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I partigiani accusati di genocidio davanti alla Corte dell’Aia

La malinconica profezia espressa da Piero Buscaroli nel suo bel libro, Dalla parte dei vinti (Mondadori) secondo la quale la memoria degli sconfitti del 1945 sarebbe stata per sempre condannata all’oblio non si avvererà. Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia ha accolto la domanda che chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani (milite scelto della Guardia nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane.

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di  Eugenio Di Rienzo su “Il Giornale” del 12 marzo 2010

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L’ipotesi di reato è genocidio. Il Tribunale dell’Aia ha risposto così al figlio di Tiramani, Giuseppe, che, attraverso la consulenza del suo legale Michele Morenghi, ha chiesto l’apertura del procedimento tramite una memoria dove si sostiene che: «Mio padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel piacentino nel luglio del ’44 da un gruppo partigiano della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria. Mia madre lo trovò crivellato di colpi. Io non voglio vendette, ho già perdonato tutti coloro che uccisero mio padre, abitavano nel mio paese e li ho conosciuti personalmente dopo la guerra. Chiedo sia fatta giustizia per il suo caso e per tutti gli altri combattenti della Repubblica sociale uccisi in quegli anni nel piacentino».

In questo modo, l’International Criminal Court, la cui competenza si estende a tutti crimini più gravi che riguardano la comunità internazionale, come il genocidio appunto, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra, potrebbe intervenire su una vicenda italiana che per tanti decenni è rimasta volutamente occultata dalla storiografia ufficiale ed è sopravvissuta solo grazie alla memoria dei sopravvissuti. Fino alla comparsa dei libri di Giampaolo Pansa (un grande giornalista che sa bene di storia), quanti italiani conoscevano le tristi vicende della caccia al repubblichino, che si aprì dopo il 25 aprile 1945 per protrarsi fino al 1946 e al 1947? Pochi, pochissini. Soltanto i parenti delle vittime o quanti di noi avevano un amico, un conoscente che visse personalmente quella tragedia. A me capitò di avere questa triste «fortuna» e di apprendere dell’uccisione di un proprietario agricolo dell’Emilia, fucilato insieme al nipote dodicenne, con l’accusa di vaghe simpatie fasciste; della morte di un contadino del bellunese fatto fuori dopo aver rifiutato di vettovagliare una banda partigiana; e del linciaggio di alcuni giovanissimi «ragazzi di Salò» che ora giacciono interrati nel Campo X al cimitero di Musocco a Milano. Ma di tutto questo fino a pochissimo tempo fa neanche un rigo sui libri di storia e ancora oggi nessun accenno nei manuali di scuola che vanno in mano ai nostri giovani.

Eppure autorevoli testimoni di quella guerra fratricida, che si trasformò in tiro al piccione, sapevano. Sapevano e tacquero. Benedetto Croce, ad esempio. Dalla lettura dei Taccuini di guerra del vecchio filosofo, editi solo nel 2004, emerge con forza il timore che la guerra partigiana possa trasformarsi in una rivoluzione «comunistico-socialista», che, in breve, avrebbe consegnato l’Italia a un altro totalitarismo, forse più spietato, come andava dimostrando con abbacinante chiarezza la «liberazione» di Polonia, Ungheria e degli altri paesi danubiani e balcanici, operata dalle truppe sovietiche, coadiuvate dalle formazioni partigiane comuniste. La rivelazione della strage di Katyn, avvenuta da parte dell’Armata Rossa, tra marzo e maggio del 1940, confermava in Croce questo timore, quando anche in Italia si era appreso dell’«eccidio fatto dai russi di migliaia di ufficiali polacchi, che erano loro prigionieri». La minaccia di una sovietizzazione imposta con la violenza, scriveva il filosofo, si avvicinava anche al nostro paese. Era già attiva nelle regioni orientali esposte alle violenze delle «bande di Tito». La si scorgeva serpeggiare nella gestione dell’epurazione antifascista delle strutture statali «maneggiata dai commissari comunisti» che tentavano di attuare «un’infiltrazione del comunismo», perpetrata «contro le garanzie statutarie, conto le disposizioni del codice, per modo che nessuno è più sicuro di non essere a capriccio fermato dalla polizia, messo in carcere, perquisito».

Tutto questo avveniva, in ossequio alla «rivoluzione vagheggiata e sperata». E sempre in ossequio a quel progetto eversivo, le regioni settentrionali dell’Italia, controllate dagli elementi estremisti del Cnl, divenivano il teatro di stragi di massa contro fascisti, ma più spesso contro vittime del tutto innocenti. L’8 agosto 1945 la famiglia Croce riceveva la visita di un conoscente «che ci ha commossi col racconto del fratello incolpevole, non compromesso col fascismo, ucciso con molti altri a furia di popolo a Bologna». Nella stessa pagina del diario, si annotava: «In quella città gli uccisi sono stati due migliaia e mezzo, tra questi trecentocinquanta non identificati».

Tra il vero antifascismo e resistenza si scavava, con questa testimonianza, un abisso profondo. Si alzava uno steccato, che soltanto la costruzione di una memoria contraffatta di quegli anni terribili ha potuto per molto tempo celare.

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Inserito su www.storiainrete.com il 13 marzo 2010

12 Commenti

  1. Da quando in qua la vostra fazione è umanitaria e gandhiana? I perdenti del ’45 non erano dei Gandhi. Erano prepotenti ma gli è andata male. I partigiani e gli altri vincitori erano più forti. Inutile frignare e strillare per la sconfitta. Anche i vostri erano cattivi in Spagna e in Etiopia, dunque…

  2. COMUNICAZIONE DI SERVIZIO.
    Invitiamo tutti i lettori che partecipano alla discussione ad auto-moderare i loro termini.
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    Certi che l’appello alla vostra sensibilità e responsabilità non sia caduto nel vuoto, vi invitiamo a riprendere la discussione con la calma e i termini che si devono a un dibattito storico fra persone serie e civili quali siete tutti quanti. LA REDAZIONE DI STORIA IN RETE

  3. Una vera domanda intrigante a cui non vi è ancora risposta (attendiamo dagli archivi russi la desecretazione) è dove siano stati sepolti i corpi dei figli (tutti?) dei Goebbels. E sono stati bruciati realmente? I loro corpi sono stati spediti a Plötzensee (Berlino) insieme a quello di un ufficiale non identificato. Dopo che le autopsie erano terminate, i corpi di Joseph, di Magda e dei sei bambini sono stati mostrati alla Geheime Feldpolizei ed alla guardia del corpo di Goebbels l’SS-Hauptsturmführer Wilhelm Eckold da cui il “Report of interrogation” del 18 magio 1945. Secondo la vulgata ufficiale, nel 1970, i resti dei sei bambini, come pure quelli di Joseph Goebbels, Magda Goebbels, Hitler ed Eva Braun sono stati presumibilmente bruciati e sparsi nel Fiume Elba dai sovietici.

  4. Le perplessità sulla effettiva morte di Hitler, hanno radici lontane, per cui, l’ipotesi di una fuga all’estero è molto probabile. Le colpe? Americani in primis, Vaticano in secundis, nella loro fobia anti-bolscevica.

  5. Suggerimento manageriale-culturale per la dirigenza editoriale: credo che “Storia in Rete” dovrebbe, invece che assorbire sola-(mente) contributi di professori ordinari o associati di materie storiche più o meno vincolati al politicamente corretto istituzionale, con ovvie limitazioni e restrizioni di impostazione culturale legate al ricatto istituzionale di cancellare ciò che non va bene allo status quo narrativo contemporaneo storico-politico, dovrebbe trasformarsi anche e soprattutto in una società di servizi culturali e mediatici e/o università privata (finanziata anche da forze economiche-politiche estere) tesa al revisionismo ed alla formazione di un ceto di studiosi realmente preparati. Solo forze economiche nazionali libere o politiche estere (Putin o Le Pen)potrebbero avere un minimo interesse al riguardo. Vedo soprattutto la possibilità di formare docenti a contratto slegati da inutili concorsi universitari (pilotati tutti) e chiamati invece direttamente ad insegnare o fornire contributi culturali come liberi imprenditori dotati di relativa partita iva. Cultura storica come intrapresa individuale. Se non ora quando?

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