Home Risorgimento Ripensare il Risorgimento. Senza retorica, senza nostalgie

Ripensare il Risorgimento. Senza retorica, senza nostalgie

Il libro di Vito Tanzi, “Italica. Costi e conseguenze dell’unificazione d’Italia”, Grantorinolibri (2012) oltre ai temi economici e finanziari della conquista del Regno delle Due Sicilie, racconta anche come è stata conquistato e poi annesso. Con la caduta del Muro e delle ideologie, c’è stata una ventata di sano revisionismo che ha toccato anche gli anni e il periodo dell’unificazione del nostro Paese. Così a partire dagli anni 90 sono stati pubblicati ottimi e ben documentati testi che finalmente hanno scritto la verità su come è stata fatta l’unificazione del Paese. Poi è arrivato il 150° anniversario dell’unità d’Italia, ci si aspettava che finalmente non si raccantasse più la solita vulgata risorgimentista, invece la cultura e la storiografia ufficiale, ha continuato a narrare edulcurando i fatti e i personaggi del cosiddetto Risorgimento.
di Domenico Bonvegna da del 12 marzo 2016
Ci ha pensato Alleanza Cattolica, organizzando una serie di convegni in Italia, dal titolo significativo: “Unità si, Risorgimento no”, per raccontare la Verità, senza inseguire sterili nostalgie di epoche passate. Da questi incontri poi è scaturito e pubblicato un volume:“1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità?”. E’ utile ribadire che nessuno vuole incensare il passato borbonico e tantomeno restaurarlo. Come ogni epoca storica, va criticata calandosi in quella realtà, ormai i documenti e le numerose fonti hanno evidenziato lo stato di salute di cui godeva il Regno borbonico nel 1860, ma non tutto era rose e fiori, certamente c’erano anche tante cose che non funzionavano, soprattutto al tempo del giovane Francesco II. Del resto come si fa a conquistare in poco tempo un Regno senza quasi mai combattere, tranne l’ultimo sussulto di Gaeta? I tradimenti dei generali borbonici che si sono venduti a Vittorio Emanuele, la corruzione della burocrazia e della nobiltà, i vari galantuomini latifondisti soprattutto in Sicilia, tutti tramavano e hanno contribuito a mandare via il giovane re napoletano.
Alcuni libri che hanno smascherata la vulgata risorgimentale.
A questo punto è opportuno fare qualche nome degli storici, scrittori, giornalisti, che hanno avuto il merito di rompere quel muro ideologico, di omertà e di silenzio sulla conquista del Sud. Uno dei primi è stato negli anni 70, Carlo Alianello, con il suo “La Conquista del Sud”, io possiedo l’edizione del 1970, pubblicata dal coraggioso editore Rusconi. Poi ci sono stati altri libri, alcuni di questi dopo averli letti, li ho presentatati nelle mie collaborazioni.
Tra questi, l’ottimo testo di Patrick Keyes O’ Clery, La Rivoluzione Italiana”, ristampato nel 2000, dalla battagliera Edizioni Ares. Forse è il testo più completo che conosco sul tema. Angela Pellicciari, con“Risorgimento da riscrivere”. Lorenzo Del Boca, con i suoi “Maledetti Savoia”, e “Indietro Savoia”; Fulvio Izzo,“I Lager dei Savoia”; Giordano Bruno Guerri, con “Il sangue del Sud”; Arrigo Petacco, “La Regina del sud”, e poi Silvio Vitale, con la sua mitica rivista de “l’Alfiere” di Napoli, il prof. Tommaso Romano, direttore della gloriosa Edizioni Thule, ricordo i suoi ottimi testi di sano revisonismo:“Sicilia 1860-1870. Una storia da riscrivere”, e “Contro la Rivoluzione la fedeltà”, opera omnia sul marchese Vincenzo Mortillaro. Nonché l’agile volumetto su “La beata Maria Cristina di Savoia, Regina delle Due Sicilie (1812-1836).
Inoltre il sacerdote don Bruno Lima, con “Due Sicilie. 1860.L’invasione”, Massimo Viglione con “Le Due Italie”. Infine Francesco Pappalardo, con “Il mito di Garibaldi” e “Dal banditismo al brigantaggio”, pubblicato da D’Ettoris Editori di Crotone. Per ultimo, Pino Aprile con il suo “Terroni”, che forse ha avuto il merito di divulgare e rendere più “attuale”, la brutalità e l’aggressione al Regno napoletano. Naturalmente si potrebbe continuare e fare altri nomi, magari quelli che il professor Tanzi cita nel suo libro.
“Italica”, sgretola alcuni luoghi comuni del Risorgimento.

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Ritornando a “Italica”, anche Tanzi sgretola alcuni luoghi comuni sul Risorgimento, sulla cosidetta “Italia morale”e “Italia reale”, l’idea di una nazione italiana era esistita, ma nelle menti di pochi “patrioti”,“sarebbe difficile definire il Risorgimento come un movimento popolare o di massa. Era e rimase un movimento di èlite…”. Tanzi fa notare che i cosiddetti “quattro giganti del processo risorgimentale”, cioè Cavour, Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele,“forse non a caso, nacquero in un angolo relativamente piccolo del vecchio territorio della penisola italiana, il triangolo di Torino, Genova, e Nizza”. Forse solo Napoleone III conosceva il Sud dell’Italia meglio dei quattro giganti”. Cavour non era mai stato a Sud di Pisa, e non aveva mai espresso particolare interesse a visitare o anche conoscere il Mezzogiorno.“Quella parte dell’Italia semplicemente non lo interessava,– scrive Tanzi – forse perchè non era un’area che lui associava con il futuro e con l’idea di progresso, sia economico che politico e sociale, come lo erano Francia ed Inghilterra”. A questo punto non si comprende perchè ancora bisogna tenersi vie e piazze per ricordarlo e venerarlo come un santo.
Peraltro questa elite risorgimentista, rimase tra loro divisa, tra repubblicani e monarchici. Per il popolo comune, l’idea di una nazione italiana, e di un governo nazionale italiano, era, e rimase per molto tempo, un concetto astratto. Gli italiani conoscevano ed avevano come loro punto di riferimento i loro re, specialmente, gli abitanti del regno più grande di allora, quello di Napoli. “La nazione creata nel 1861, era una nazione la cui amministrazione statale…sarebbe stata presto aspramente criticata da buona parte delle proprie stesse elite politiche, a causa del suo centralismo”.
Una Confederazione di Stati, la soluzione migliore.
Nel libro Tanzi critica, l’unità forzata del popolo italiano, bisognava rispettare, almeno nella fase iniziale,“le grandi differenze culturali, economiche, e storiche che esistevano nelle varie regioni, e specialmente tra il Regno di Napoli e delle Due Sicilie, da un lato, ed il regno di Sardegna, dall’altro”. Lo aveva scritto nel 1848, il siciliano Francesco Ferrara, il più importante economista italiano di quel periodo. “Ferrara avvertiva anche sul pericolo che la libertà sarebbe stata perduta se il disegno piemontese di unificare l’Italia fosse andato a termine”.
L’indipendenza dallo straniero si sarebbe potuto ottenere anche senza l’unificazione. Con una “confederazione” degli stati esistenti, come aveva immaginato Metternich e perfino lo stesso Cavour. C’era l’esempio tedesco, e della vicina Svizzera.
Comunque sia anche Tanzi ci tiene a dire che ama l’Italia ed è orgoglioso di essere italiano e non intende mettere“in questione il merito della creazione di una nazione italiana e di uno stato chiamato Italia, ma il modo in cui quel progetto fu portato a termine. C’erano altre strade, oltre a quella che fu presa, che, forse con più tempo, potevano portare ad una simile destinazione, ed ad un costo più basso, in termini sociali ed economici. Sapendo ciò che sappiamo ora, è possibile sostenere che alcuni errori, con enormi consequenze future, furono fatti e che almeno alcuni di questi errori potevano essere stati evitati”.
Annessione del Mezzogiorno, Unificazione, Brigantaggio.
Anche se il libro di Tanzi non intende sviluppare e descrivere gli aspetti e le azioni più o meno eroici del periodo risorgimentale, lui scrive che lo hanno fatto benissimo altri libri e non sarebbe utile ripetere quello che già si sa. Aggiungo, c’è un altro aspetto che non viene toccato, è la guerra che la rivoluzione risorgimentista ha scatenato alla Chiesa e alla comune identità cattolica del Paese. Tuttavia il libro di Tanzi offre interessanti spunti per la discussione, in particolare, sugli errori commessi e sulle enormi conseguenze future che hanno avuto soprattutto per il Mezzogiorno d’Italia. Dopo l’invasione del Regno di Napoli e delle Due Sicilie nel 1860 da Garibaldi prima, e dalle forze piemontesi dopo, si scatenò il cosiddetto “brigantaggio”, una “opposizione di massa, che sorprese i ‘liberatori’ del Nord che avevano pensato di essere ricevuti come eroi liberatori,solleva molte questioni scomode sulla legittimità della conquista del Regno di Napoli…”. L’invasione fu un vero atto di pirateria, anche perchè il Piemonte aveva avuto relazioni diplomatiche con il Regno di Napoli; i due sovrani erano perfino cugini. Tra l’altro l’atto di conquista del Regno dei piemontesi non era stato gradito da molti stati europei. Per questo motivo, diventò politicamente corretto, per le autorità del nuovo Regno d’Italia, definire “brigantaggio” qualunque opposizione armata contro il nuovo regno e la nuova “patria” italiana, e considerare tutti i meridionali dei comuni criminali, dei “briganti”. Infatti a Torino, avevano appreso la lezione dai cugini francesi della Rivoluzione giacobina del 1789, che considerava “cittadini” i rivoluzionari, mentre chi si opponeva come i vandeani, dei “briganti” da eliminare in tutti i modi.
Certo i fenomeni criminali erano sempre esistiti al Sud, ma adesso, con l’occupazione militare piemontese, assunsero dimensioni straordinarie, causati, secondo Tanzi, da diversi fattori. Certamente per motivi politici contro le nuove autorità, che avevano sostituito spesso in maniera arbitrario e violento, le istituzioni del governo borbonico. Un altro motivo, è stato quello delle promesse non mantenute, in particolare, la non distribuzione delle terre ai contadini. Infine per le forti tasse introdotte che colpirono in particolare il Sud che non era abituato rispetto al Nord.
Soprattutto nel V° capitolo (Annessione del Mezzogiorno, Unificazione, e Brigantaggio) il professor Tanzi racconta tutto con obiettività, per esempio, sulla famiglia borbonica, il giovane re “Francischiello”, figlio di Maria Cristina di Savoia, “la Santa”. L’impresa dei mille di Garibaldi, finanziata da massoni italiani e stranieri (principalmente inglesi) non aveva nessuna legittimità legale o politica, assomigliava molto a un atto di banditismo, favorito naturalmente dai tradimenti degli alti ufficiali borbonici. Praticamente la fine del Regno di Napoli per Tanzi assomiglia molto al crollo dell’Unione Sovietica, un impero che si sfasciò quasi all’improvviso e quasi per miracolo. Infine anche per Tanzi, il nuovo Regno Italico, ha combattuto una vera guerra con un esercito di ben 120 mila uomini che contro i cosiddetti “briganti” del Sud. Paolo Mieli, storico e giornalista, con obiettività, poteva scrivere: “il fenomeno ricordato nei nostri manuali come brigantaggio in realtà fu una guerra civile che sconvolse l’intero Sud. Gli sconfitti lasciarono le loro terre e alimentarono la gigantesca emigrazione verso l’America”. Anche per il professor Tanzi si trattò di una guerra civile, peraltro simile a quella americana. Potremmo continuare, lo faremo, studiare la nostra Storia ci aiuterà a capire anche il nostro presente.

43 Commenti

  1. Egregio Dott. De Felice, qui se c’è qualcuno che sfodera toni khomeinisti-isterici a 360° questo è lei, se non altro per la sfilza d’insulti che rifila, dai quali mi dissocio, anzitutto per una questione di “bon-ton” . Se il neofascismo per lungo tempo ha avuto come maggior punto di riferimento politico Almirante e i suoi, io non so che farci, mi limito a indicare un fatto assodato. Ciò che mi sono limitata a sottolineare è molto semplice, e cioè che il Fascismo ha perso la guerra e la responsabilità ricade sul medesimo (mentre la monarchia sabauda ha vinto la 1a guerra mondiale e il merito ricade su di essa). Che poi Mussolini avesse in testa chissà quali meravigliosi rimedi (e considero la pace con la Russia una di queste “meraviglie” irrealizzabili), e il re Vittorio Emanuele III glielo abbia impedito assieme a Badoglio e a tutti gli altri, questo, secondo me, rientra nelle tante questioni ancora aperte e irrisolte della 2a guerra mondiale. Se lei le ha risolte, beato lei!
    Ci sono almeno tre correnti storiografiche sul 25 luglio: una, enunciata anche dal defunto Pietro Ciabattini in un libro che lei senz’altro avrà letto, prende in esame l’ipotesi che il Duce e il Re abbiano concordato insieme il 25 luglio, dietro le quinte. Personalmente, io propendo per questa tesi.
    Maria Cipriano

  2. Vorrei ( se mi è permesso) aggiungere alcune note nell’interessante polemica fra il dott.De Felice e la signora Cipriano. Prima di tutto dire che il fascismo ha perso la guerra e i Savoia no è una sciocchezza assoluta. E’ una tesi che nessun storico,veramente tale,si permetterebbe di sostenere. Dire che i Savoia abbiano amato l’Italia poi……. Infatti l’amavano cosi tanto che,appena costituito ( nel modo criminale che ben si sa) l’Unità d’Italia dal 1861,gli stessi Savoia specularono sulla pelle degli italiani ( soprattutto centro meridionali) che furono costretti ad emigrare,soprattutto a quella criminale unione imposta dai savoia e loro burattinai d’oltre Manica.Lo storico del risorgimento,Arch. Loreto Giovannone ( per informazioni scrivere a: storia.italia@yahoo.it) ha ampiamente documentato tale vergogna.E’ altrettanto vile ( per non dir di peggio) affermare che le responsabilità della guerra furono solo del fascismo (Mussolini) e non dei Savoia…Vorrei ricordare a tal proposito,che nella tarda primavera del 1940,quando la Wehrmacht si stava ingiottendo quasi tutta l’Europa Occidentale, Vittorio Emanuele III si lamentava perchè “ul testun” ( detto col termine colorito piemontese a Mussolini con riferimento alla scatola cranica di quest’ultimo) era ancora tentennate e non si buttava nella mischia.Quindi,prima di parlare e dire le solite sciocchezze sarebbe opportuno non credere che i porci possano volare. A tal riguardo,uno lettura a quanto vi è scritto in questo articolo,scritto mirabilmente dallo scomparso storico-giornalista presso la sede ONU di Ginevra,tale Alberto Bernardino Mariantoni, dovrebbe far riflettere tutti e di tutte le tendenze,purchè dotati di cervello:http://www.abmariantoni.altervista.org/storia/f_Le_responsabilita_del_disastro.pdf
    Cordialità.
    Ubaldo Croce

  3. Egr. Dott.ssa Cipriano, del “bon ton” non so sinceramente che farmene. La propaganda neo-sabauada, che Lei ha il diritto di rappresentare, non ci porta da nessuna parte.
    L’ingegnere Amadeo Bordiga, con Nicola Bombacci la mente più pura del comunismo italiano del XX secolo (non a caso entrambi espulsi dal Pcd’I), amava citare il Mussolini socialista che al congresso di Reggio del 1912 nell’invettiva contro Bonomi Cabrini, Bissolati e Podrecca: “Il partito non è una vetrina per uomini illustri”. E la politica prêt-à-porter la lascio a Bruno Vespa ed alle corti simili. Lei non mi ha risposto. Attendo ancora una Sua risposta, e non uno sfogo di malumore accademico, in ordine a ciò che di catastrofico conseguì all’arresto di Benito Mussolini ordinato da Vittorio Emanuele III ed effettuato nel pomeriggio del 25 luglio 1943 a Villa Savoia; arresto che è cosa del tutto diversa dall’ipotetico (e mai provato) sfiduciamento concordato tra i due vertici istituzionali di cui sopra. Del resto non mi pare allo stato attuale ancora percorribile una pista che da un lato vuole un’intesa segreta sfociata nell’o.d.g. Grandi del 24 luglio notte 1945 e dall’altro le successive condanne a morte, parzialmente eseguite un anno dopo a Verona degli sfiducianti anti-mussoliniani. La discussione ci porterebbe lontano. Ma sulla nostra seconda guerra mondiale, “parallela”, “breve”, “concordata” (con Churchill, Lebrun e Reynaud) che dir si voglia, sino ad un velenoso punto di non ritorno che si sarebbe protratto sino all’aprile 1945 (leggi carteggio Churchill-Mussolini o carteggio segreto italo-britannico), una discussione aperta, libera da condizionamenti camorristico-catto-comunistico-azionisti, non c’è mai stata da 71 anni ad oggi, né nel sistema educativo (che continua a perpetrare propaganda piuttosto che complessità storiografica) né in quello mediatico. Una cosa è certa. Per piacere, non prendiamoci in giro sostenendo che Vittorio Emanuele III, povera vittima, ebbe imposta la guerra dal Duce. La dichiarazione del 10 giugno 1940 porta la firma, totalmente consenziente, di Sua Maestà Vittorio Emanuele III. E la piantino gli eredi di casa Savoia di scusarsi per il conferimento, nell’ottobre 1922, dell’incarico di Presidente del Consiglio al direttore del “Popolo d’Italia” che portava a Roma “l’Italia (Itaglia alla romagnola) di Vittorio Veneto”. E Le ricordo che Vittorio Veneto fu fatta prima che da monarchici, da fascisti, da sindacalisti rivoluzionari, socialisti e dannunziani. E la piantino i Savoia (ed il tatuato loro cugino e concorrente di altro ramo che porta male il cognome dell’eroe dell’Amba Alagi), di scusarsi (sragionando ora per allora) per le tanto strombazzate ed utilizzate strumentalmente (dall’urlo pecorino che ignora la Storia) leggi razziali del 1938 o per la guerra di Etiopia ed altri bla-bla politicamente corretti. Se conoscessero la Storia, a chi (shampiste improvvisatesi conduttrici televisive) chiedesse loro di scusarsi, potrebbero contrattaccare e rispondere ricordando semplicemente il bando fascista anti-schiavista di De Bono del 14 ottobre 1935. Ma si guardano bene dal farlo. Perché?
    Per quel che mi riguarda, a chiudere, pur non condividendo spesso le vedute del Presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani, penso sia giusto parafrasare Giordano Bruno Guerri, quando scrive (nel 2002):
    “David Irving…invita anche la coscienza civile del nostro Paese a fare i conti con la storia.
    Per esempio cominciando a prepararsi all’idea che (Renzo) De Felice, per quanto meritevole, non ha scoperto, capìto e scritto tutto del fascismo; che quello degli italiani non fu solo consenso, ma per lo più entusiasmo; che non c’è da vergognarsene, anche perché il trionfo del fascismo ha radici antiche e molto lontane da noi; che un bilancio davvero corretto dei meriti e dei demeriti del regime non è stato ancora fatto; che Mussolini – la cui reale e immensa fascinazione su uomini e masse deve essere ancora seriamente studiata – ebbe una straordinaria visione dello Stato, infinitamente superiore a quella dei suoi connazionali; che gli italiani si batterono poco o nulla per la propria libertà, perché della loro libertà importava loro poco o nulla; che non vale dire “se Mussolini non avesse fatto la guerra”, perché nel 1940 gli italiani la volevano con la stessa furbizia e per gli stessi motivi imperialistici del duce; che la combattemmo spesso male e molto spesso con una durezza e una crudeltà che è piacevole fingere di ignorare, ma che sarebbe meglio riconoscere.
    Forse qualcuno mi darà del fascista, con articoli fragili quanto la sua autonomia di pensiero, la sua onestà intellettuale o le sue conoscenze in materia. Sappia sin da ora che non riceverà querele, non perché io sia fascista, ma perché lui è un deficiente: “Persona totalmente o parzialmente minorata nella sua attività intellettuale” (Treccani)”.
    Salutissimi.
    Alessandro De Felice

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