Era “l’urlo che attraversava la natura”, come Much stesso scrisse, quello percepito nel corso di una passeggiata, durante un tramonto “rosso come il sangue” (era il 1892), che lo spinse a mettere su tela l’angoscia che nasceva dalla sua sofferenza. Un vissuto personale di particolare tragicità: “Le malattie, la pazzia e la morte – scrisse – furono gli angeli neri che vegliarono sopra la mia culla e mi accompagnarono fin dall’infanzia”. L’uomo del dipinto ha le sembianze stravolte dal terrore che lo squassa in profondità. Ed è icona del Novecento, degli orrori e della condizione esistenziale che marchieranno il secolo. L’urlo, dunque, è espressione di sofferenza non più individuale ma collettiva. E profonda, dove le forme prendono andamento indefinito, i colori sono irreali, i contorni dissolti. Modernissimo, ispirerà il movimento espressionista europeo. E’ anche la dimensione del sogno. Sono tutti gli uomini a perdersi nell’angoscia, quando capiscono che il nulla esiste, è verità partecipata.
Immagine celeberrima, spesso e a sproposito utilizzata dal mondo della comunicazione, L’urlo è senza dubbio l’opera più famosa del maestro norvegese. In essa c’è il senso tragico della vita, quello stesso che aveva animato tutta l’arte scandinava fra Ottocento e Novecento. Munch fu, in pittura, quel che Ibsen (al quale l’artista fu legato da solida amicizia) e Strindberg furono in letteratura e in teatro, legati dalla poetica dell’angoscia che contraddistinse la cultura di quel Paese in quel periodo.
Rielaborato in seguito in altri quadri e litografie, L’urlo apparteneva in origine a Il fregio della vita, ciclo pittorico per affresco che tuttavia non venne mai concluso e rimase un’opera aperta. Nelle intenzioni di Munch, voleva costituire “il poema dell’amore, della vita e della morte” attraverso la metamorfosi degli stati d’animo espressi dall’artista attraverso un uso violento del colore e delle linee. E’ la sua materializzazione delle angosce, la sua percezione della tensioni. E’ il passaggio dall’esperienza visiva dell’impressionismo al “sentire” inconscio, e lo strumento con cui l’artista dà voce alla disperazione del suo animo e del suo tempo.
Da «Repubblica.it» del 22 agosto 2004
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