Home Rinascimento 17 agosto 1571: il martirio di Marc’Antonio Bragadin

17 agosto 1571: il martirio di Marc’Antonio Bragadin

La difesa di Famagosta fu una della pagine più epiche mai scritte dalle armi italiane, inequivocabile dimostrazione della falsità con cui sempre si è dipinto l’italiano come pavido, incapace di combattere e inetto: i difensori della fortezza, il veneziano Marcantonio Bragadin, prefetto civile, e il perugino Astorre Baglioni, capitano di ventura, ingegnere militare e comandante delle truppe cittadine, tennero contro un esercito nemico immenso, facendo pagare alla Sublime Porta un prezzo sproporzionato per una vittoria amara. Ma la loro sorte fu terribile, indicibile addirittura quella di Bragadin.

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Emanuele Mastrangelo da “Storia in Rete” n. 13-14, Novembre-dicembre 2006

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Astorre Baglioni si distinse per abilità tattica e strategica, rendendo l’assedio un vero e proprio incubo per gli oppugnanti: rinforzò le difese famagostane, ideò stratagemmi e tattiche (come i famosi «gattoli», trincee tortuose al riparo delle quali i guastatori potevano «sgattaiolare» e portare offesa agli attaccanti), fu maestro nella guerra delle mine, portando a segno numerosi colpi contro le gallerie scavate dai turchi sotto le mura cittadine. Con le sue sortite temerarie inflisse perdite sanguinose al nemico, e cocenti umiliazioni, come quando sottrasse ai tracotanti turchi il gonfalone di Nicosia, trofeo che i nemici sventolavano orgogliosamente in faccia ai difensori di Famagosta, credendo così di deprimerne il morale. Quando una flotta veneziana di rinforzo salpò da Cipro, Baglioni fa credere al nemico di aver evacuato Famagosta su quelle navi: i turchi s’avvicinarono alla città in formazione di parata, senza precauzioni, ma furono accolti da un’imboscata tesa dai duemila italiani, quattromila stradiotti greci e albanesi e dagli altri volontari ciprioti al comando di Astorre, che inflissero alle avanguardie turche 2.500 morti, oltre ad una dura lezione di prudenza ed umiltà. Ma l’esercito ottomano crebbe rapidamente di numero, fino a sfiorare (alcuni dicono anche a superare) le 200 mila unità, con oltre centodieci bocche da fuoco.

Baglioni fece allora avvelenare i pozzi attorno alla città, per privare gli assedianti d’acqua potabile, fa cospargere il terreno di triboli (ricci di ferro per ferire i piedi dei fanti e le zampe dei quadrupedi) e piazza il suo alloggio nel bastione di Santa Nappa, da dove può dirigere con precisione il tiro delle artiglierie. I turchi pagano ogni assalto alle mura ed ogni sortita della cavalleria veneziana con decine di migliaia di morti: cifre da Prima Guerra Mondiale, se è vero che in soli 10 giorni almeno 30 mila fra fanti e guastatori turchi arrossarono la terra di Famagosta con il loro sangue. Comandante civile e politico assieme a Baglioni fu Marcantonio Bragadin: uomo di rare virtù e coraggio, riuscì a galvanizzare la popolazione cittadina greca ed a gestire le magre risorse durante tutto l’assedio, dimostrandosi anche soldato valoroso ed implacabile. Il 31 luglio 1571 gli esausti difensori respingono il quinto assalto generale: sono rimasti ormai meno di cinquecento uomini validi e la popolazione è alla fame. Il comandante dei turchi, l’arabo Lala Mustafà, rende note a Bragadin condizioni di resa estremamente vantaggiose: salva la vita e le proprietà di tutti, evacuazione a Candia di chi avesse desiderato e libertà di culto per chi fosse rimasto. Bragadin è titubante: vorrebbe respingere la profferta, ma le delegazioni dei cittadini disperati lo scongiurano di accettare. Vorrebbe anche tentare un’ultima sortita (appiedata, giacchè i cavalli sono già stati tutti macellati per nutrire soldati e civili) e morire combattendo, ma i cittadini gli fanno notare che questo renderebbe furioso il turco, che si sfogherebbe poi sui civili inermi. Bragadin sa quale sorte sia toccata a Nicosia dopo la resa: 20 mila persone sterminate nei metodi più orrendi, le donne che si gettavano dai tetti pur di non cadere in mano ai vincitori, duemila bambini e ragazze inviati nel mercato degli schiavi del sesso di Costantinopoli. Ma, a malincuore, accetta. In gran pompa la delegazione dei capitani italiani esce dalle mura in rovina e si reca alla tenda del Pascià per consegnare le chiavi della città. Lala Mustafà finge cortesia per tre giorni, poi con un pretesto fa arrestare tutta la guarnigione cristiana. Il comandante turco è infatti furibondo: ha impiegato oltre 11 mesi per piegare la resistenza, ha perduto 52 mila uomini, fra cui il suo primogenito. Quando si rende conto all’esiguità dei difensori, la furia, la frustrazione e il senso di inferiorità lo accecano. Fa impiccare Astorre Baglioni e gli altri capitani italiani, Lorenzo Tiepolo, Gianantonio Querini, e Alvise Martinengo (quest’ultimo impiccato tre volte per prolungarne l’agonia) e il capitano greco-cipriota Manoli Spilioti, esponendo le loro teste infisse su picche, mentre per il superbo Bragadin medita una fine ancor più agghiacciante: gli fa mozzare orecchi e naso, e poi rinchiudere in una gabbia sotto il sole: per tredici giorni il capitano italiano è stretto in agonia fra le sbarre arroventate mentre le ferite gli si infettano. Il 17 agosto, un venerdì, Lala Mustafà lo fa uscire, pestare e frustare, lo costringe a percorrere due volte il perimetro della città caricato di gerle piene di sassi ed immondizia sulle spalle piagate, facendogli premere dalla soldataglia la bocca in terra ad ogni passaggio davanti al suo trono. Lo fa quindi appendere per ore ad un’antenna nel porto, in maniera che tutti gli schiavi cristiani ai remi ed i prigionieri possano vedere l’orribile sorte del loro comandante.

Ma il pascià non è ancora sazio di vendetta. Bragadin è legato ad una colonna, più morto che vivo. Il carnefice gli si avvicina con lame affilatissime. Lala Mustafà gli intima di abiurare la Croce ed abbracciare l’Islam. Ma Bragadin rifiuta sdegnato, con la poca forza che gli rimane. Il pascià ordina allora l’orrendo supplizio: il boia inizia a scorticarlo vivo, partendo dalla nuca e dalla schiena, lentamente e con metodo, ripetendogli «convertiti e la tortura finirà! » Ma Bragadin non cede. Alla fine la morte pietosa lo colse solo quando il coltello del carnefice fu giunto all’ombelico. La pelle impagliata sarà appesa come macabro trofeo all’ammiraglia della flotta di Lala Mustafà e portata a Costantinopoli. Anni dopo mercanti veneziani con la complicità di uno schiavo cristiano riusciranno a trafugarla, ed oggi è conservata nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, e venerata come una reliquia, sebbene la Chiesa non abbia mai elevato il martire Bragadin alla gloria degli altari. L’infingardia di Lala Mustafà fu tale che egli dovette giustificarsi davanti al suo superiore Pertev Pascià, che si sentiva disonorato dal comportamento del suo generale. In occidente il martirio di Bragadin infocò gli animi e fu tra i motivi che spinsero le flotte cristiane a battersi come leoni fino alla vittoria, a Lepanto, due mesi dopo.

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Inserito il 17 agosto 2010, 439 anni dopo il martirio di Marc’Antonio Bragadin

PER SAPERNE DI PIU’ LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO DA STORIA IN RETE 13-14

95 Commenti

  1. Sig. Emanuele, ma qual è il suo problema? La nostra Repubblica ha collaborato con tutta l’italia, erano famose le truppe di Parma al soldo di Venezia, ma non solo anche i corsi, gli svizzeri gli alemanni, e quindi? e chi furono i più fedeli guarda caso i “non veneti” gli oltremarini ossia principalmente schiavoni dalmatini.
    Forza su Venezia finché è riuscita a tenersi su con le sue gambe è stata attrattiva per tutti, al tempo c’erano soldi e possibilità di emergere (non certo come oggi per fare i turisti).
    Ma vedere Venezia del tempo utilizzata come riferimento italian-style “stride” perché usi e costumi del tempo non erano proprio “comuni” al resto delle popolazioni di questa sgangherata penisola.
    Ma in questo luogo dove si parla di storia, non credo che dobbiamo “giocarci” l’italianità o la veneticità del Marco Antonio ma solo onorarne la memoria.
    Altrimenti diventa sciacallaggio trito e ritrito.

    Mi ripeto “Venetorum Fides Inviolabis” e non l’ho detto io…
    Buona giornata

    • Quale problema? I veneziani all’epoca erano considerati italiani come gli altri, e come gli altri avevano una fedeltà a una patria (cittadina nel caso di Venezia) che non poteva per ovvi motivi corrispondere a una “patria nazionale” estesa all’intera penisola perché non esisteva uno Stato unitario. Tuttavia esisteva una consapevolezza dell’unicità degli italiani, che tali erano percepiti anche dagli stranieri. La lingua ufficiale a Venezia insieme al latino era l’italiano, non uno dei dialetti veneti. Gli italiani fra loro si parlavano in italiano, non nei rispettivi dialetti. Semmai l’unico sciacallaggio è quello di fare di Bragadin una specie di eroe di un “indipendentismo” veneziano che all’epoca era del tutto fuori da ogni corda.

  2. Sa Emanuele, mi sembra punti di vista discutibili. Sì i veneiani erano considerati italiani esattamente come gli scandinavi sono in scandinavia e gli iberici sono nella penisola iberica. Ma quello che conta nei fedeli sudditi della Repubblica c’era solo una di fedeltà quella a San Marco, il resto era poco importante e la storia lo dimostra.
    Che poi l’aristocrazia veneziana con a capo perfino il Bembo fosse attratti dal dialetto fiorentino del quale fece una sorta di normalizzazione è altrettanto vero.
    Ma si sa, spesso si trattava di mode della nobiltà, una lingua per letterati, che poco o niente aveva che vedere con il popolo. Ecco il popolo è il punto. Gli italiani, ahinoi ancora oggi non parlano italiano, e se lo hanno raggiunto, anche a se a livelli minimi, è merito del così detto “baucometro” (la TV) non certo del Bembo, di Dante o della scuola.
    Le dimostrazioni pratiche si sono viste, e si sono palesati nei odi più svariati, altrimenti non si capirebbe come gli ordini della regia marina a Lissa finirono sott’acqua assieme alla Re d’italia, proprio per mancanza di intendimenti linguistici e nella gioia incontenibile dei veneziani, in quel frangente dall’altra parte. Ma esempi ne troviamo anche molto dopo, basta leggere le memorie dei soldati del 15/18, dove uno dei principali problemi lamentato era proprio il non riuscire a capirsi troppe lingue o dialetti se così li vuol chiamare.

    Insomma un certo d’Azeglio molto più “influencer” di noi due disse, che fatta l’italia c’era un altro problema più grande da risolvere… be penso che la risposta la sappia ed a mio modesto avviso è stata una delle stupidaggini più grandi si potessero fare visto e considerato anche il prezzo (di sangue) pagato.

    Qualcuno più sopra ha citato Dante, che in questa terzina più che il sommo poeta sembra un Nostradamus sui tempi moderni.

    «Ahi serva Italia, di dolore ostello,
    nave senza nocchiere in gran tempesta,
    non donna di provincie, ma bordello!»

    In italia praticamente una evergreen.

    Buone vacanze

  3. Gli italiani sono stati (e sono ancora) una ventina di popoli diversi con usi, costumi, tradizioni e lingue diverse. La nascita degli stati nazionali e il desiderio di unità fu una esigenza più di economia politica che di natura sociale, sentita ed attuata da pochi e semplicemente subita da molti.
    Il 98% della popolazione non faceva differenza tra un Savoia, un Asburgo o un Borbone. L’unità d’Italia, soprattutto per come è stata ottenuta, non può rappresentare un valore in se, anzi. Il patrimonio culturale ben più importante è rappresentato proprio dalle differenze tra regioni, città e paesi, dalla loro unicità, che se conosciute, capite ed amate, uniscono e non dividono.

    • Il fatto che siamo così multiformi non vuol dire che non siamo un unico popolo. La lingua ci ha unificato dall’anno mille almeno. Prima ci unificava la consapevolezza dell’unità della Penisola a sud delle Alpi. Gli altri popoli ci consideravano un popolo unico molto prima che noi stessi arrivassimo a consapevolezza della necessità di uno stato nazionale unitario.
      Quanto alla lingua, basti vedere che i capitoli – o “lingue” – in cui era diviso l’ordine di Malta prevedeva ben tre divisioni per l’attuale Francia (ossia Francia, Alvernia e Provenza) mentre quello italiano era unitario e comprendeva TUTTI gli Stati italiani. I dialetti non sono mai stati considerati una lingua.

  4. Già nel III secolo a.c. i romani consideravano Italia tutta la penisola a sud del Po, il resto era Gallia. Augusto, dopo le varie conquiste, per la prima volta nella storia, unì tutta l’Italia così come la conosciamo oggi, in una sola entità. Dopo la fine dell’impero di Carlo Magno l’Italia si disgregò rimanendo semplicemente una espressione geografica. Solo nelle menti di una ristretta cerchia di eruditi sognatori rimase vivo il ricordo unitario.
    Quanto all’idioma risulta che nel 1861 solo il 5% della popolazione parlava quotidianamente italiano e solamente il 22% sapeva legge e scrivere. Per fortuna la situazione è migliorata, tuttavia mi piace ricordare che ad oggi solo il 46% della popolazione adopera esclusivamente l’italiano, gli altri usano alternativamente il dialetto.

    • Senz’altro. Va tuttavia notata una cosa: il frate francescano che nel XIII secolo partiva da Assisi e andava a predicare a Gravina di Puglia, in che lingua leggeva il Cantico delle Creature di Francesco? L’italiano era ben compreso, anche se non usato con frequenza. L’Italia ai fatti era una nazione totalmente bilingue, almeno dall’anno 1000 in poi.

  5. Nel 1200 il frate francescano parlava latino “volgare” e magari un po’ di latino scolastico, lo stesso latino usato da San Francesco per interloquire col Papa o con il Sultano d’Egitto Malek al-Kamil. Difficile parlare di italiano, almeno come lo intendiamo noi oggi, a meno di voler accettare che “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene..” sia italiano!
    Scrittori del calibro di Manzoni e Leopardi facevano fatica con l’italiano parlato e preferivano, per loro stessa ammissione, usare il francese…

    • E dunque le predicazioni ai contadini o ai pastori in che lingua le facevano? In latino scolastico? E se così fosse, perché Francesco avrebbe scritto il Cantico in italiano anziché in latino?
      Non ci fermiamo alla scrittura dell’italiano – che sarà codificata solo molto tempo dopo – quel “sao ko kelle terre…” è già italiano perfettamente intellegibile dalle Alpi alla Sicilia, ancorché i vari italiani regionali fossero molto variegati fra loro. Eppure perfettamente intellegibili fra loro.

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