di Aldo Cazzullo dal Corriere della Sera del 4 novembre 2014
Quest’anno l’Europa ha celebrato i cent’anni della Grande guerra. Il 4 novembre, anniversario della vittoria, chiama in causa l’Italia, che il prossimo 24 maggio ricorderà l’ingresso nel conflitto. Fu l’inizio di un calvario, dagli assalti sconsiderati alle decimazioni, che costò sofferenze terribili. Davanti ai centomila morti di Redipuglia, papa Francesco ha già avuto parole di condanna per tutte le guerre; e sarebbe giusto che lo Stato italiano, unico a non aver riabilitato i fanti fucilati per volontà di una casta militare sprezzante delle vite umane, trovasse parole di pietà per tutte le vittime. Nello stesso tempo, non è inutile ricordare che quella guerra l’Italia la vinse. Poteva essere spazzata via; invece superò la prima prova della sua storia unitaria. E dimostrò di non essere più un nome geografico, come la volevano gli austriaci, ma una nazione.
Ogni paragone con il passato è fuorviante: il Paese che oggi si allarma per Ebola non è lo stesso che seppellì 350 mila morti di febbre spagnola in un mese. Ma ogni generazione ha la sua guerra da combattere. Quella contro la crisi è lontana dall’essere vinta. Siccome la capacità di resistenza e la forza morale che i nostri antenati dimostrarono cent’anni fa non possono essere andate disperse nel tempo, sta a noi ritrovarle dentro noi stessi e riaccenderle dentro i nostri figli. Questo vale per gli uomini e a maggior ragione per le donne, che un secolo fa dimostrarono di saper prendere il posto dei mariti, nelle campagne, nelle fabbriche, nelle università.
Oggi i fanti non ci sono più. La memoria è un dovere nei confronti dei nostri padri, e ancor più nei confronti dei 650 mila ragazzi che padri non sono diventati. La riscoperta dei simboli dell’unità può essere retorica, quindi inutile, e consolatoria, quindi controproducente. Ma si rivela utilissima, quando sentiamo che la vicenda nazionale incrocia quella delle nostre famiglie. È di noi, come sempre, che parla la storia.