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di Gianpaolo Pansa da “Libero” del 26 febbraio 2012
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Il capo del gruppo corre verso il nostro tavolo e mi scaglia addosso una copia della Grande bugia, urlando: «È un libro infame, sono venuto da Roma apposta per gettarglielo in faccia!». Segue un lancio di volantini stampati con cura. Riproducono una banconota da 50 euro con la scritta: «Pansa prezzolato – con l’infamia ci hai speculato». Arrivato alla nostra pedana, il gruppo srotola un lenzuolo color sangue, con lo slogan «Triangolo rosso? Nessun rimorso». Come a dire, i partigiani comunisti hanno fatto bene ad accoppare tanti nemici della rivoluzione. I violenti sono molto agitati. Urlano da forsennati. Mostrano al pubblico il pugno chiuso. Uno di loro strilla di continuo, a macchinetta: «Viva Schio! Viva Schio!». È la città veneta dove nel luglio 1945 la polizia partigiana rossa ha occupato il carcere e ammazzato cinquantatré persone. Aldo Cazzullo e io restiamo al nostro posto e mandiamo al diavolo il capo del gruppo che pretende di leggere un volantino interminabile. A quel punto, la gente in sala comincia a scandire «Libertà, libertà!». I violenti si rendono conto di essere in minoranza e due poliziotti li allontanano. Si saprà dopo che appartengono a una fazione di ultrà rossi, «Antifascist Militant». Sono tipi senza faccia, sconosciuti. Tranne uno che si rivela tre mesi dopo in un convegno antifascista a Roma, organizzato da Rifondazione comunista. È Simone Sallusti, responsabile organizzativo del partito nella capitale. Rivolto ai compagni, si presenta e dice: «Sono andato a Reggio Emilia per contestare Pansa. E ne sono orgoglioso!». Applausi e pugni chiusi. Adesso siamo al 17 ottobre. La faccenda di Reggio sta su molti quotidiani e nei telegiornali. Nel pomeriggio ricevo qualche telefonata di solidarietà. Ma soltanto di politici moderati, ricordo Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella. Tuttavia, verso sera arriva il messaggio più importante. Giorgio Napolitano, da pochi mesi presidente della Repubblica, con un comunicato del Quirinale, esprime «la sua profonda deplorazione per gli atti di violenza» a Reggio Emilia.
Soltanto dopo il suo intervento, spuntano un paio di telefonate da sinistra, di Prodi e di Piero Fassino. Chiamate personali e riservate, niente di pubblico perché a sinistra il Pansa è considerato un diffamatore della Resistenza. Per ultima si fa viva una redattrice della Stampa, Egle Santolini. Su incarico della direzione, mi avvisa che l’indomani troverò sul loro giornale due articoli che mi riguardano. Mi consiglia: «Li legga con calma». Li leggo il 18 ottobre. Alla Stampa, dove ho lavorato per anni, devo avere qualche amico del giaguaro. Entrambi i pezzi sono contro di me, con una rabbia speciale. Un articolo del professor Angelo d’Orsi e un’intervista, manco a dirlo, di Giorgio Bocca. Il professore ricicla un suo vecchio articolo, con l’aggiunta di un falso. Lui descrive l’aggressione di Reggio Emilia così: «Insulti e baruffe tra giovani di sinistra che contestavano Pansa e giovani di destra che ne prendevano le parti».
Sempre il 18 ottobre, mi telefona uno dei vicedirettori della Stampa, Massimo Gramellini, la cosiddetta penna brillante del giornale. Un pennacchione giulivo che si ritiene di sinistra. Con ilare cautela, mi chiede se voglio rispondere, ma lo mando a quel paese. Subito dopo mi chiama il direttore, Giulio Anselmi. Ci conosciamo da anni. E abbiamo lavorato insieme all’Espresso. Anselmi deve essersi reso conto di aver pubblicato una carognata. Si lava subito le mani e mi indica come bersaglio il suo vice: «Guarda che quella pagina l’ha messa insieme Gramellini. Ha fatto tutto lui ed è lui che devi ringraziare, non è colpa mia». Gli ribatto: «Ma il direttore non sei tu?». Anselmi: «Io non potevo farci nulla». Penso: misteri del giornalismo italiano, con troppi direttori senza autorità.
L’assalto di Reggio fa scuola. Il 19 ottobre devo presentare il libro a Bassano del Grappa. Ma nella notte, gli ultrà rossi hanno sabotato le serrature dei tre ingressi della libreria. Ci vuole un lavoro di tre ore per sbloccarle. Riesco a fare il dibattito, mentre in strada urlano dei giovanotti che pretendono di entrare e leggere un documento contro di me. Dopo Bassano, parlo in altre due città venete, Castelfranco e Carmignano di Brenta. E mi rendo conto di avere addosso l’Anpi, il club dei partigiani rossi, e le solite bande di ultrà. Ma ormai sono protetto dalla polizia e dai carabinieri. Il capo della Digos di Padova mi spiega che dovunque troverò le medesime ostilità. Aggiunge: «Li conosciamo, lei deve stare tranquillo perché sarà sempre tutelato dalle forze dell’ordine».
Presentare un libro scortato da agenti e carabinieri? La faccenda non mi piace per niente. Mi amareggia e mi obbliga a domandarmi perché mai debba sottrarre a compiti ben più importanti tanti ragazzi in divisa. È in quel momento che decido di annullare quattordici dibattiti dei trenta già previsti. Lo faccio pensando: «Credevo di essere un cittadino libero in un paese libero, ma devo arrendermi: non è per niente così».
Da allora sono trascorsi cinque anni e non ho più presentato in pubblico i miei libri. Mi sono reso conto che questa rinuncia non ha influenza sulla diffusione, però mi sento dimezzato. Lo stesso accade a tanti autori di destra. E oggi anche a eccellenze di sinistra, come Giancarlo Caselli. La ruota è girata, ma il risultato è sempre un brutto affare. Signor procuratore capo di Torino, ci rifletta. Smetta di fare la vittima. Gioverà a lei e a tutti noi.
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Pubblicato su Storia in Rete il 27 febbraio 2012
Onestamente non so cosa pensi Pansa delle guerre risorgimentali. Fatto sta che riguardo alle stragi partigiane rompe un tabù che molti tentavano di nascondere ovvero quello di tanti morti innocenti uccisi proprio da coloro che si batterono contro il fascismo. Antifascista non equivale a democratico e ciò non è piaciuto a quei tanti, che facendo professione di antifascismo, esaltavano tiranni sanguinari solo perché appartenenti al loro stesso partito.