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La guerra dei Neoborbonici su Fenestrelle: è dibattito rovente

Il dibattito attorno a Fenestrelle e all’internamento nel forte piemontese dei soldati borbonici lealisti sta raggiungendo nei media il calor bianco. Lo dimostra, fra l’altro, il serratissimo scambio di commenti che i lettori di Storia in Rete di diversa opinione stanno facendo sul nostro sito dimostrando una vis polemica e una preparazione superiore alla media. Per questo Storia in Rete dedicherà a questo tema ampissimo spazio e la copertina del prossimo numero. Invitiamo tutti a contribuire al dibattito e ricordiamo che su quelle pagine del Risorgimento che ancora dividono, come il Brigantaggio e le stragi di Pontelandolfo e Casalduni, Storia in Rete ha dedicato numerosi articoli sul numero 76, disponibile come arretrato o in formato pdf.

C’è da restar basiti! Mentre si susseguono i bollettini «della guerra» economica in corso e mentre il Mezzogiorno più di altre aree soffre e stringe la cinghia, c’è chi propone di incrociare i «ferri», ideologici o storici, sostenendo le ragioni del Sud borbonico negletto e «criminalizzato» dalla saggistica odierna. E sì, il libro di Alessandro Barbero edito da Laterza, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, non è passato inosservato. Dopo gli attacchi violenti e anche volgari arrivati via web ad un’ora dalla comparsa del tomo sugli scaffali delle librerie («un cumulo di menzogne», «una mistificazione! E’ come far scrivere la storia di Auschwitz a Goebbels») e dopo il rinfocolarsi delle polemiche in seguito alla recensione di Corrado Stajano per il Corriere della Sera, il colpo di scena: sfidiamoci, dicono i neoborbonici a Barbero.

di Rosanna Lampugnani dal Corriere del Mezzogiorno del 18 ottobre 2012 

SI TORNA ALL’ATTACCO – E’ questa anche una replica all’editore Giuseppe Laterza, il quale – attraverso il nostro giornale – non solo ha raccontato la genesi del libro (ai margini delle celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia), ma ha anche chiosato gli attacchi allo storico piemontese definito un razzista, derubricandoli a forme di leghismo rovesciato. Non l’avesse mai fatto! Prese carta e penna (si fa per dire), i neoborbonici sono tornati all’attacco per sfidare a duello – verbale – Barbero e Laterza. E il guanto è stato raccolto: «Il professore è a Parigi per presentare il suo libro Lepanto. La battaglia dei tre imperi ma è pronto al confronto – afferma l’editore – e lo siamo anche noi. Potevamo lasciar perdere tutto e invece non vogliamo affatto sottovalutare chi è portatore di pregiudizi rovesciati, chi è alfiere di quella che può essere definita subcultura: preferiamo discutere apertamente e pubblicamente, coinvolgendo anche storici importanti, perché ci sembra utile. E un po’ anche divertente».

NEOBORBONICI E LEGHISTI – La sfida è stata lanciata con questo messaggio: «Il professor Barbero ha affermato di avere finalmente riportato la verità sui fatti di Fenestrelle e, nello stesso tempo, ha utilizzato una terminologia offensiva e del tutto inappropriata in un contesto da dibattito storiografico definendo i “neoborbonici” artefici di “strumentalizzazioni non si sa quanto in buona fede”, con “invenzioni a uso e consumo delle passioni e degli interessi del presente” mescolando citazioni dal “mare magnum” di internet, fonti archivistiche, passi della Civiltà Cattolica (la rivista dei Gesuiti prima artefice delle “menzogne”) e brani dei (documentati) testi di Del Boca, Izzo, Di Fiore o Aprile (“spudorate reinvenzioni”, “furibonde mistificazioni” con libri “incredibilmente pubblicati da case editrici nazionali” fino addirittura all’affermazione che chiude lo stesso libro con l’invito a non “stravolgere il proprio passato per fini immondi” a p. 316). E se per l’editore Laterza i commenti qui pubblicati rappresentano “la deriva neoborbonica, altra faccia della medaglia leghista” (ma nessuno ha mai visto un “neoborbonico” candidato da circa… 150 anni), questo “stile” di Barbero, a quale deriva si potrebbe collegare e quali reazioni poteva suscitare?».

DIBATTITO DECENNALE – Già, quali? Eccole: «Il Movimento neoborbonico ha inviato al professor Barbero una richiesta di sfida/dibattito (interventi alterni di 3 minuti con clessidra, possibilità di utilizzare “testimoni” e documentazione, luogo e ora da definire) dopo quanto sostenuto nel testo e nei suoi recenti interventi». Tutto questo perché la questione di Fenestrelle – per chi non lo conoscesse: è un piccolo Comune incassato tra i verdissimi monti piemontesi, lungo il fiume Chisone – e dei soldati borbonici che, sconfitti a Capua, furono portati nel forte dopo aver rifiutato l’arruolamento nelle vittoriose truppe savoiarde, è ancora «al centro delle decennali ricerche» dei neoborbonici, i quali custodiscono anche «documenti inediti e ignorati da Barbero».

VINCITORI E VINTI – Sarà, ma basta scorrere le due pagine dedicate alla bibliografia, dove vengono citati 27 testi, per capire che la tesi dello storico ha comunque solide basi, rafforzate anche dallo studio di documenti conservati a Fenestrelle, dove non morirono 8000 giovani, dove non furono sterminati 40mila ragazzi – come sostenuto durante una cerimonia ai piedi del forte – ma certamente si manifestò anche drammaticamente «l’alterigia dei vincitori… espressione spesso di culture allora assai lontane tra loro, aggravata anche dai giornali clericali che soffiavano sul fuoco», scrive Stajano. Insomma, sarà tenzone storica, mentre Beppe Grillo, in un certo senso nel solco dei neoborbonici, suggerisce alla Sicilia di staccarsi dalla Penisola, cioè dal resto dell’Italia.

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Inserito su www.storiainrete.com il 18 ottobre 2012

 

29 Commenti

  1. i calcoli di Felice sull’HDI sono confermati da molti altri studi. Secondo il prof. Felice, dal quadro d’insieme forniti da una serie di parametri , altezze, speranza di vita, istruzione e indice di sviluppo umano, raccolti su ampia scala statistica sia per i decenni anteriori all’Unità, sia per quelli posteriori, emerge il momento dell’unificazione quale fase di passaggio da un divario piuttosto netto fra le condizioni di vita del nord e del sud (con quest’ultimo più arretrato), verso una progressiva convergenza.
    Felice spiega questo miglioramento degli indicatori sociali del Meridione in termini di pura dipendenza da fattori endogeni, ovvero al miglioramento della condizione degli indicatori sociali nazionali ed internazionali, servendoi della categoria interpretativa della “modernizzazione passiva” proposta da Luciano Cafagna [Luciano Cafagna, «Modernizzazione attiva e modernizzazione passiva», Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali, vol. 2, n. 2, 1988, pp. 229-240]. L’Italia meridionale si sarebbe avvantaggiata dei miglioramenti del quadro generale, nazionale ed anche internazionale (per quel che riguarda, ad esempio, l’estensione dell’istruzione obbligatoria e di base, oppure la diffusione delle pratiche e delle infrastrutture igieniche e sanitarie).
    Ancora, lo studioso anglosassone B. A’Hearn conferma che da ben prima dell’Unità si desse un divario piuttosto netto nella qualità della vita ed anche nell’alimentazione fra Italia settentrionale e meridionale. Egli si basa in proposito su stime antropometriche, decisamente oggettive: B. A’Hearn, “Anthropometric Evidence on Living Standards in Northern Italy. 1730- 1860”, The Journal of Economic History, vol. 63, n. 3, 2003, pp. 351-381.
    Lo stesso dicasi per i calcoli sui tassi di durata di vita media e sulla mortalità. Le teorie del prof. Felice concordano con quanto scrive A. Tizzano, “Sviluppo della popolazione italiana dal 1861 al 1961. Mortalità generale”, Annali di Statistica, vol. 94, serie VIII, n. 17, 1965, pp. 441-465.Si devono poi ricordare alcuni provvedimenti e interventi di ambito nazionale che hanno inciso drasticamente, sulla riduzione delle cause di morte nelle regioni meridionali:
    1) gli interventi per la realizzazione di infrastrutture idriche e sanitarie, i quali nel corso del Novecento hanno permesso di debellare il tifo e il colera, endemici nel periodo borbonico (L Faccini, “Tifo, pensiero medico e infrastrutture igieniche nell’Italia liberale”, in F. Della Peruta (a cura di), “Storia d’Italia. Malattia e medicina”, Einaudi, Torino, 1984, pp. 707-737
    2) la vaccinazione obbligatoria contro il vaiolo, anch’essa assente nel periodo borbonico; (U. Tucci, “Il vaiolo, fra epidemia e prevenzione”, in F. Della Peruta (a cura di), “Storia d’Italia. Malattia e medicina”, Einaudi, Torino, 1984, pp. 389-424.
    3) la distribuzione gratuita del chinino, anch’essa assente nel periodo borbonico e che ha concesso di ridurre fortemente la percentuale dei morti fra i contagiati; P. Corti, “Malaria e società contadina nel Mezzogiorno”, in F. Della Peruta (a cura di), Storia d’Italia. Malattia e medicina, Einaudi, Torino, 1984, pp. 633-678.
    4) l’imponente piano di riduzione delle zone paludose, diretto anche a combattere l’incidenza della malaria. (Ibidem)
    5) la riduzione del divario preunitario nella dotazione ospedaliera, in termini di posti letto e di modernità degli ospedali (E. Felice, “Divari regionali e intervento pubblico. Per una rilettura dello sviluppo in Italia”, Bologna, 2007, p. 114).
    Come si vede, gli studi del prof. Felice non sono certo gli unici a sostenere l’esistenza d’una differenza negli indici di HDI o Benessere Sociale Netto fra nord e sud d’Italia prima dell’Unità. Prima dell’Unità esisteva infatti un divario consistenti degli “indici di sviluppo umano” fra nord e sud, a vantaggio del primo, mentre invece dopo si sono progressivamente ridotti (sempre per “l’indice di sviluppo umano”), grazie alla modernizzazione indotta dalle politiche dello stato unitario (“la modernizzazione passiva” di cui parlava già Luciano Cafagna oltre 20 anni fa).

  2. Le interpretazioni del divario economico fra nord e sud sono sempre state diversificate al loro interno e si possono distinguere almeno tre grandi correnti: 1) quella del meridionalismo classico (Nitti, Gramsci), suo modo ripreso eppure superato da Rosario Romeo. Esso riconosce che il divario preesisteva all’Unità, ma sostiene che si sia accentuato dopo di essa, o per le politiche governative sbagliate (quelle della Sinistra storica però, costituita in prevalenza da meridionali), o per la legge del “dualismo economico”, ovvero che le aree già più sviluppate sono riuscite ad attrarre in misura maggiore capitali, personale ecc. dal resto d’Italia 2) la tesi continuista, che vede nella diversità di condizioni fra parti d’Italia il frutto di una lunga differenziazione economica nella storia italiana, iniziata sin dal pieno Medioevo. Effettivamente, non vi sono praticamente dubbi che, a partire almeno dal secolo XII, alcune regioni conoscono una crescita economica intensissima, grazie ai Comuni, alla nascita di una borghesia diffusa, dei commerci, dell’artigianato ecc., mentre molte altre rimangono legate ad un’economica agricola e feudale. Gli storici del Medioevo abitualmente assegnano all’Italia centro-settentrionale il primato assoluto nell’Europa dei secoli XII-XV. I modernisti dal canto loro, pur ammettendo un declino economico di tutta Italia a partire dalla metà del Cinquecento, individuano proprio nel meridione la parte più svantaggiata. Questa tesi è praticamente fuori discussione, anche se essa si sofferma più sulle condizioni di lungo periodo, dell’era medievale e moderna, che non sul mondo contemporaneo.
    Il professor Emanuele Felice (Italy’s regional inequality over the long run (1891-2001): linking indirect estimates with official figures, and implications, p. 21) presenta in questo modo tale corrente: The first one, prevailing up to the 1990s, held that the at the time of Unification in 1861 the north-center regions, and in particular the north-western ones, were already more advanced: the argument is in line with the thesis proposed by Giustino Fortunato at the turn of the previous century, who emphasized the ‘natural poverty’ of the south, due to dry climate, to the shortness of natural resources
    and in particular of hydraulic power, to the low levels of (what today we would call) human and social capital, to the feudal heritage in the land system. By contrast, the north-west was a natural candidate for industrialization, because of a better geographical position, more favourable natural endowments and more advanced human and social capital endowments. Moreover, in the mid nineteenth century it was undisputedly better off in terms of transport infrastructure, in the credit sector, as well as in some crucial manufactures such as the silk industry.”
    Su questa linea si trova, fra gli altri, Luciano Cafagna;, Cafagna. L., ‘Intorno alle origini del dualismo economico in Italia’, in A. Caracciolo, ed., Problemi storici dell’industrializzazione e dello sviluppo (Urbino, 1965), pp. 103–150.Cafagna, L., Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia (Venice, 1989).
    Su una linea di più lunga durata, tale distinzione economica è stata rintracciata già nel Medioevo (David Abulafia, D., The two Italies. Economic relations between the Norman kingdom of Sicily and
    the northern comune, Cambridge, 1977) e persino con radici nell’evo antico (Il grande storico inglese Arnold Toynbee propose una simile interpretazione nel suo studio Hannibal’s Legacy: the Hannibalic War effects on Roman life, Oxford, 1965).
    3) infine, la terza scuola, più recente, si fonda sui criteri della “new economic history” anglosassone. Essa ammette una certa diversità fra nord e sud prima dell’Unità, a favore del settentrione, però sostiene che le diversità regionali fossero più importanti di quelle delle macroaree (nord, centro, sud). Per il resto, essa tale corrente individua nel periodo post.unitario una fase di rapida ed intensa crescita economica in tutta Italia, soltanto con ritmi differenti, con regioni che crescono di più ed altre di meno. Il più rapido sviluppo del nord nei cinquanta anni posteriori all’Unità è dovuto anzitutto alla maggiore vicinanza con l’Europa settentrionale (Francia, Germania ecc.), alla superiore disponibilità di energia derivante dall’acqua (fiumi, cascate ecc.), importante per le industria dell’epoca.
    Una presentazione, sempre da Felice (cit., p. 22), la riassume in questo modo: “The third and most recent approach looks more articulated. Stemming from the scholars grouped around the ‘Istituto meridionale di storia e scienze sociali’ (Imes), founded in 1986, and its review ‘Meridiana’, it argued, with the avail of some brilliant case studies,40 that in the second half of the nineteenth century it was misleading to consider southern Italy as an uniform and backward area. As a whole the south may have ranked a bit below the centre-north, but the divide was relatively small. Above all, generalizations are to be considered wrong”
    E’ giudizio pressoché unanime fra gli storici che le condizioni economiche del Mezzogiorno fossero in media meno buone di quelle dell’Italia del nord al momento dell’Unità e che tale forbice avesse radici plurisecolari. Neppure gli storici meridionalisti, a partire da Villari, Nitti e Gramsci, sostengono il contrario. Lo stesso Giustino Fortunato, forse il maggiore fra i meridionalisti, dopo un attento esame della condizione del meridione prima dell’Unità, concludeva che fosse peggiore del resto d’Italia, pur riconoscendogli alcuni (pochi) aspetti positivi.-

  3. 1) la stragrande maggioranza degli storici, italiani e stranieri, ritiene per fermo che un certo divario economico fra “nord” e “sud” d’Italia preesistesse all’Unità. Abitualmente si risale sino al secolo XII per individuarne l’origine. 2) il signor Mentone ha citato un recente studio della Banca d’Italia che, a suo dire, sosterrebbe il contrario. In realtà, esso conferma proprio tale divario economico. Suppongo che esso sia lo studio (recente) di due studiosi della Banca d’Italia, Fenoaltea e Ciccarelli, che viene spesso citato da neoborbonici. Il testo di Fenoaltea e Ciccarelli “Through the Magnifying Glass: Provincial Aspects of Industrial Growth in Post-Unification Italy”, Roma 2010 è uno dei numerosi studi accademici sull’argomento.
    Comunque, lo studio di questi due economisti non dice nulla di essenzialmente nuovo rispetto al nucleo basilare dei saggi di Rosario Romeo ed altri sul divario economico fra nord e sud d’Italia.
    Esso difatti conferma quanto già dato per accertato nella storiografia accademica.
    La differenza economica fra regioni del nord e del sud d’Italia preesisteva all’Unità stessa, facendo una media (certo variabile da regione a regione). Basti dire che nel 1871 (data da cui parte l’analisi di Fenoaltea-Ciccarelli), le azioni sul valore aggiunto (industriale), sono così distribuite (Through the Magnifying Glass: Provincial Aspects of Industrial Growth in Post-Unification Italy, pp. 41-49, in Appendix: The provincial production estimates). Riporto i dati stimati da Fenoltea-Ciccarelli per il 1871 regione per regione:
    Piemonte 202
    Liguria 90
    Lombardia 285
    Veneto 159
    Emilia 118
    Toscana 149
    Marche 46
    Umbria 27
    Lazio 57
    Campania 170
    Abruzzo 50
    Puglia 72
    Basilicata 21
    Sicilia 157
    Calabria 57
    Sardegna 45

    Questa è una sintesi:
    -Nord Italia (Piemonte-Liguria-Lombardia-Veneto-Emilia): 854
    -Centro Italia (Toscana-Marche-Umbria-Lazio): 279
    -Sud Italia: (Abruzzo-Campania-Basilicata-Puglia-Calabria-Sicilia-Sardegna): 572
    Si noti che le sole regioni del Nord, senza il Friuli (non calcolato), senza Trieste ed il Trentino (non ancora facenti parte del Regno d’Italia), avevano nel 1871 un valore aggiunto industriale annuo di 854 milioni di lire, contro gli 851 di tutto il resto d’Italia.

    Tale divario economico si è poi accentuato, ma non immediatamente dopo l’Unità, anzi ben oltre, a partire da 1876-1881. Scrivono infatti Fenoaltea-Ciccarelli:
    “At the provincial level, too, one sees substantial stability between 1871 and 1881: there is no evidence of significant change tied to Unification itself, to the extension of the low Piedmontese tariff to the once protected South, to the early construction of the peninsular trunk railways that supposedly allowed the industry of the North to capture and exploit the markets of the South Things change after 1881, with (temporally, and one presumes causally) the increase in the rate of industrial growth, the cyclical upswings of the 1880s and of the belle époque.” (cit., p. 9)

    I briganti erano di solito criminali comuni, che però potevano essere impiegati come mercenari da parte di latifondisti od anche poteri statali reazionari. Un caso tipico fu quello della Romagna, che sino alla prima metà dell’Ottocento ebbe un’alta presenza di briganti. Molti fra costoro erano puramente e semplicemente criminali, altri però avevano aderito ad una società segreta reazionaria, che prendeva diversi nomi: “Centurioni”, “Zelanti”. I suoi membri contavano una manovalanza criminale costituita da briganti, ma coloro che li guidavano erano invece di ben altra classe sociale ed assolutamente reazionari, servendosi del loro operato per aggredire e terrorizzare i liberali. La situazione s’aggravò a tal punto che infine sotto Pio IX si decise di ricorrere a misure drastiche, essendo la Romagna funestata da una guerra civile strisciante. (cfr. ad esempio G. Candeloro, “Storia dell’Italia moderna”, vol. II, “Dalla Restaurazione alla rivoluzione nazionale”, Milano 1960, pp. 63 sgg.; D. Tarantini, “La maniera forte”, Verona 1975, p. 23)
    Un comportamento simile fu tenuto anche nel regno borbonico. Per limitarsi alla distruzione della Repubblica Partenopea, molti fra i principali comandanti dell’armata borbonica erano capibanda che si erano dati alla macchia già durante il governo di Ferdinando I, il che testimonia che il loro operato non era certo mosso da lealtà dinastica. Uno di loro, lo Sciarpa, secondo il Cuoco aveva contrattato i suoi servigi presso i repubblicani, per poi aderire alla causa borbonica per puro interesse. Un alto ufficiale “legittimista”, il Tristany, assunto dal governo borbonico in esilio per condurre un tentativo di riconquista dell’Italia meridionale, si rese ben presto conto che la grande maggioranza dei briganti non avevano motivazioni politiche nel loro operare. Il Tristany riassunse questa situazione ricordando proprio il famigerato Mammone. Egli disse: “Anche ai tempi di Mammone i suoi gregari s’infischiavano della Monarchia e del Papato” (la citazione si ritrova in Jacopo Gelli, Banditi, briganti e brigantesse nell’Ottocento, Firenze 1931, p. 110.
    «In realtà “la difesa del trono e dell’altare”, la “guerra popolare”, sbandierate dalla propaganda legittimista e clericale, non poggiavano su una base molto più consistente dei raggiri e della demagogia […]. Le masse contadine si erano poste in movimento per cause economiche e sociali, permanenti e contingenti, che mostrano tutta la vacuità delle parole d’ordine reazionarie e spiegano come queste potessero, al massimo, attizzare furiose ed effimere esplosioni di collera e di malcontento, ma non erano certamente atte ad organizzare nel Mezzogiorno d’Italia qualcosa di simile alla Vandea controrivoluzionaria o alle guerra antinapoleoniche del popolo spagnolo. D’altronde, gli stessi pubblicisti borbonici e clericali si trovavano ben imbarazzati nello spiegare la totale assenza di capi legittimisti “napoletani” alla teste delle bande, oppure la riluttanza e l’ostilità di un Crocco o di un Chiavone nell’accettare la guida e i consigli di Borjes o di Tristany, sebbene costoro fossero stati officiati dalla corte in esilio a Roma come condottieri dalla guerriglia anti-unitaria. I capi delle bande brigantesche si avvalevano largamente della “legalità” impersonata da Francesco II, per emanare proclami e ordini, e per imporre balzelli, taglie e leve con sufficiente autorità. Ma tutto ciò, osservava il sotto-prefetto di Ariano Irpino, Lucio Fiorentino, in una acuta relazione del novembre 1862, concorreva ad alimentare il brigantaggio “solo per metà, e più esattamente per pretesto.” Cipriano La Gala replicò un giorno ironicamente ad un avvocato da lui catturato, il quale tentava di dimostrare la propria simpatia per i Borboni: “Tu hai studiato, sei avvocato, e credi che noi fatichiamo per Francesco II”?» Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano 1964, pp. 156-157
    I briganti propriamente “politici” furono in realtà ben pochi e risultarono essere per lo più murattiani o repubblicani. La Lucania fu infatti l’epicentro del brigantaggio politico, che ebbe in regione connotati anzitutto murattiani e non borbonici. L’altra zona con maggiore densità di briganti “politici” fu quella vicino alla frontiera del Lazio meridionale, perché poteva avvalersi dell’appoggio e della complicità del papa.
    E’ da notare comunque che molto spesso i briganti “politici” altro non erano che criminali comuni sostenuti con armi, viveri, denaro ecc. da interessati burattinai, ciò che può essere esemplificato da un evento abitualmente dimenticato ma di grande significatività. E’ noto che Pio IX, acerrimo nemico dell’Unità d’Italia e dello stato laico, finanziò ed armò i briganti e consentì loro di rifugiarsi nel Lazio, ancora in suo possesso, facendone propria base operativa. Eppure, dopo alcuni anni di tale politica, il pontefice, malgrado fosse estremamente ostile allo stato italiano e ne desiderasse in ogni modo la scomparsa, non solo cessò d’appoggiare i briganti, ma addirittura sottoscrisse con il governo italiano il cosiddetto “accordo di Cassino”, che consentiva alle unità regolari del Regio Esercito di passare il confine per inseguire e distruggere i briganti, in pieno territorio pontificio. La decisione del papa può stupire, perché egli rimase per tutta la vita del tutto contrario ad ogni cedimento della sovranità dello stato pontificio, che secondo lui aveva origine divina. La causa di una simile decisione papale era dovuta alla gravità delle devastazioni che i briganti avevano inflitto al territorio del Lazio meridionale, nonostante questi ultimi si trovassero su di uno stato loro amico e benefattore.
    Un mutamento analogo avvenne anche nel Mezzogiorno, con il progressivo distacco dei “manutengoli”, che erano i finanziatori e burattinai dei briganti, dai banditi veri e propri. Questi ultimi si erano rivelati incontrollabili e dediti spesso alle violenze contro gli stessi ceti che li sostenevano, ossia essenzialmente parte del clero e dell’aristocrazia meridionali, cosicché costoro li abbandonarono.
    D’altra parte, in intere regioni il brigantaggio politico fu sempre praticamente assente. Ad esempio, in Calabria esistevano moltissime bande, tutte quante molto piccole e del tutto prive di connotazioni politiche, i cui capi briganti erano di solito già alla macchia nel periodo borbonico. L’epicentro del brigantaggio fu la Lucania, dove esistevano molti comitati segreti di “manutengoli”. Essi però erano costituiti in prevalenza da “murattiani”, gruppo ideologico che nel meridione conservava ancora dopo il 1860 una certa consistenza.
    Il più importante e famoso dei capi brigante, Carmine Crocco, ebbe un itinerario a suo modo esemplare. Colpevole di reati comuni ed assieme smanioso di vendicarsi d’angherie subite da persone di ceto superiore al suo, Crocco divenne brigante sotto il regno borbonico. All’arrivo di Garibaldi, egli prese parte ad un’insurrezione antiborbonica a Potenza e s’arruolò nell’esercito garibaldino. Egli sperava nella cancellazione della propria fedina penale. Tuttavia, scoperto il suo passato di bandito, fu cacciato dall’esercito. Egli allora riprese a fare il brigante, per conto proprio, per poi venire contattato da emissari francesi, che gli fornirono armi e denaro in quantità: l’intento di Napoleone III era proprio quello di portare un Murat, e non un Borbone, sul regno di Napoli. Crocco si diede quindi al brigantaggio, in teoria per conto del re borbonico in esilio (tanto da usare anche la vecchia bandiera borbonica, atta a conseguirgli le simpatie del clero, ostile allo stato laico unitario), di fatto finanziato ed armato dall’imperatore francese.
    Quando infine fu catturato ed imprigionato, egli ebbe modo di dichiarare nelle sue memorie (aveva appreso a leggere e scrivere in carcere) che non aveva combattuto per il re borbonico, perché non voleva cambiare un padrone per un altro, quanto per una (confusamente teorizzata) sorta di repubblica contadina dai tratti anarchici.
    Insomma, Crocco iniziò a fare il brigante per ragioni personali sotto la monarchia borbonica, divenne garibaldino, dovette ritornare alla macchia perché fu scoperto il suo passato di criminale (non per motivi ideali), innalzò la bandiera borbonica ma di fatto era finanziato ed armato dalla Francia, infine dichiarò di essere più o meno repubblicano.
    La maggior parte dei capi briganti erano alla macchia già nel periodo borbonico, cosicché il fenomeno non si può interpretare come “resistenza” allo stato unitario, in quanto preesisteva ad esso. Era anzi plurisecolare ed espressione del malcontento contadino verso l’apparato statale e la classe dirigente latifondista, fosse essa rappresentata dagli Angioni, dagli Asburgo di Spagna, dai Borboni o dai Savoia.
    l regno borbonico era quello che aveva di gran lunga la maggior diffusione di criminalità (cfr. ad esempio Romano Canosa, “Storia della criminalità in Italia. 1845-1945”, a causa dell’arcaica struttura sociale di tipo feudale e dell’alleanza vigente fra potere regio ed i vari gruppi criminali dei lazzaroni, dei briganti e delle mafie.
    Il brigantaggio era infatti presente da molti secoli e con grande intensità nel Meridione d’Italia ed era uno dei maggiori ostacoli ad un suo sviluppo. Fra gli altri, il grande storico Fernand Braudel nel suo capolavoro “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” (cfr. volume II, capitolo V, paragrafo III. MISERIA E BANDITISMO), presenta proprio l’Italia meridionale come uno degli esempi di territorio infestato dal fenomeno brigantesco, che egli, intelligentemente, riconosce come un fenomeno assieme anarcoide (jacquerie contadina indotta dalle misere condizioni di vita), criminale eppure sfruttato dai latifondisti per i propri interessi di fazione. Cito un brano fra i molti del Braudel: “Nelle grandi patrie del banditismo, il compito [di repressione] deve essere sempre ripreso. Nel 1578 il marchese di Mondéjar, viceré di Napoli, decideva un nuovo tentativo contro i fuoriusciti di Calabria. Sin dall’arrivo nel regno era stato informato dei loro crimini: terre predate, strade interrotte, viaggiatori assassinati, chiese profanate, incendi, persone rapite e ricattate. I provvedimenti del cardinal Granvelle erano stati inefficaci, e anzi, scriveva il vicerè, “il numero di fuoriusciti è aumentato, moltiplicati i loro delitti, cresciuto talmente il loro potere e l’insolenza che in mille parti del regno non si può viaggiare senza gravi rischi e pericoli” (ibidem, p. 789). ancora dal Braudel: “In Calabria […] i fuorilegge pullulano, favoriti dalla circostanze e dalla natura del terreno […] Le azioni repressive esasperarono l’attività dei banditi: forzavano castelli, entravano in pieno giorno nelle grandi città, osando “Uccidere i loro nemici persino nelle chiese, facendo prigionieri, su cui mettevano taglie”. Le atrocità spandevano il terrore: “Essi devastavano le terre, massacravano le greggi di coloro che resistevano o che li perseguitvano per ordine e incarico dei governatori, non osando questi farlo essi stessi” (Ibidem, p. 790). Ancora dal Braudel: “Nel 1580 un agente veneziano segnalava che tutto il regno era infestato dai banditi, che i briganti da strada erano i padroni nelle Puglie e soprattutto in Calabria. […] Una ventina d’anni dopo la situazione era ancora peggiore. I briganti spingevano le loro incursioni sino al porto di Napoli: le autorità arrivavano a preferire l’accordo o l’astuzia alla lotta. La grossa banda di Angelo Ferro, che terrorizzava la Terra di lavoro” (Ibidem. p. 791
    Il brigantaggio meridionale era una sorta di idra: aveva un medesimo corpo, ma molte teste. La sua base costitutiva era il “cafone” ovvero il contadino povero, che rappresentava però, di solito, la semplice manovalanza della violenza. Chi guidava e controllava i briganti, per propri fini, erano altri: i notabili locali; le mafie; gruppi di potere politico.
    Già in epoca borbonica la politica locale si sviluppò con il ricorso a relazioni verticali di patronato e clientela. Le fazioni si formavano per il controllo dell’apparato amministrativo ed i sostenitori del gruppo dominante venivano ricompensati col impieghi e contratti. G. Fiume, nel suo studio sul comune siciliano di Marineo, ricorda che l’oggetto della lotta tra le fazioni era “il monopolio delle cariche comunali, gestite per accumulare, consolidare patrimoni familiari con il saccheggio dei beni pubblici” [G. Fiume, “Introduzione” in G. Cirillo Rampolla, “Suicidio per mafia”, Palermo 1986, p. 17]. Il ricorso alla violenza in epoca borbonica era praticato regolarmente dai notabilati e dalle èlites locali per assicurarsi dai contadini il pagamento dei canoni e dei debiti, oppure per competere nel controllo delle amministrazioni locali. [A. Massafra (a cura di), “Il mezzogiorno preunitario: economia, società, istituzioni, Bari 1988, p. 915”] Lucy Riall in “La Sicilia e l’unificazione italiana. Politica liberale e potere locale (1815-1866)” (ed. or. Oxford 1998, trad. it. Torino 2004), dopo aver confrontato diverse ipotesi interpretative sul brigantaggio, conclude che “il banditismo in Sicilia, e in molte altre parti del Meridione”, sarebbe stato “una forma di mobilità sociale ascendente” (cit., p. 65). Esso era uno strumento delle lotte di potere fra i “galantuomini” locali.
    Alcuni storici parlano d’un rapporto assai stretto fra organizzazioni mafiose e briganti. Ad esempio, Vincenzo D’Alessandro in “Brigantaggio e mafia in Sicilia” [Messina 1950, p. 155), sostiene che la mafia ottocentesca fu originata anche dalla trasformazione di bande armate al servizio dei “notabili” nelle zone rurali dell’entroterra in un fenomeno urbano radicato nelle città costiere, dove strinse rapporti con il potere politico. La ‘ndrangheta da parte sua ha rivendicato presso i suoi aderenti una filiazione dal brigantaggio. Il saggio “‘Nndrangheta dal’Unità ad oggi”, di Enzo Ciconte, a cura di Nicola Tranfaglia, documenta come questa organizzazione mafiosa abbia sempre rivendicato il proprio sostegno al brigantaggio e che ancora oggi cerca di proporsi quale rappresentante d’una supposta “vera Calabria” contro uno stato presunto “oppressore”.
    Le stesse carte giudiziarie dello stato unitario presentano per molto tempo una relativa in distinzione fra i termini di “brigante”, “camorrista”, “mafioso”, ed altri affini come “manutengolo” (fiancheggiatore dei banditi o dei mafiosi), “facinoroso”, “malvivente”. [V. Pizzini, “La storia della mafia fra realtà e congetture”, in “Studi storici”, XXXV, 1994, n. 2, p. 436] D’altronde, la medesima legge Pica, definita abitualmente quale emanata contro il brigantaggio in senso stretto, in realtà era rivolta a reprimere ogni forma illegale d’associazione armata, mafie incluse.
    Lo stato borbonico ereditava dal dominio spagnolo una struttura di stato molto debole, in cui un gran numero di funzioni erano svolte da privati od organizzazioni di privati. Il feudalesimo meridionale e le mafie ricoprivano molti di questi spazi ed ambedue, ambiguamente intrecciati fra loro, si servivano della violenza come strumento d’affermazione del proprio potere sia verso i concorrenti, sia nei confronti dei sottoposti. I “campieri” in servizio ai latifondisti meridionali erano piccoli reparti militari privati, che spesso compivano violenze ai danni dei contadini. I briganti, quasi tutti “cafoni” d’origine, era assieme gruppi criminali e forme di ribellione sociale (sullo stile, per dare un’idea, di un Pancho Villa). Però, non sfuggivano spesso ad alleanze ambigue con latifondisti e mafiosi, che si servivano di loro per propri obiettivi (controllo del territorio), ripagandoli con forniture di armi, denaro, protezione ecc.
    Gli osservatori, sia stranieri, sia locali, della realtà del mezzogiorno borbonico rilevavano tutti una frequente violenza (Goethe e Stendhal, fra gli altri) e l’assenza sostanziale dello stato in intere regioni. Ad esempio, la Sicilia nel periodo 1815-1860 aveva una presenza di militari e polizia limitata in pratica alle città della costa e neppure tutte. Lo sterminato entroterra era quasi lasciato a sé stesso, o meglio amministrato per il tramite dei feudatari locali. Le mafie e le squadre di “campieri” e “gabellotti”, rispettivamente alleate e controllate dai latifondisti, facevano in pratica da strumento di controllo del territorio.
    I governi unitari vollero invece mettere termine a questa situazione e cercare d’imporre un’autorità dello stato sul territorio, a cominciare dal monopolio della forza fisica legittima, quindi con la scomparsa dei gruppi armati largamente tollerati in epoca borbonica. Quando si parla di “brigantaggio” negli anni immediatamente posteriori all’Unità credo sia indispensabile tener presente che esso si scomponeva di fatto in molte e varie anime: briganti veri e propri; sgherri dei latifondisti; mafiosi; rivoluzionari anarchici e socialisti; mercenari stranieri pagati da Pio IX e dalla Francia. Costoro furono, a seconda delle circostanze, variamente appoggiati, finanziati ed armati dalla chiesa cattolica (che voleva conservare i propri estesissimi possedimenti terrieri; il 10% delle terre del regno delle Due Sicilie erano in mano ecclesiastica) e da Napoleone III (bramoso di mettere un Murat sul trono di Napoli).

    Non starò poi ad indicare tutti i “primati” che in realtà tali non solo. Ad esempio, la cattedra di astronomia Giuseppe Cassella presentata da alcuni come “primato mondiale” borbonico. Basta leggere la biografia del grande Cassini per rendersi conto che a bologna esisteva già una cattedra di astronomia nel 1650 almeno. Ma poi è più incredibile per il fatto che a napoi una cattedra di astronomia esisteva già prima del 1786, infatti nel 1735 viene istituita da carlo di borbone la cattedra di astronomia e nautica assegnata a pietro di martino ( 1707-1746 ). Giuseppe Cassella invece fu fondamentale per l’astronomia del meridione d’italia perché fu il fondatore dell’osservatorio di palermo nel 1790! cattedre d’astronomia esistevano già nelle università del Medioevo. Devo controllare dall’opera di Jacques Le Goff “Intellettuali nel Medioevo”, ma non ho praticamente dubbi al riguardo. L’elenco dei presunti “primati” che tali non erano sarebbe molto lungo e ne ho solo citato uno come pars pro toto.

    In quanto all’emigrazione, essa coinvolse tutta Italia, anzi tutta Europa, negli stessi anni e comprese molte decine di milioni di persone. Essa fu dovuta ad una rapidissima crescita demografica che comprese tutta Europa. E’ stata fortissima, ad esempio, l’emigrazione dalla Germania, dalla Scandinavia, dall’Inghilterra. Per restare all’Italia, per tutto il periodo 1861-1914 l’emigrazione ha interessato più le regioni settentrionali che non quelle meridionali, proprio a causa della densità demografica.
    Si noti comunque che nel Settecento interi paesi si era spostati dall’Italia meridionale al vicino stato pontificio,malgrado anch’esso fosse molto povero in confronto alle principali economie europee, tanto che le autorità borboniche imposero divieti all’emigrazione.

  4. Marco, e ti ripeti sempre, e dici sempre le stesse cose, alcune le hai già ripetuto almeno 4 volte ed eviti poi, le domande dirette che ti si fanno. Rispondi, qualche volta a qualche domanda. Ma chi ti paga per essere cosi “astioso ed acido” verso il Regno delle Due Sicilie E verso I Borboni? Tu,”novello denigratore” ,scrivi,scrivi, scrivi ed ancora scrivi (“stronzate”). Perchè con l’analisi economica sei partito dal 1871 (” Basti dire che nel 1871-data da cui parte l’analisi di Fenoaltea-Ciccarelli…”)cioè 10 anni dopo che erano state “rapinate” tutte le risorse del Regno e non parti dall’analsisi fatta da F.S. NITTI, La scienza delle finanze,1903. Presidente del Consiglio del Regno D’Italia nel 1919 (Quindi sicuramente non Borbonico).Egli accusò, in primis, i governi dell’Italia unita di aver sfruttato le risorse meridionali per soddisfare gli interessi settentrionali.
    Solo a chiacchiere parli (e ti ripeti sempre)di “repres- sione continua e feroce e che la dinastia borbonica ha lasciato il meridione d’Italia in condizione davvero infelici….”
    E quei 137 anni in cui “i debosciati” Borbone,di cui ti ho scritto in precedenza, hanno raggiunto tanti primati che fine hanno fatto? Non hai risposto. Ma già tu(come lord Gladstone )devi solo denigrare.
    E sul “Brigantaggio”,non i briganti(c’è grossa differenza tra essi) mica hai risposto te ne vieni con la tua tiritera “..Il brigantaggio era infatti presente da molti secoli e con grande intensità nel Meridione d’Italia..”.
    Guarda caso, nel Meridione d’italia, quando tutta la Penisola ne era invasa e i più feroci briganti (e non “Briganti”)agivano proprio nel Piemonte (toh! guarda chi si rivede!). Sei di una “faziosità” incredibile (e prolisso). Cerca di smetterla di tediare i lettori. Non è nemmeno giusto. Che vuoi dimostrare che conosci la storia?
    E va bene, conosci la storia (faziosa).
    Nupo da Napoli

  5. nupo che dice fazioso agli altri è come il bue che dice cornuto all’asino.Ma a voi chi vi paga per dire queste cazzate mostruose sul regno dei primati(tutti a Napule e nel Settecento).Magari il regno delle scimmie e di Cita.Mentre sutta a Salerno c’erano i pecuri e i pecurari e briganti assassini che impedivano ogni sviluppo, lo dicono tutti i viaggiatori stranieri, non i lecchinacci pagati dai tuoi amici? Allora Potevano scrivere allora solo gli scagnozzi al soldo di Re barbone u lordone u capiscsti chissu tu che hai la faccia tosta di parlare di lecchini e leggi solo minchiate di minus habentes? Quanto siete presuntuosi voi grandi sudisti del cetriolo,che ti credi che basta leggere quello straccione di Aprile e i dementi corrotti pagati e sistemati dalle regioni e dalle province e dai comuni ,mentre il meglio del Sud resta disoccupato o deve emigrare, come all’epoca dei Barboni,perchè voi servi
    dei politicanti meridionali ,come i Barboni erano i servi degli austroungarici, avete rubato e fottuto tutto. Mo vai a leggere l opere di scienza do u Professore, visto che non sai e non saprai una mazza di storia.Professore di pastorizia?Siete la vergogna del Sud.Almeno i vostri padroni di oggi vi hanno sistemato bene?

    • ernesto, sono stato tre giorni lontano da internet e trovo interventi simili. Cercate di moderarvi da soli e non mi fate intervenire a me, che se c’è una cosa che detesto è censurare gli interventi altrui. Tenetevi SOTTO le righe.

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