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Scritto da Giuseppe Bedeschi da il Foglio del 24 nov 2009
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Ma si tratta di una risposta del tutto sbagliata, anche se ha dalla sua la forza immarcescibile dei luoghi comuni: infatti (come ci ricordano i costituzionalisti più avveduti, a partire dal presidente Cossiga) il cosiddetto potere giudiziario non esiste (poiché esso non riceve nessuna investitura dal popolo sovrano,e quindi non è affatto un potere); esiste invece l’ordinamento giudiziario, che dovrebbe garantire la convivenza civile dei cittadini.
Dico dovrebbe perché esso è in grado di svolgere correttamente i suoi compiti solo se risponde a regole ben precise. Per esempio, esso non deve essere costituito da una casta onnipotente, senza una rigorosa distinzione fra magistratura requirente e magistratura giudicante: una distinzione che, purtroppo, è assente nel nostro Paese, e tale assenza porta a distorsioni gravissime.
Ma, per tornare alla cosiddetta dottrina della divisione dei poteri, e per capirne a fondo il significato, è opportuno risalire alle sue fonti classiche. E quindi a Locke (il primo grande teorico della società liberale), il quale parlò di separazione e di subordinazione dei poteri (il legislativo e l’esecutivo dovevano essere rigorosamente distinti e separati, e il secondo doveva essere subordinato al primo). Locke non parlò nemmeno di “potere giudiziario”, perché l’esercizio della giustizia civile e penale era per lui un’articolazione del legislativo, e quindi doveva essere assolutamente subordinato ad esso. Ma il pensatore più profondo, più ricco e più suggestivo su questo tema fondamentale è stato indubbiamente Montesquieu, al quale viene attribuita, secondo una definizione alquanto rozza e semplificatrice, una dottrina della “divisione dei poteri”.
E l’ordinamento giudiziario? Il lettore si sarà accorto che Montesquieu finora non ne ha parlato affatto. Et pour cause! Infatti, come sottolinea Fisichella, Montesquieu non solo non annovera il giudiziario fra i poteri fondamentali della monarchia, ma tutti i suoi sforzi sono diretti a porgli dei limiti ben precisi, affinché esso non debordi e non leda i diritti dei cittadini e le prerogative della sfera politica.
Il potere giudiziario, dice il pensatore francese, «non deve essere attribuito a un senato permanente, ma deve essere esercitato da persone scelte fra il popolo, in determinati periodi dell’anno, secondo la maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale il quale rimanga in vita soltanto per il periodo che la necessità richiede».
E dopo avergli apposto questi paletti ben precisi e invalicabili, Montesquieu aggiunge, rendendo ancora più vivida la propria preoccupazione circa la possibilità che il giudiziario debordi dai propri confini: «In questo modo il potere giudiziario, così terribile tra gli uomini, non essendo legato né a una determinata condizione, né a una determinata professione, diviene, per così dire, invisibile e nullo», cosicché noi non avremo «continuamente dei giudici davanti agli occhi», e temeremo «la magistratura, non i magistrati».
Queste parole si leggono nello Spirito delle leggi, un capolavoro apparso nel 1748: ma sembrano scritte ieri, tanto sono sagge, premonitrici ed efficaci.
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Inserito su www.storiainrete.com il 30 novembre 2009
Quando la scuola era scuola, fra le nozioni di educazione civica ci insegnavano che il potere giudiziario doveva essere indipendente e apolitico. In quanto a ‘indipendente, la casta si è ben calata nella parte. Ma il termine ‘apolitico’ la casta non l’ha mai preso in considerazione, l’ha giudicato superfluo.
Se le “caste” pagassero gli errori come qualunque cittadino, finirebbe tutto il caos che c’è in Italia.
Ma l’italiano nel caos ci sguazza e prospera….