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La storia d’Italia come “terra di frontiera”

Marco Valle non è uno storico professionista e questo lo differenzia da alcuni “professori di storia”, sacerdoti del mainstream, officianti del «politicamente corretto» che hanno fatto del loro «mestiere» un esercizio stanco e ripetitivo, simile a tanti altri lavori soffocati dalla monotonia della routine impiegatizia. Marco Valle non è neppure un amateur, un semplice dilettante, un orecchiante dell’analisi del passato che usurpa, come sempre più spesso accade nei talk shows e sulle pagine dei giornali, il titolo di storico. Marco Valle è invece un amante esigente e vigoroso ma insieme devoto e rispettoso della storia indagata nella sua lunga, complessa, accidentata, mai rettilinea continuità temporale, nella quale ogni evento del passato si fa stimolo e opportunità per pensare la dinamica del presente.

di Eugenio Di Rienzo dal Lanostrastoria del 3 dicembre 2014 

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Marco Valle è soprattutto un «uomo di frontiera (triestino di origine istriana, italiano e croato per sangue e cultura), che, come altri suoi illustri conterranei, Biagio Marin, Claudio Magris e il meno noto Franco Vegliani, conosce, per esperienza biografica e memoria familiare, la ricchezza e la miseria, i rischi e i vantaggi, i lutti e le occasioni vitali delle «terre di confine». Luoghi dell’anima e dello spirito, e non mere espressioni geografiche, che, smarrendo ciclicamente la loro natura di ponte inter-etnico e inter-culturale, si trasformano in «terre di sangue», in teatro d’inestinguibili conflitti razziali e religiosi. In quelle regioni, infatti, come ha scritto un altro «man on the border», il bosniaco Ivo Andrić, «la progressione del tempo lineare non riesce a comprimere quell’oscuro fondo della coscienza, dove vivono e fermentano i sentimenti fondamentali e le indistruttibili persuasioni delle singole razze, fedi, caste; sentimenti e persuasioni che, apparentemente morti e seppelliti, preparano per successivi, lontani tempi, inaudite metamorfosi e catastrofi senza le quali, a quanto pare, non possono esistere i popoli».
Da questo complesso patrimonio esistenziale e culturale è un nato un volume di saggi, che si presenta intrigante e inquietante già dal titolo: “Conflitti e confini. Uomini, Imperi e sovranità nazionale” (Eclettica, 2014, pp. 312, € 18,00). Nel libro, che nonostante il suo apparente carattere frammentario è provvisto di una salda coerenza tematica, Valle indaga il drammatico destino del nostro «confine orientale» negli ultimi anni del secondo conflitto e nel primo decenio del secondo dopoguerra. Non solo gli orrori delle foibe, ma anche il martirio di Zara (così bene rappresentato in un dolente saggio di Paolo Simoncelli) e quello di Trieste, violentata dall’odioso e sanguinario protettorato militare britannico, prolungatosi fino all’ottobre 1954, come dalla breve (maggio-giugno 1945) ma efferata e cruenta occupazione dell’IX Korpus dell’Esercito di liberazione titino. E ancora Valle ci rammenta l’oscuro fato dei territori giuliani, dove nel febbraio 1945 i gappisti comunisti, trasformandosi in «volonterosi carnefici» al servizio della politica di potenza della nuova Iugoslavia comunista, trucidarono un reparto di partigiani cattolici e nazionalisti della Brigata Osoppo che, dopo essersi battuti contro le forze d’occupazione germaniche e le milizie della Repubblica Sociale Italiana, si opponevano alla slavizzazione forzata della regione.

Ma Valle non dimentica di mostrarci anche il rovescio di queste funeste vicende, quando ci parla della stolta e gratuita intolleranza del regime fascista verso le popolazioni slave dell’Istria e della Dalmazia, e quando ricorda l’esistenza delle «foibe degli altri» ricostruendo la mattanza delle “milizie bianche” slovene, cattoliche e anticomuniste (i Domobranci) e dei loro congiunti (donne, anziani, bambini) avvenuta nel maggio del 1945 per mano del terrorismo di Stato titoista che poi eresse un vero e proprio «monumento all’infamia» con la costruzione del gulag di Goli Otok. Il campo di sterminio, ubicato in un isolotto posto a breve distanza dalla costa croata, dove dal 1949 al 1955, trovarono la morte, per fame, malattie, maltrattamenti, migliaia di dissidenti al regime di Belgrado, tra i quali molti comunisti italiani di fede stalinista che sconsideratamente avevano oltrepassato il valico di Opicina alla ricerca del «paradiso socialista».

La ricerca di Valle non si limita in ogni modo alla guerreggiata area di confine del litorale adriatico. Per Valle è l’Italia intera, grande piattaforma al centro dell’antico Mare nostrum latino e poi pisano, genovese, veneziano, a essere «terra di frontiera». L’eccezionale posizione geopolitica del nostro Paese gli consentì, infatti, di essere il principale avamposto della Cristianità nella lotta contro l’Islam, il grande emporio degli scambi commerciali tra Europa, Africa settentrionale, Levante, il fecondo laboratorio d’ibridazione di popoli, religioni e culture. Questa stessa posizione lo condannò, tuttavia, ultimata la conquista francese della Corsica (1768), a divenire una volta per sempre la semplice pedina del «Grande Gioco mediterraneo» che, con la decadenza della Spagna dal rango di Big Power, ebbe come uniche protagoniste Parigi e Londra.

E’ soprattutto la più ingombrante presenza inglese nel Mediterraneo che desta l’interesse dell’autore di “Conflitti e confini”. La contesa anglo-francese per l’egemonia sul «grande lago salato», apertasi fin da quando con la pace di Utrecht del 1714 la Gran Bretagna si aggiudicò il controllo di Minorca e Gibilterra e acuitasi prima ancora della spedizione di Bonaparte in Egitto del 1798, fu di fondamentale importanza nell’imprimere una svolta sabauda e unitaria al nostro Risorgimento. Qui Valle sposa senza esitazioni la prospettiva, sviluppatasi in questi ultimi anni, che individua nel sistema delle relazioni internazionali, nella debolezza diplomatica e militare del Regno delle Due Sicilie e nell’azione di Londra i fattori decisivi del crollo del regime borbonico.

Si tratta di una prospettiva coraggiosa, innovativa e indispensabile se si vuole davvero delineare una nuova storia politica del Mediterraneo e della “Guerra Fredda”, ingaggiata, tra metà e fine del XIX secolo, dalle due principali Potenze marittime europee per affermare la loro supremazia sul «Grande Spazio» marittimo che, grazie al Canale di Suez (edificato tra 1859 e 1869), uscì dalla subordinazione nella quale lo aveva rinchiuso, fin dal Cinquecento, lo sviluppo delle rotte oceaniche. Grazie al taglio dell’istmo, che separava Porto Said da Suez, il Mediterraneo riacquistò allora una piena centralità economica, politica e strategica come «passaggio a sud-est» tra Atlantico e Oceano Indiano e quindi come «vena iugulare» dell’Impero britannico, offrendo la possibilità di consentire la navigazione dall’Europa all’Asia senza circumnavigare l’Africa lungo la rotta del Capo di Buona Speranza.

Dal 1859 il Regno Unito, già padrone di Gibilterra e di Malta, non poté quindi tollerare la presenza di una Potenza ostile o semplicemente estranea alla sua sfera egemonica (come il Regno di Napoli o un’Italia infeudata alla politica di Parigi) che, posta al centro del Mediterraneo, fosse stata in grado di minacciare dalle coste siciliane la principale linea di comunicazione commerciale e militare tra la madrepatria l’India britannica. Dopo aver smaccatamente appoggiato la spedizione di Garibaldi, prima consentendo lo sbarco degli insurgents in camicia rossa a Marsala poi permettendo il loro passaggio in Calabria, nonostante la decisa opposizione di Napoleone III, Londra riconobbe immediatamente, sempre in un’ottica antifrancese, il Regno d’Italia, nel tentativo di porre una forte ipoteca sulla politica estera della nuova organizzazione statale. Come osservò Federico Chabod in un breve, lucido saggio del 1940 si trattò di un grave errore di valutazione. Le bronzee leggi della Geopolitica costringevano, infatti, il giovane Stato a esercitare una politica navale e internazionale attiva e autonoma. Per riprendere una frase di Fernand Braudel, ricordata da Valle, «l’Italia ha sempre trovato nel Mediterraneo il segno del proprio destino poiché essa ne costituisce l’asse mediano e le è dunque naturale il sogno e la possibilità di dominare quel mare in tutta la sua estensione».

Giustamente Valle sostiene che fu proprio il maggior artefice dell’unità italiana a essere pervaso da questa «passione mediterranea» che la vulgata storiografica ha erroneamente attribuito al solo Francesco Crispi e poi Mussolini. Nella nota preliminare al bilancio del ministero della Marina, per l’anno 1861, Cavour, primo Presidente del Consiglio italiano, che cumulava anche l’interim di quel dicastero, affermò, infatti, che «colui che è preposto all’amministrazione delle cose di mare di uno Stato collocato in mezzo al Mediterraneo, ricco di invidiabile estensione di coste e di una numerosa popolazione marinara, deve sentire il dovere di dare il più ampio sviluppo alle risorse navali della Nazione, valendosi degli elementi di forza che ha trovato nella nuove province». Era un progetto che, collegato a quello di un’organizzazione federalistica del nuovo Regno in senso fiscale e amministrativo anch’essa ideata da Cavour, avrebbe forse impedito e almeno contenuto in limiti sopportabili la nascita del divario economico Nord-Sud-Est. Un divario che lo sviluppo del processo unitario dopo il 1861, principalmente seppur non esclusivamente incentrato sulla promozione delle potenzialità del futuro «triangolo industriale», provocò col risultato di mettere a repentaglio, ieri come oggi, la stessa coesione nazionale.

Se veramente voleva esistere come Stato pienamente sovrano e poi resistere alle sfide lanciate da una situazione internazionale in rapida via di trasformazione, la Nuova Italia, ormai affacciata su tre teatri marittimi, come lo era stata la media Potenza napoletana, doveva, secondo Cavour, cessare di privilegiare a senso unico la «tensione lotaringica» del Piemonte principalmente rivolta verso Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi. Il nostro Paese non poteva, infatti, non puntare anche su una coraggiosa e intraprendente politica mediterranea in grado di consolidarne la precaria indipendenza e di offrire nuove occasioni di sviluppo alle regioni meridionali e orientali storicamente orientate verso la Penisola balcanica, l’Africa settentrionale e l’immenso litorale islamico esteso dall’Anatolia alla Tunisia.

Per portare a compimento questo programma, Cavour reputava indispensabile creare un grande marina mercantile che avrebbe consentito al Regno di Vittorio Emanuele II di non dipendere dalle flotte di altri Paesi per i suoi scambi economici. Occorreva poi sostenere con sovvenzioni statali le Società di navigazione nazionali disposte ad assicurare collegamenti regolari tra l’Italia e le Americhe e infine favorire il rapido passaggio dalla propulsione velica a quella a motore. Non minore attenzione doveva essere riservata anche alla marina militare. In caso di guerra o di crisi internazionali, le rotte marittime, solcate dal nostro naviglio, richiedevano di essere difese da un dispositivo bellico adeguato perché, come la Gran Bretagna aveva insegnato, commercio e guerra navale erano due facce della stessa medaglia.

La prematura scomparsa di Cavour impedì disgraziatamente che questo ambizioso piano fosse gestito dal suo creatore, il quale sicuramente avrebbe inserito l’Italia, a migliori condizioni, nel nuovo grande e promettente ciclo storico che l’apertura dell’arteria di Suez consegnava alle Talassocrazie europee. Valle non manca comunque di evidenziare che il più stretto nucleo dei collaboratori dello statista piemontese, che gli subentrarono alla guida del Paese, fu sostanzialmente in grado di seguire l’itinerario tracciato dal loro predecessore. Sfidando il malcontento e l’irritazione di Parigi, Vienna e Londra, questi uomini, superata la grave crisi di Lissa, provvidero alla costruzione di una potente Armata di mare, di un’eccellente flotta commerciale e di un’industria siderurgica e cantieristica di alto livello (non tributaria di quella inglese), rendendo possibile una futura espansione della Penisola nell’oltremare. Grazie agli sforzi e alle competenze di tre ottimi ministri della Marina (Augusto Riboty, Benedetto Brin, Simone de Saint Bon), nell’ultimo trentennio del XIX secolo i vascelli della «Terza Roma», per usare l’espressione coniata da Mazzini, assicurarono una stabile presenza italiana nel Levante, nel Mar Mero, nel Mar Rosso, sulle sponde africane e si spinsero fino al Rio de la Plata per assicurare la protezione dei nostri emigranti.

Al netto di queste importanti realizzazioni, i successori di Cavour, condizionati dalle debolezze strutturali di un Paese ancora disunito di fatto, arretrato nel Settentrione come nel Meridione e parossisticamente impegnato in una sfibrante opera di Nation-building e di modernizzazione, non furono in grado di mettere a fuoco con la stessa lucidità il grande disegno mediterraneo del loro precursore. Come Valle ci ricorda, Ricasoli, Rattazzi, Menabrea, Lanza, Minghetti, Depretis, di Rudinì, Crispi, Giolitti si affacciarono sulla scena internazionale privi di una proposta politica globale che forse necessariamente, vista la difficile situazione dell’Italia, ma certo troppo spesso li fece oscillare tra spericolato avventurismo e rivendicazione di un’orgogliosa volontà di potenza (entrambi incompatibili con le ridotte risorse disponibili), opportunismo, eccessiva prudenza, acquiescenza verso l’agenda dettata da più vigorosi partners europei, esclusivo interesse per i problemi della politica interna. Alla ricerca di un equilibrio marittimo e continentale, che avrebbe dovuto tutelare la media Potenza italiana dalla minaccia di avversari storici e di nuovi potenziali nemici, sicuramente a noi superiori per forza e determinazione, la strategia dei nostri governanti si sviluppò di necessità, fino al 1914, nel tentativo di tessere una sottile e a volte ambigua opera di mediazione tra Germania e Francia e in seguito tra Triplice Alleanza e Regno Unito.

Con sperimentato realismo, annota Valle, il Foreign Office tentò di gestire a suo vantaggio il moderato protagonismo delle cancellerie di Firenze e Roma – non pregiudizialmente avverse ma neppure supinamente subalterne alla dominante Albione – e di anestetizzare le nostre pulsioni espansionistiche e coloniali. Se dal 1861 fino ai primi del Novecento. Londra continuò a valutare il Regno d’Italia come un necessario contrappeso alla presenza francese nel Mediterraneo, pure essa ci rifiutò nel 1863 l’acquisto delle Isole Ionie e dall’anno successivo scoraggiò sistematicamente le nostre ambizioni sulla Tunisia che nel 1881 fu infine sottoposta al protettorato di Parigi. Anche la modesta presenza italiana nel Mar Rosso e in Africa Orientale fu guardata con malcelato sospetto dall’Inghilterra che ci concesse graziosamente il benestare a una limitata espansione in quell’area solo dopo il successo della sanguinosa rivolta islamista contro la dominazione anglo-egiziana del Sudan che iniziata nel 1881 terminò, come guerra guerregiata, nell’aprile 1896 con la vittoriosa difesa di Cassala da parte delle nostre truppe.

Infine, se il consenso di Withehall si rivelò determinate, sul piano diplomatico, per consentire a Giolitti la conquista della Libia nel 1911, la coeva occupazione italiana del Dodecaneso fu giudicata invece dall’Inghilterra come un’indebita intrusione nell’Egeo e come una virtuale minaccia alle basi cipriote della Mediterranean Fleet e alla sicurezza di Suez. Questi malumori e questi sospetti riaffiorarono con forza, già nel periodo immediatamente precedente la fine del primo conflitto mondiale, nel primissimo dopoguerra e fino al 1920. Allora Francia e Regno Unito, i nostri maggiori alleati nella sanguinosa contesa contro gli Imperi centrali, sostennero e fomentarono le rivendicazioni anti-italiane di Atene e Belgrado, tentarono di escludere Roma dalla spartizione dell’Impero ottomano e manovrarono con grande attivismo e spregiudicatezza per impedire o limitare drasticamente un possibile incremento della nostra presenza militare e della nostra influenza politica nello Ionio, nei Balcani e nel Levante.

Partendo da queste premesse, osserva ancora Valle, è agevole comprendere la durissima reazione di Londra contro l’invasione dell’Etiopia del 1935 che rischiava d’infrangere il secolare equilibrio mediterraneo favorevole al Regno Unito. Con la decisione di Mussolini di chiudere l’annosa partita del Corno d’Africa, l’Italia fascista portava a compimento le ambizioni coloniali del Risorgimento liberale e democratico (si pensi a Mazzini) ma indirettamente minacciava la stessa tenuta dell’Impero britannico, già resa precaria dai movimenti nazionalisti indiani e arabi, dall’espansionismo russo in Afghanistan, da quello giapponese in Oriente e dall’insidiosa penetrazione economica statunitense nella Penisola arabica, in Iran, in Iraq. L’incapacità di Roma di non prevedere il livello della risposta britannica a quella sfida e quella di Londra di non aver saputo valutare nella loro esatta e in fondo limitata dimensione gli obiettivi dell’imperialismo littorio furono entrambe uno sbaglio fatale. La crisi anglo-italiana del 1935-1936, che rischiò di provocare un vero conflitto nella fluida frontiera del Mediterraneo, distrusse i promettenti presupposti della «Grande alleanza» antinazista, in grado di raggruppare i vincitori del 1918 e in prospettiva la stessa Unione Sovietica, e costituì una delle cause non occasionali della dinamica che, di lì a pochi anni, contribuirono a spalancare le porte del Tempio di Giano di quasi tutte le capitali europee.

29 Commenti

  1. Signor Croce il Capitano di Vascello Maugeri fino al maggio 1941 era imbarcato sull’incrociatore pesante Bolzano in qualità di comandante. Partecipò alle tristi vicende che portarono a Matapan agli ordini dell’ammiraglio Sansonetti, il quale comandava la divisione incrociatori composta da Trieste, Trento e Bolzano.
    Ergo sarebbe un’enorme castroneria o panzana colossale attribuire al presunto tradimento del Maugeri la sconfitta di Matapan, sebbene qualche imbecille periodicamente lo faccia.

  2. Torniamo a Bari 1943 e dintorni – Premesso che le valutazioni sull’importanza degli effetti del bombardamento, per quanto notevoli e non trascurabili, da parte di storici e personaggi da Lei citati, Signor De Felice, sono ampiamente confutabili e posto che, qualora non lo avesse capito, quando Le cito certi ammiragli della US Navy, e soprattutto quando mi riferisco ad Ernest King, non lo faccio a casaccio visto che vi sono evidenti collegamenti con la visione talassocratica del mondo di tale FDR e di tutte le dinastie dei Roosevelt, tanto quelli di Oyster Bay quanto quelli di Hyde Park, e quanto avvenne in Nord Africa e Mediterraneo nel 1942-1943, a partire dall’impiego del carrier battle group dell’USS Ranger e delle “jeep carrier”e al successivo mancato impiego delle nuove “fleet carrier” nel Mare Nostrum (“Towers-Yarnell effect”?), mi sarei aspettato che Lei tirasse fuori argomenti e documenti ben più importanti relativamente alla guerra chimica (non?) condotta dagli alleati e soprattutto dagli americani più che dagli inglesi. Capisco l’odio atavico (reminescenza ancestrale?)per la Perfida Albione, che nemmeno al sottoscritto sta particolarmente simpatica,ma quantomeno si accusino gli inglesi per quello che hanno fatto e non per colpe che non hanno….
    Altrimenti Signor De Felice si corre il rischio di veder turbato il proprio sonno dai fantasmi di Oskar Parkes e Stephen Roskill, oltre a quello dell’immancabile “Lord ABC” e nella speranza che quello di Arthur Marder non attraversi l’Oceano!
    Signor De Felice ci sono tanti dettagli sull’operatività delle varie forze armate nella seconda guerra mondiale che a mio avviso (ma io sono assai fallibile, erro cinque volte su quattro e anche più) meriterebbero maggior attenzione che non le ipotesi sulle intenzioni su quello che avrebbero voluto fare o sul dove potrebbero essere fuggiti certi personaggi! Si è mai chiesto come quasi nessuno “storico main-stream” parli del fatto che presso tutte le catene di comando delle varie Air Forces americane, partendo appunto dall’Air Force di turno nel teatro operativo xy, passando per gli Air Command, e arrivando agli Air Wing e talvolta persino agli Air Group vi fosse sempre, e ripeto sempre, un distaccamento del CWS dell’USAAF, ovvero un distaccamento del Chemical Warfare Service? Dobbiamo credere alla storiella preconfezionata secondo cui questi specialisti si sono occupati e dovessero occuparsi soprattutto / quasi esclusivamente di napalm e affini?
    Cosa accadde alle centinaia di bombe chimiche che erano state distribuite alle varie Forze Aeree dell’USAAF in giro per il mondo? Cosa ne fecero gli americani una volta finita la guerra? Anche a guerra in corso, per la verità!
    Banalmente, posto che la bomba M47 poteva contenere aggressivi chimici o napalm:
    http://weaponsman.com/wp-content/uploads/2015/01/M-47-chemical-bomb.pdf
    http://www.underwatertimes.com/news2/dumping_chemical_weapons.pdf
    http://www.wood.army.mil/chmdsd/images/pdfs/Summer%2010/Walk-Flying%20Dragon-final.pdf
    http://mustardgas.org/Sydney-A-Chemical-Weapons-Depot-and-Dumping-Ground.pdf
    http://www.underwatertimes.com/news2/dumping_chemical_weapons.pdf
    http://www.trbas.com/media/media/acrobat/2005-10/20226301.pdf

    Quanto al mio nomignolo, mi spiace Le dia fastidio. Sappia solo che è mio preciso dovere usarlo: è un coraggioso atto di irriverenza e riguarda una pagina tragicomica della mia passata vita lavorativa. Mi fermo qua perché i rischi sono troppi e potrei non essere in grado di far fronte alle eventuali conseguenze, visto che l’Italia abbonda di attaccabrighe e di azzeccagarbugli pronti a dar loro ascolto.

    Certo che, con tutto il dovuto rispetto, dare dell’asservito anche a quegli Ufficiali della Marina Militare che misero in opera il celeberrimo “trattamento Birindelli” significa quantomeno non aver nemmeno mai cercato di camminare, marciare o correre in quel piazzale davanti al brigantino Alfredo Cappellini…

    Forse un po’ di rispetto per De Giorgi padre e figlio sarebbe doveroso, più che continuare a tessere le lodi di un dittatore da opera buffa complice di un sovrano da operetta! Ma si sa, viva Cavagnari e chi non ebbe nulla da eccepire su quel pazzesco modo ultra-accentratore di esercitare il Comando sulle Forze Navali!

    Domandina domandina, chi mai sostituì l’1 febbraio 1943, tale Ugo Cavallero (assai probabilmente un incapace, ma notoriamente amico personale di tale Kesserling) con Vittorio Ambrosio, notoriamente un antitedesco?

    Forse è stata la solita lobby rasta-cannabinoide-giudaico-pluto-falsamente-democratico-certamente-massonica con mire indicibili/inimmaginabili nei settori Oil&Gas e Mines&Quarries che oggi sta dominando il nostro clima grazie alle scie chimiche?

  3. Signor Croce grazie per i consigli dui filmati e gli scritti del Dottor Baroni. Parte di ciò che dice è ampiamente condivisibile, specie quello che riguarda il radar. Non concordo però su Matapan, su Maugeri, sui traditori, sull’inefficacia di ULTRA. Nell’intervista rilasciata vi sono alcune imprecisioni / sopravvalutazioni sulla Fleet Air Arm e sulle portaerei inglesi. Affermare poi che un siluro sia un arma economica non è esatto: un siluro è una macchina e come tale costava molto di più di una bomba aviolanciata di pari potenza. Ricordiamo che per buona parte della durata della guerra gli aerosiluranti imbarcati britannici impiegati in Mediterraneo furono i Swordfish (dizione Marcon) e gli Albacore, con certo Barracuda e Avenger! E nonostante questo riuscirono ad infliggere un sacco di danni alla Regia Marina! Però non possiamo attribuire ai traditori l’inefficacia dei pezzi antiaerei: si ricorda cosa accadde alla Bismarck contro lo stesso tipo di biplani della FAA?
    Una domanda: per enciclopedia delle navi il Dottor Baroni intende forse gli annuari Flottes de Combat? Perchè nel caso Le ricordo che qualche copia veniva regolarmente acquistata dalla Regia Marina, al pari dei quanto veniva fatto con il Jane’s Fighting Ships, o con il Weyers Flottentachenbuch. Questi volumi erano in libera vendita e di solito era compito degli addetti navali delle varie ambasciate italiane procurarsene qualche copia. Il Dottor Baroni dovrebbe sapere che alcune copie di questi volumi finirono in una celebre collezione / archivio navale che fino ai primi anni ’70 dello scorso secolo era ospitata al civico 47 di Via d’Azeglio, a Bologna, archivio che ancora oggi, a quarant’anni e passa dalla morte di quel famoso collezionista / appassionato di storia e fotografia navale, viene spesso citato. Ora purtroppo tutto quel materiale si trova a Stoccarda, in quella famosa biblioteca di Stoccarda che vide tra i curatori anche il Professor Jürgen Rohwer.
    Grazie ancora per le informazioni. Saluti.

  4. Caro sig.Admiral,
    lei prendendo posizione su Maugeri ( oltre a Ultra e sciocchezze varie) si mette sullo stesso piano dell’avvocato delle cause perse.La metta come vuole ma non si scappa.E’ vero che Maugeri divenne capo del SIM nel maggio 1941 e li rimase fino all’8 settembre 1943. Ma questo cosa cambia?Il fatto che poi era ( perchè vi era) sull’incrociatore Bolzano durante la carneficina ( e non battaglia) di Matapan non cambia una virgola.Il briccone non era il solo che remava contro e non dal 10 giugno 1940,ma da molto prima.Quindi,non cambia. assolutamente niente.Fanno testo le sue memorie fatte pubblicare solamente in inglese ( chissà perché..),in cui afferma candidamente che lui parteggiava per gli Alleati e da questi fu poi premiato a guerra finita ( maggio 1946 se non erro) su una nave della US navy,al largo di Genova,in forma segreta con la medaglia del Congresso ( massima onoreficenza USA) per gli altri servigi resi ai governi Alleati e americano in particolare.Le sue ( di Maugeri) memorie pubblicate pochi anni la fine della guerra ( di cui già le ho scritto) furono intercettate negli USA da un italiano,amico del giornalista ( e già corrispondente di guerra sui sommergibili) Pietro Caporilli;il quale avviso’ Caporilli di cio’ che aveva fra le mani e gli mando’ una copia.Caporilli davanti a tanto popo’ di materiale ando’ a nozze. Infilizo’ il Maugeri che fu un piacere ( si fa per dire).Maugeri,”l’onorato” Maugeri querelo’ ( peggio di uno con la faccia di bronzo) Caporilli ( che nel dopoguerra fu fondatore e direttore del periodico “Asso di bastoni”).e ne scaturi’ un processo. Alla fine di questo processo,dopo varie vicissitudini,Maugeri fu costretto a lasciare il Comando navale per il basso Tirreno ( testuale).In un paese serio avrebbe come minimo dovuto subire una degradazione in tronco. Ma il Maugeri ( che non era proprio un pesce grosso) monaccio’di tirare in ballo altri nomi piu’ altisonanti. E per non far scoppiare il polverone,fu spedito,sempre nell’ambito della nuova Marina Repubblicana,a svolgere mansioni meno prestigiose e da allora spari’ di scena,conservando sempre il grado. Questi sono i fatti. Che a lei piacciano o no cosi è.Il fatto che poi Lei non concorda su Matapan e altre amenità che lei scrive sul caso del tradimento irridendo Trizzino è soltanto affar suo,ma nulla ha a che fare con la storia dei fatti,con la precisa dinamica dei fatti.La battaglia di Matapan fu ,invece,una vera trappola preparata a danno della nostra Marina. Il suo detestato Trizzino,ha evidenziato anche le prove di tutto cio’. Ma vedo che lei vuol dormire sulla neve sognando che i porci volano. Ma non è cosi.Le dico solo che un giorno prima dello scontro con la flotta inglese,furono mandati due radiomessaggi ( in chiaro e non in cifra) ,facendo agli inglesi un bel “regalo” su un piatto d’oro e non d’argento.Infatti,grazie a quei radiomessaggi intercettati dagli inglesi ( e a Supermarina lo sapevano che potevano essere intercettati) riuscirono a localizzare la nostra flotta e con gli apparati radar ( che gli inglesi avevano e noi no,seppur lo aveva brevettato e inventato anche il prof.Ugo Tiberio,Uffciale del Genio Navale,che fece gli sperimenti proprio sotto il comando di Angelo Iachino che allora dirigeva l’Accademia Navale di Livorno)fecero il tiro al piccione. Il resto sono solo favolette. Se a lei fa piacere crederci si accomodi. Nessuno glie lo proibisce.Ma nel suo disquisire Lei si dimentica di un particolare molto importante. Le faccio presente,tanto per farglielo ricordare (e forse ragionare) che l’Italia il 10 febbraio 1947,firmo’ un vergognosissimo dicktat ( e non trattato di pace ch’è un’altra cosa)che mai nazione al mondo sconfitta,da quando l’uomo sulla terra ha fatto storia gli è mai capitato di firmare.In quel dicktat,composto di circa 150 punti,ci sono due punti molto significativi. Uno è l’articolo 16,che vietava al nuovo governo italiano di punire chi tradi il paese dal 10 giugno 1940 fino al 10 febbraio 1947. L’altro il 17,che vietava ( e tutt’ora vieta) la ricostituzione del Partito fascista. Casualamente (?),ma non troppo,16+17= 33….Ma guarda un po’…Le dice niente tutto cio’? O ancora vogliamo dire (vuole dire) ch’è tutto “merito” di Ultra?Per sua conoscenza ( ammesso che lei non lo sappia,ma non ci credo…) quel trattato è tutt’ora valido,in quantochè,nessun governo di questa repubblica,povera repubblica italiana l’ha mai denunciato.E questo è tutto dire… In merito alla sua risposta di prima,menzionandomi gli ammiragli “galant’uomini” Brivonesi etc,ci aggiungerei anche l’ammiraglio Pavesi,che dai suoi sottoposti a Pantelleria fu denominato il Pavido…Infine,se ha tempo e volontà si legga ( o si rilegga ancora nel caso l’avesse già fatto) cio’ che disse il filosofo liberale e antifascista Benedetto Croce ( non è stato un mio parente)in un suo unico e serio discorso che tenne il 24 luglio (0 27 luglio) del 1947,davanti All’Assemblea Costituente,che doveva rettificare il dicktat parigino del 10 febbraio 1947. Se lo legga ( o rilegga). Ne vale proprio la pena. Anche nel caso dovesse darle fastidio,se lo legga ugualmente.A differenza di Lei che si è abbeverato da Santoni e gente varia,io certe informazioni le ho avuto da chi è stato sul campo e non da chi ha scritto libri di “storia” copiando dagli altri o facendo il passa parola,o peggio ancora la solita propaganda trita e ritrita impostaci dagli Alleati.Ho avuto la fortuna di incontrare un personaggio italiano ( che lavora nel nord Europa),il cui nonno fu un’abilissimo agente segreto italiano durante la II Guerra Mondiale e fu addestrato ( negli anni 20 e trenta) da un pezzo grosso dei nostri servizi.Era il Capitano di Vascello Marino Laureati,autore del colpo di Zurigo ,presso dell’Imperial Consolato Austro-Ungarico che grazie al quale ( a quel colpo) riusci’ a smascherare un gruppo non trascurabile di sabotatori e traditori italiani ( e non) al servizio dell’Austria,durante la Prima Guerra Mondiale http://www.lavocedelmarinaio.com/2014/02/21-2-1917-il-colpo-di-zurigo-la-marina-si-vendica/. Il signore in questione è compaesano di Maugerie conosceva benissima tutta la famiglia ( e non solo di Maugeri,Maugeri non era proprio un pesce grosso,non lo si dimentichi..) Infine, merito al dott.Piero Baroni,le consiglio di scrivere direttamente a lui:
    aporeo@hotmail.it e Le risponderà a suoi quesiti.Gli scriva pure ( se lo farà) a mio nome.
    Cordiali slauti.
    Ubaldo Croce

    Ubaldo croce

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