Home Stampa italiana 1 Strozzino e violento estremista. Crolla il mito di Matteotti

Strozzino e violento estremista. Crolla il mito di Matteotti

Non si tratta di fare del revisionismo, piuttosto di andare oltre l’agiografia, tentando di superare il mito a favore di una maggiore conoscenza della nostra storia. Una missione non facile quando si prende in esame Giacomo Matteotti, come ha fatto il professore dell’Università di Padova Gianpaolo Romanato nella bella biografia Un italiano diverso (Longanesi) che ieri Giuseppe Parlato ha recensito su queste pagine.

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di Francesco Borgonovo da “Libero” del 30 luglio 2011

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Del leader socialista assassinato dai fascisti ci resta oggi un santino, una descrizione eroica che in parte è certamente vera, ma incompleta. Meno noti al grande pubblico sono i lati più problematici del personaggio, due in particolare: le accuse di strozzinaggio rivolte alla famiglia Matteotti (di cui abbiamo già parlato) e il rapporto del deputato socialista con le violenze del cosiddetto biennio rosso. Lo studioso parla di «un clima di violenza e di guerra civile che, a opera dei socialisti e soprattutto delle leghe, imbarbarì la provincia».
Matteotti proveniva dal Polesine, e trattò in due discorsi parlamentari la drammatica questione del suo territorio. Il suo atteggiamento, tuttavia, fu ambivalente. Da un lato, alla Camera, il tono dei suoi discorsi era più conciliante, a casa propria invece si poneva diversamente.
In quelle zone l’egemonia socialista era fortissima, e Matteotti mostrava una «singolare dicotomia», come l’ha chiamata sull’Osservatore Romano un altro studioso di vaglia, Roberto Pertici: «A Rovigo, rivoluzionario e ossequiente all’estremismo oppressivo delle leghe del primo dopoguerra; alla Camera legalitario ed esperto di questioni tecniche e giuridiche».
Meriti e peccati
Pertici è un moderato, parlando con «Libero» riconosce i meriti di Matteotti e prende in tutti i modi le distanze dal sensazionalismo. Ma nel suo articolo per l’Osservatore spiega che Giacomo «diede copertura politica (volente o nolente) al clima di violenza e di guerra civile. Quel clima di violenza e di dura sopraffazione Matteotti non lo crea, ma lo protegge e non lo frena», ci dice il professore, «non si opponeva per non perdere il rapporto con il suo elettorato polesano». Del resto questa era la linea del suo schieramento.
«Il partito socialista», prosegue Pertici, «era inebriato dalla prospettiva della rivoluzione russa, le direttive erano quelle di alimentare il clima rivoluzionario. Nella provincia italiana, specie nelle campagne, si creò dunque una situazione di violenza diffusa e pressione sociale fortissima. Ci furono i morti, certo, ma ci fu anche una violenza diciamo ambientale: i reduci della guerra venivano derisi, i mutilati erano presi in giro, si impediva ai Comuni di esporre la bandiera. Il presidente del Consiglio Nitti, nel ’19, non fece festeggiare l’anniversario della fine del conflitto per non indispettire i socialisti, mentre tutti i Paesi europei lo celebravano».
Fu in questo quadro che si sviluppò la reazione dei fasci, inizialmente appoggiata anche dai popolari e dai moderati, che la intendevano come un freno al caos socialista. Poi, ovvio, il fascismo prese un’altra strada. Rispetto alle violenze rosse, nel libro di Romanato si legge un ruvido articolo comparso sul giornale dei popolari del Polesine che condanna duramente gli esponenti del partito di Matteotti: «Ci sono poche cose che corrompono tanto un popolo come l’abitudine dell’odio; e voi, capi del socialismo polesano, questo sentimento l’avete fomentato in tutte le guise».
Anche Romanato è estremamente cauto nei giudizi, e il suo libro è tutt’altro che denigratorio nei confronti del deputato socialista, cosa che lo rende ancora più importante e apprezzabile. A proposito delle coperture alla violenza politica, preferisce dire che Matteotti «fu condizionato da avvenimenti che non sempre seppe o poté governare. Il Polesine era una provincia poverissima e marginale», dice a Libero, «dove la lotta politica aveva poche mediazioni e facilmente degenerava nella rissa. Inoltre il socialismo locale fu sempre egemonizzato da spinte massimaliste, cioè rivoluzionarie. I due maggiori leader, prima Nicola Badaloni e poi Matteotti, operarono per moderare tali spinte e incanalarle in un’azione politica organizzata e più disciplinata. Ma dopo la guerra, quando il conflitto si accese, Matteotti ebbe sempre meno spazio per le mediazioni, non avendo neppure più la sponda di Badaloni. È questa la fase, siamo nel cosiddetto “biennio rosso”, in cui Matteotti apparve in Polesine più un piromane che un pompiere. Altra era invece la linea che teneva a Roma, dove il confronto era dialettico e non “pugilistico”. Questa duplicità gli fu rimproverata da tutti i suoi avversari, liberali, cattolici e fascisti».
Lo studioso racconta che nelle terre di Matteotti regnava una «violenza insostenibile», la quale contribuì certo a suscitare una reazione “nera”. «Il clima in Polesine, come anche nelle contigue province di Ferrara, Bologna e Mantova, era pesantissimo, di strisciante guerra civile», dice. «La documentazione che ho portato nel libro conferma l’esistenza di una situazione di violenza insostenibile, sia pure motivata da sacrosante richieste di giustizia sociale. Solo in Polesine ci furono una ventina di morti in poco più di due anni. È questo l’inferno da cui sorse lo squadrismo fascista, che, di suo, aggiunse all’esercizio della violenza una metodo, una disciplina e un’organizzazione che i socialisti non avevano».
Antiborghese
Il problema, come nota Roberto Pertici, è il tipo di riformismo che il partito di Matteotti propugnava. L’orizzonte era sempre quello della rivoluzione socialista, anche se con la convinzione che per realizzarla fosse necessaria una certa gradualità. I dirigenti dello schieramento rosso non si riconoscevano nelle istituzioni dello Stato democratico e borghese, anzi si consideravano estranei ad esse, le combattevano, per un certo periodo anche a costo di fomentare la violenza nelle province. Solo in seguito cambiarono rotta, ma ormai era troppo tardi, l’avvento del fascismo si faceva inarrestabile.
Giacomo Matteotti, prima di morire – come ha scritto ieri Giuseppe Parlato – aveva accentuato le sue posizioni anticomuniste, poi fu ammazzato come tutti sanno. Tentò di combattere la dittatura incipiente, come chiunque gli riconosce. Proprio per questo bisogna raccontare anche come agì in precedenza.

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inserito su www.storiainrete.com il 30 luglio 2011

5 Commenti

  1. Il delitto Matteotti fu un omicidio PRETERINTENZIONALE come fu stabilito dalla Corte d’Assise di Chieti che nel 1926 condannò gli autori tra cui Amerigo Dumini riportò una condanna a cinque anni undici mesi e dieci giorni di reclusione.
    Notizie dettagliate sono contenute nel libro scritto dallo stesso Dumini dal titolo DICIASSETTE COLPI. Un libro che chi si interessa della questione non può non aver letto
    Massimo Filippini

  2. Contrariamente a quanto sostenuto dal Sig. Massimo FILIPPINI, ritengo –invece- che il delitto MATTEOTTI sia stato premeditato, ma non già dal fascismo o dal suo capo, bensì da altri che misero questo cadavere eccellente sulla strada di MUSSOLINI per farlo cadere, non riuscendoci solo per le insistenze di FARINACCI, ROSSI e di altri fascisti che gli consigliarono di puntare i piedi, con il famoso discorso del 03 gen. 1924.
    Non si deve dimenticare che il DUMINI nacque negli USA e quindi non si può escludere un eventuale filo rosso, proveniente da quella nazione.
    Il Duce stesso, confesserà durante i giorni di SALŌ che quel cadavere era stato usato per questo, che lui non dette mai quest’ordine, anche per non creare eroi in campo avverso.
    La storia del fascismo e del suo capo è tutta da riscrivere, poiché non coincide affatto con la vulgata, la quale è sempre sinonimo di falsità, semplicemente perché la storia la scrivono i vincitori.

  3. Io non ‘sostengo’ niente di fantasioso ma scrivo sulla base di un libro che dovrebbe essere letto per poter parlare con cognizione di causa del delitto Matteotti. Alla dietrologia basata sui sospetti e sulle illazioni preferisco come al solito i DOCUMENTI. E il libro di Amerigo Dumini, unitamente ad altre risultanze -come quelle processuali – conferma che l’affaire Matteotti,fu ideato e organizzato da Marinelli per far luce -attraverso l’interrogatorio di Matteotti catturato dai fascisti- sugli assassini di fascisti italiani in Francia avvenuti ad opera di socialisti italiani fuorusciti. Andò a finire male perchè tra organizzatore ed esecutori erano uno più incapace e imbecille dell’altro e resero un pessimo servizio all’ignaro Mussolini. Ripeto: leggete il libro edito da longanesi nel 1967. MF

  4. mi saprebbe dire il Dott. Prof. etc che scrive su Libero che fine hanno fatto le borse che aveva Matteotti quando fu rapito il 10 Giugno del 1926? Forse contenevano, come sostiene Arrigo Petacco, le prove della corruzione del savoia per non sfruttare il petrolio trovato in Libia dall’AGIP? Il baionetta che prende i soldi dalle sette sorelle e i nostri a morire in suo nome per portare benzina alle nostre truppe in Africa! Ce l’avevamo a 350 metri sotto i nostri piedi ed il nostro re lo sapeva!! D’altronde aveva investito 21 milioni di dollari del 1939 (!) nella Banca d’Inghilterra per finanziare la guerra contro l’Italia!
    Il fascismo gli levo’ di mezzo Matteotti e le sue borse (Sempre borse scomparse nella Storia d’Italia! Moro, Calvi, etc).Da quel momento baionetta fu nelle mani di Mussolini. Grazie al gran maestro della loggia massonica di Sarzana: Amerigo Dumini

  5. Sig. Catone dal libro di Dumini che ho letto mi sembra che costui fosse un povero disgraziato e non certo un Gran maestro della loggia sarzanese.
    Ci può illuminare sul tema ancor più di quanto ha già fatto ? Grazie.
    PS Ma re Vittorio oltre che ‘pippetto’ non si chiamava sciaboletta’ ? ‘Baionetta’ mi è nuovo eppure all’epoca sia pure da regazzino c’ero e non l’ho mai sentito chiamare così.

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