’impresa eroica che mal si sposa con la visione lacrimevole, minimalista se non disfattista che sembra prevalere un po’ ovunque tranne che nelle pagine della rivista che avete in mano. «Storia in Rete» non fa politica in senso stretto. Fa politica «culturale» che è una cosa che dovrebbe unire al di là degli schieramenti politici che, del resto, non ci interessano. Quindi fa politica perché opera tra le persone per ribadire alcuni principi, certi punti di vista, determinate letture del passato che dovrebbero, tra le altre cose, aiutare a capire e a trovare qualche ragione di orgoglio e di pacificazione, di unione e riflessione. Gli italiani non sono sempre stati solo divisi, limitati, meschini, disorganizzati, «furbi», evasori, inaffidabili. Anzi, molte stagioni della nostra Storia – e la Grande Guerra è tra queste, con le inevitabili ombre e contraddizioni di ogni esperienza umana – sono state esaltanti, degne, ricche di umanità e sacrificio, di creatività e di tenacia. Oggi, nella situazione desolante in cui anche l’Italia si dibatte, guardarsi indietro e vedere che c’è stato qualcosa di bello e grande cui rifarsi può essere utile, a prescindere dagli orientamenti politici contingenti.
Leggendo i contributi sul «Patto di Londra» vedrete che l’Italia del 1914 e del 1915 non aveva gran voglia di far guerra alla Germania del Kaiser. Il nostro vero obbiettivo era ovviamente l’Austria-Ungheria al cui vertice sedeva sempre il solito Francesco Giuseppe, l’uomo nel cui nome vennero giustiziati tanti patrioti: dai Martiri di Belfiore (1852-53) a Guglielmo Oberdan (1882) fino a Cesare Battisti (1916). Una storia lunga, nobile e dolorosa che va ricordata e che ci impegniamo a raccontare presto. In fondo fu la prima, vera Resistenza. Durata non 18 mesi come quella iper-celebrata da un’Italia dalla memoria intermittente, ma diverse decine d’anni… E finita non il 25 aprile 1945 ma il 4 novembre 1918. Due date, due liberazioni, entrambe vittorie italiane. Ma per comodità ci concediamo di celebrarne davvero solo una, quella più recente, più breve e, tutto sommato, meno sanguinosa. In un panorama come quello attuale, sempre più moralmente e culturalmente informe, dove l’assenza di memoria porta a trascurare storia e tradizioni in nome di un multiculturalismo che tutto appiattisce e dimentica, il «mainstream» – cioè la corrente dominante sui media – tende a privilegiare le emozioni sul ragionamento. Si punta sul pietismo, sulla lacrimuccia, non per spiegare il passato o il presente ma per evitare di ammettere che si stanno surrettiziamente, vilmente, disonestamente cambiando carte e regole del gioco. Chi protesterà davvero e in nome di cosa se non si ricorderà più di nulla?
Con questo speciale, e con gli altri che seguiranno nei prossimi anni, «Storia In Rete» andrà ancora una volta contro corrente. Per dare un’occasione, a chi vorrà, di ricordare e celebrare un momento importante, tragico, eroico, sanguinoso, comunque fondamentale. Per chi invece preferisce la melassa o, ancora meglio, preferisce non ricordarsi di nulla non ci sarà che l’imbarazzo della scelta.