di Giacomo Gambassi da
Ci ha scherzato su il britannico Telegraph che racconta come nella Penisola si usi un frasario in simil-inglese che «suona decisamente strano per un madrelingua», come baby parking. E si è divertito a descrivere il dilagare di workshop (seminario di studio) o brand (marca). Figurarsi se arriva un messaggio di posta elettronica come quello giunto allo scrittore Marco Missiroli. «Un’amica che non sentivo da tempo – rivela il 32enne autore dei romanzi Bianco e Il senso dell’elefante – mi informava di lavorare nel food, ossia nell’alimentazione, e chiedeva quale fosse il mio attuale core business, in pratica la mia attività. Ma che razza di lingua parliamo?».
Già, siamo ormai prigionieri dell’«itanglese», un idioma «caratterizzato dal ricorso frequente e arbitrario a termini e locuzioni inglesi», spiega il dizionario Hoepli. In sette anni l’importazione di vocaboli anglosassoni si è moltiplicata per dieci. E, nota l’agenzia di tradizioni Agostini Associati nella sua ultima ricerca sul fenomeno, a trainare la crescita sono parole legate alla tecnologia (sei fra le dieci più usate, come tablet, social o device) e all’economia (ad esempio default). «Tutte le lingue sono soggette all’influsso dell’inglese – sottolinea la vice-presidente dell’Accademia della Crusca, Paola Manni, docente di linguistica italiana all’Università di Firenze –. Ma tratto specifico dell’italiano è una sorta di dipendenza acritica. Qualcuno lo ha definito morbus anglicus. E di fatto il ricorso in quantità esorbitante a un lessico d’oltre Manica, come sembra talvolta di constatare, rischia di mettere in crisi le strutture dell’italiano». Ne è convinto anche Missiroli. «L’anglomania snatura il nostro parlare e il nostro scrivere: l’italiano ha nella parola morbida la sua etica e il suo codice. Tutt’altro accade nell’inglese. E, quando in una pagina di mille vocaboli, trecento arrivano dalla Gran Bretagna o dagli Usa, resta poco delle radici che ci sostengono». Contro l’abuso dell’inglese si batte il sito stopitanglese.
Uno degli animatori è Massimo Arcangeli, docente di linguistica italiana all’Università di Cagliari e direttore dell’Osservatorio linguistico Zanichelli. Nel suo libro Cercasi Dante disperatamente (Carocci editore, 222 pagine, 19 euro) racconta «fatti e disfatti» di questa debolezza imperante che ha fatto del nostro vocabolario corrente una Little England. «Sicuramente l’importazione di termini anglosassoni può essere dovuta a motivi di necessità. Infatti si fa difficoltà a tradurre in modo opportuno alcune espressioni del campo economico-finanziario o informatico». Ironizza Missiroli: «Lo spread ha ossessionato i sogni della mia estate. Ed è un vocabolo che ormai associo alla Germania anche se non è tedesco». Arcangeli cita mobbing: «In nessun caso persecuzione potrebbe subentragli». E la vice-presidente della Crusca chiarisce che un anglicismo assodato è stop che ha dalla sua la brevità. «Certo la concisione che è una delle peculiarità dell’inglese non può giustificare l’abuso». Preoccupante è lo snobismo linguistico. «Perché dietro c’è un’idea balzana – dichiara il direttore dell’Osservatorio Zanichelli –: siccome l’inglese fa fino, più lo utilizzo, più dimostro di essere moderno e brillante. A questo si aggiunge la pigrizia: si tratta della non voglia di trovare un equivalente. Penso a spending review che finalmente abbiamo capito essere una banale revisione della spesa». Il sito propone una regola aurea: non più del 5% di un testo o di un discorso dovrebbe contenere parole anglosassoni. «Non dobbiamo avere paura dei forestierismi – dichiara Arcangeli –. E i nostri suggerimenti non hanno nulla a che vedere col purismo di Stato o l’autarchia linguistica. Però, se i termini di matrice inglese possono essere rimpiazzati con quelli nazionali, facciamolo. Red carpet è un comune tappeto rosso. Box office sta per botteghino. Second-hand ha lo stesso significato di seconda-mano. Non serve puntare sull’esterofilia per alzare il tono». Manni si affida a un confronto. «Le parole straniere entrate nell’italiano prima della seconda Guerra mondiale si sono riplasmate obbedendo alle regole della nostra lingua. Così oggi è arduo rendersi conto che ragù sia un francesismo o bistecca provenga dall’inglese beefsteak. Invece, in questi anni, gli anglicismi non si sono adattati. E di fatto costituiscono corpi estranei».
Sul banco degli imputati salgono non solo le imprese ma anche giornali e tv. «Quando leggo un documento aziendale o sfoglio un quotidiano – afferma Arcangeli – mi chiedo se la maggioranza delle persone sia in grado di decifrare la mole di vocaboli inglesi di cui ci si riempie la bocca. E anche nel caso delle cronache sportive una maggiore sobrietà sarebbe auspicabile». Insomma al posto di corner può essere scritto angolo e il coach è il nostrano allenatore. Diversa la scelta di Francia o Spagna dove si è optato per autentiche barriere anti-inglese: così Oltralpe il computer è l’ordinateur e il marketing la mercatique, mentre nel Paese iberico il mouse si è trasformato in ratón (topo) e il part-time in media jornada. «La chiamerei dogana sociale», dice Missiroli. E la docente fiorentina aggiunge: «Sono necessari cura e rispetto diffuso per la lingua. Per questo la scuola è tenuta a far acquisire una nuova consapevolezza dell’italiano». Arcangeli lancia una sfida. «Proviamo a imboccare anche qui la via creativa alla traduzione: non per imporre soluzioni stravaganti, ma perché giocare con la lingua è salutare». Un esempio? «Il blog può diventare il digidiario: non è un vocabolo funzionalmente appropriato, ma è sintomo di una vivacità che forse abbiamo perso».
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Inserito il 10 febbraio 2013
stop? alt, che deriva da alto, gode di tutte le caratteristiche che può vantare stop !