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La guerra dei Neoborbonici su Fenestrelle: è dibattito rovente

Il dibattito attorno a Fenestrelle e all’internamento nel forte piemontese dei soldati borbonici lealisti sta raggiungendo nei media il calor bianco. Lo dimostra, fra l’altro, il serratissimo scambio di commenti che i lettori di Storia in Rete di diversa opinione stanno facendo sul nostro sito dimostrando una vis polemica e una preparazione superiore alla media. Per questo Storia in Rete dedicherà a questo tema ampissimo spazio e la copertina del prossimo numero. Invitiamo tutti a contribuire al dibattito e ricordiamo che su quelle pagine del Risorgimento che ancora dividono, come il Brigantaggio e le stragi di Pontelandolfo e Casalduni, Storia in Rete ha dedicato numerosi articoli sul numero 76, disponibile come arretrato o in formato pdf.

C’è da restar basiti! Mentre si susseguono i bollettini «della guerra» economica in corso e mentre il Mezzogiorno più di altre aree soffre e stringe la cinghia, c’è chi propone di incrociare i «ferri», ideologici o storici, sostenendo le ragioni del Sud borbonico negletto e «criminalizzato» dalla saggistica odierna. E sì, il libro di Alessandro Barbero edito da Laterza, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, non è passato inosservato. Dopo gli attacchi violenti e anche volgari arrivati via web ad un’ora dalla comparsa del tomo sugli scaffali delle librerie («un cumulo di menzogne», «una mistificazione! E’ come far scrivere la storia di Auschwitz a Goebbels») e dopo il rinfocolarsi delle polemiche in seguito alla recensione di Corrado Stajano per il Corriere della Sera, il colpo di scena: sfidiamoci, dicono i neoborbonici a Barbero.

di Rosanna Lampugnani dal Corriere del Mezzogiorno del 18 ottobre 2012 

SI TORNA ALL’ATTACCO – E’ questa anche una replica all’editore Giuseppe Laterza, il quale – attraverso il nostro giornale – non solo ha raccontato la genesi del libro (ai margini delle celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia), ma ha anche chiosato gli attacchi allo storico piemontese definito un razzista, derubricandoli a forme di leghismo rovesciato. Non l’avesse mai fatto! Prese carta e penna (si fa per dire), i neoborbonici sono tornati all’attacco per sfidare a duello – verbale – Barbero e Laterza. E il guanto è stato raccolto: «Il professore è a Parigi per presentare il suo libro Lepanto. La battaglia dei tre imperi ma è pronto al confronto – afferma l’editore – e lo siamo anche noi. Potevamo lasciar perdere tutto e invece non vogliamo affatto sottovalutare chi è portatore di pregiudizi rovesciati, chi è alfiere di quella che può essere definita subcultura: preferiamo discutere apertamente e pubblicamente, coinvolgendo anche storici importanti, perché ci sembra utile. E un po’ anche divertente».

NEOBORBONICI E LEGHISTI – La sfida è stata lanciata con questo messaggio: «Il professor Barbero ha affermato di avere finalmente riportato la verità sui fatti di Fenestrelle e, nello stesso tempo, ha utilizzato una terminologia offensiva e del tutto inappropriata in un contesto da dibattito storiografico definendo i “neoborbonici” artefici di “strumentalizzazioni non si sa quanto in buona fede”, con “invenzioni a uso e consumo delle passioni e degli interessi del presente” mescolando citazioni dal “mare magnum” di internet, fonti archivistiche, passi della Civiltà Cattolica (la rivista dei Gesuiti prima artefice delle “menzogne”) e brani dei (documentati) testi di Del Boca, Izzo, Di Fiore o Aprile (“spudorate reinvenzioni”, “furibonde mistificazioni” con libri “incredibilmente pubblicati da case editrici nazionali” fino addirittura all’affermazione che chiude lo stesso libro con l’invito a non “stravolgere il proprio passato per fini immondi” a p. 316). E se per l’editore Laterza i commenti qui pubblicati rappresentano “la deriva neoborbonica, altra faccia della medaglia leghista” (ma nessuno ha mai visto un “neoborbonico” candidato da circa… 150 anni), questo “stile” di Barbero, a quale deriva si potrebbe collegare e quali reazioni poteva suscitare?».

DIBATTITO DECENNALE – Già, quali? Eccole: «Il Movimento neoborbonico ha inviato al professor Barbero una richiesta di sfida/dibattito (interventi alterni di 3 minuti con clessidra, possibilità di utilizzare “testimoni” e documentazione, luogo e ora da definire) dopo quanto sostenuto nel testo e nei suoi recenti interventi». Tutto questo perché la questione di Fenestrelle – per chi non lo conoscesse: è un piccolo Comune incassato tra i verdissimi monti piemontesi, lungo il fiume Chisone – e dei soldati borbonici che, sconfitti a Capua, furono portati nel forte dopo aver rifiutato l’arruolamento nelle vittoriose truppe savoiarde, è ancora «al centro delle decennali ricerche» dei neoborbonici, i quali custodiscono anche «documenti inediti e ignorati da Barbero».

VINCITORI E VINTI – Sarà, ma basta scorrere le due pagine dedicate alla bibliografia, dove vengono citati 27 testi, per capire che la tesi dello storico ha comunque solide basi, rafforzate anche dallo studio di documenti conservati a Fenestrelle, dove non morirono 8000 giovani, dove non furono sterminati 40mila ragazzi – come sostenuto durante una cerimonia ai piedi del forte – ma certamente si manifestò anche drammaticamente «l’alterigia dei vincitori… espressione spesso di culture allora assai lontane tra loro, aggravata anche dai giornali clericali che soffiavano sul fuoco», scrive Stajano. Insomma, sarà tenzone storica, mentre Beppe Grillo, in un certo senso nel solco dei neoborbonici, suggerisce alla Sicilia di staccarsi dalla Penisola, cioè dal resto dell’Italia.

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Inserito su www.storiainrete.com il 18 ottobre 2012

 

29 Commenti

  1. Resta il fatto che i soldati Duosiciliani furono portati a Fenestrelle che non e’ certamente un albergo. A fare che? Il Regno Delle Due Sicilie non fa parte dell’italia, quindi perche’ questi soldati avrebbero dovuto essere arruolati in tale esercito? 151 anni di colonialismo bastano e avanzano, e’ inutile che la massoneria padana continui ad avvalersi della consulenza di scrittori salariati. Dopo giorgio bocca ecco alessandro barbero. piemontesi che hanno conquistato le Due Sicilie con un atto piratesco con l’aiuto della massoneria inglese e delle potenze europee.

  2. La teoria del Risorgimento massonico è totalmente erronea. Il grande storico Gioacchino Volpe affermò che dopo la caduta di Napoleone in Italia «la massoneria si era addormentata quasi nella sua generalità; che fra massoni e carbonari non c’era nessun rapporto o poco rapporto, che molti carbonari rifiutarono nettamente di essere considerati massoni». Essa «cominciò a risorgere verso il ’60 e solo da allora riprese a tessere la sua rete. In questi 40 anni intermedi, la sua azione fu, in ordine al Risorgimento italiano, insignificante o nulla. Molti, i più dei patriotti, non erano massoni. Molti, fieri nemici di massoneria». D’altronde, è soltanto nel 1870 che viene meno formalmente la proibizione d’appartenere alla massoneria nel regno d’Italia: tale divieto era sempre rimasto in vigore già nel precedente regno di Sardegna. A conclusioni analoghe giunge anche l’altro importante storico della massoneria italiana Fulvio Conti, professore di storia contemporanea all’Università di Firenze, in “Gli Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni”.
    Il miglior studio d’insieme sul rapporto fra massoneria e Risorgimento resta probabilmente quello di Alessandro Luzio, «La Massoneria e il Risorgimento italiano», articolato in due ponderosi volumi con amplissimi riferimenti documentari. Il Luzio parlava recisamente del “Risorgimento massonico” quale un mito creato assieme dai massoni e dai clericali, entrambi interessati, anche se con ragioni opposte, ad attribuire alle logge massoniche un ruolo nell’Unità che invece non ebbero. Le associazioni segrete (i carbonari, la Giovane Italia ecc.) ebbero scarsi e deboli rapporti con la massoneria ed i vertici dello stato sabaudo ne erano pressoché estranei.
    I monarchici unitari non erano praticamente mai massoni, a cominciare da Vittorio Emanuele II e Cavour, che rifiutarono ogni rapporto con le logge. Neppure Mazzini era massone ed anzi criticò la massoneria. Comunque, la grande maggioranza dei mazziniani non erano affatto massoni. Garibaldi fu massone, ma solo per pochi anni, prima di lasciare volontariamente l’associazione.
    Inoltre, i massoni era divisi fra i favorevoli all’Unità ed i contrari. Ad esempio, erano massoni anche il cardinal Antonelli, il ministro degli esteri e l’eminenza grigia di Pio IX (l’Antonelli cenava col barone Rothschild, con cui aveva una regolare corrispondenza epistolare) ed il ministro della polizia di due sovrani borbonici, il Del Carretto. Un noto massone, sostenuto politicamente dalle logge, era Napoleone III, che inviò una spedizione militare a schiacciare la Repubblica Romana ed a riportare sul trono Pio IX, che poi impedì a Garibaldi di marciare su Roma nel 1860, ed ancora al momento dei fatti d’Aspromonte, ed ancora a Mentana: insomma, l’imperatore francese grande protettore dello stato pontificio era un massone. Era stato massone anche Joseph de Maistre, il pensatore padre del movimento politico reazionario, ultracattolico.
    Bisogna ancora aggiungere che la massoneria non esiste: esistono le massonerie, anche piuttosto diverse fra loro e ben poco, o talvolta nulla, coordinate reciprocamente. I massoni nel periodo compreso fra il 1815, ovvero la Restaurazione, ed il 1870, erano in Italia pochissimi e privi di capacità e fini “cospirativi”. Marco Meriggi, nel suo studio “Il regno Lombardo-Veneto” (Torino 1987), così descrive la massoneria posteriore al 1815: “le logge massoniche non si presentavano più come raggi di una società segreta di ispirazione rivoluzionaria, bensì come innocue sedi di riunione di un ceto professionale che dell’adesione, anche sul piano rituale, al regime aveva fatto la propria ragione d’essere”. (p. 12)

  3. Non è neppure vero che l’Unità d’Italia sia stata voluta da potenze straniere. UK e Francia in realtà non la volevano, come dimostrano i documenti. La verità è che ad essere un protettorato straniero era il regno delle Due Sicilie e che lo fu per tutta la sua storia.

    1) UN PROTETTORATO DELLA SPAGNA. LA CONQUISTA BORBONICA DELL’ITALIA MERIDIONALE
    La fondazione del dominio borbonico in Italia meridionale e la sua prima fase di regno sotto Carlo III videro il reame divenire un protettorato spagnolo.
    Carlo III conquistò con la forza il Mezzogiorno servendosi d’una armata di venuta costituita da mercenari d’ogni paese, anzitutto però ispanici. L’invasione avvenne durante la guerra di successione polacca e fu motivata su basi puramente dinastiche, legate alla spartizione dell’eredità del defunto ramo degli Asburgo di Spagna.
    Carlo III era un uomo in tutto e per tutto spagnolo, anzi castigliano, che dopo aver conquistato il regno con un’armata per così dire internazionale si circondò di stranieri, fra cui molti collaboratori spagnoli. Dopo aver regnato per alcuni anni, essendogli stata offerta la corona di Spagna, preferì tornare nel paese natale.
    Non credo che vi sia nulla di cui discutere: un regno nato dalla conquista di un sovrano spagnolo, ottenuto con l’ausilio di soldati spagnoli, circondato da collaboratori spagnoli, che infine preferì tornare in Spagna.

    2) UN PROTETTORATO DELLO STATO DELLA CHIESA. LA CHINEA E L’INGERENZA DELLA CHIESA
    Carlo III continuò a considerare il regno di Napoli un vero e proprio feudo del papa. L’Italia meridionale è stata giuridicamente un FEUDO del papa dal 1059, anno in cui il pontefice Niccolò II ricevette l’omaggio feudale di Roberto il Guiscardo, sino a Ferdinando I di Borbone, quindi per quasi sette secoli. Tale rapporto feudale è anzi molto ben conosciuto dagli storici, specialmente i medievisti, per la sua lunghissima durata e particolarità.
    Il rapporto feudale prevedeva anche un regolare tributo annuo al pontefice, oltre ad una serie di prerogative e privilegi riconosciutegli nell’amministrazione dei vari “regni” che si sono succeduti ecc. L’omaggio feudale al pontefice prevedeva una forma precisa, la cosiddetta “Chinea”. La “Chinea” era una mula bianca ammaestrata ad inginocchiarsi davanti al papa in segno di sottomissione e omaggio del sovrano meridionale verso il pontefice. Essa era accompagnata dall’offerta di un vaso d’argento contenente (da una certa epoca) 7000 ducati, come pagamento del censo per il regno di Napoli. Il rituale avveniva di solito alla data del 29 di giugno, vigilia della festa di San Giovanni e Paolo. L’omaggio feudale della “Chinea”, espressione della condizione di feudo papale del regno di Napoli verso il papa, durò dal 1059 sino al 1788, quando infine fu abolita.
    Si noti che il papa protestò per l’abolizione dell’omaggio feudale (avvenuta soltanto nel 1788) e continuò a farlo, ininterrottamente, sino al 1858. Ancora Pio IX rivendicò le sue prerogative feudali sul regno delle Due Sicilie. Esiste ancora una lettera autografa del Cardinale Antonelli, il Segretario di Stato di Pio IX, in cui esprime il suo disappunto per la cessazione dell’omaggio feudale plurisecolare. Essa recita: “protesta solita emettersi ogni anno nella basilica Vaticana nella vigilia dei SS Apostoli Pietro e Paolo, a motivo della non adempita presentazione della Chinea”. Data: 25 giugno 1855. Essa è citata per esteso nella biografia di Pio IX scritta dal sacerdote gesuita Giacomo Martina.
    L’abolizione della “chinea”, quindi la fine formale della condizione ufficiale e riconosciuta del reame borbonico come FEUDO del papa non pose certo termine all’ingerenza dello stato della chiesa. Il clero controllava funzioni pubbliche importanti come l’istruzione, la censura, l’anagrafe. Inoltre, esso aveva un potere economico enorme. I trentanove ordini monastici mendicati e possidenti maschili contavano, secondo una statistica del 1848, oltre 12.000 membri e possedevano 848 case, con un patrimonio stimato in quasi 40 milioni di lire dell’epoca. Gli ordini religiosi femminili, in assenza di precise statistiche, venivano calcolati in tredici, con 250 case e circa 5000 componenti. L’episcopato meridionale annoverava venti arcivescovi e sessantasette vescovi, col possesso d’un patrimonio valutato in superiore ai 39 milioni di lire del tempo. Esisteva in media un vescovo su 70.000 abitanti, mentre la Francia nello stesso periodo ne contava uno su 437.000. (Franco Molfese, “Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano 1962, pp. 75-76)

    3) UN PROTETTORATO DELL’INGHILTERRA
    A) L’Inghilterra adoperò diverse volte la cosiddetta “diplomazia della cannoniere” (gunboat diplomacy) nei confronti del regno delle Due Sicilie, esattamente come se ne serviva nei confronti dei paesi africani od asiatici sue colonie o protettorati. Questo avvenne diverse volte nella storia del regno borbonico: sotto Carlo III, sotto Ferdinando I, sotto Ferdinando II. Ad esempio, sotto Carlo III una flotta britannica si spiegò al largo di Napoli ed impose al re di recedere dall’alleanza con la Francia. Sotto Ferdinando I la minaccia della marina britannica fu decisiva nello spingere al conflitto con la Francia napoleonica. La situazione non cambiò poi di molto sotto i sovrani successivi. Ad esempio, nel 1840 la flotta inglese impose a Ferdinando II il mantenimento in mani inglesi del monopolio degli zolfi siciliani, mediante la cattura delle navi mercantili delle Due Sicilie. Era in programma un altro intervento analogo nel 1855, che avrebbe dovuto portare questa volta all’abdicazione del “re bomba” mediante una minaccia direttamente su Napoli, ma la regina Vittoria si oppose.
    Quello adoperato dal Regno Unito nei confronti del regno delle Due Sicilie era esattamente lo stesso trattamento impiegato verso i vari protettorati inglesi in giro per il mondo: la notissima, coloniale “politica delle cannoniere”. Non esiste alcuna ingerenza inglese anche solo lontanamente paragonabile, già solo per sfrontatezza, nei confronti d’altri stati italiani.

    B) Dal 1806 al 1815 Ferdinando I fu un re travicello degli inglesi, visto che senza il loro appoggio politico e militare non poteva esistere come sovrano neppure nei ristretti confini della Sicilia. L’isola era tutto ciò che era rimasto del suo regno ed era difesa dalle armate napoleoniche soltanto dalla flotta inglese, che controllava lo stretto di Messina.
    La costituzione del 1812 fu voluta dal regno unito ed accettata contro voglia da Ferdinando I. Da una lettera di Maria Carolina ( gennaio 1808 ) indirizzata al conte Damas si evince con chiarezza che i Borboni erano solo dei re fantoccio nelle mani degli inglesi: “Gli inglesi sono padroni ben pesanti e incomodi, e noi siamo ridotti a dovere cedere in tutto”. Il governo borbonico doveva rendere conto delle quattrocentomila sterline che ogni anno arrivavano dall’Inghilterra in Sicilia e che dovevano essere spese solo in armamenti. Gli inglesi decidevano anche chi nominare negli alti gradi dell’esercito borbonico. In pratica, il vero governatore della Sicilia era lord William Bentick.
    C) La Sicilia era stata colonizzata economicamente dagli Inglesi già nella seconda metà del Settecento (sempre sotto Ferdinando I) e tale egemonia economica sia era rafforzata ulteriormente nel 1806-1815 e durante la Restaurazione, con l’attività di grosse casate commerciali d’Inghilterra, come Woodhouse, Ingham ecc.
    D) la marina da guerra borbonica aveva “istruttori” inglesi, così come l’esercito aveva “istruttori” austriaci. Infine, perché non mancasse nulla in questo parallelismo, come esistevano ufficiali austriaci nell’esercito borbonico, così anche ufficiali inglesi a capo di navi borboniche.

    4) UN PROTETTORATO DELL’AUSTRIA
    L’Austria esercitò una forte ingerenza sul reame borbonico dalla fine del Settecento sino alla sua fine nel 1860, in una pluralità di modi.
    A) anzitutto, il matrimonio di Ferdinando I con Maria Carolina, della casata degli Asburgo d’Austria, fece sì che il sovrano effettivo divenisse la regina. Il “re lazzarone” era assieme ignorantissimo (si definiva “un asino”, era semianalfabeta e parlava soltanto il napoletano, nella variante del gergo dei “lazzaroni”) e disinteressato al governo, visto che le sue preoccupazioni principali erano le avventure amorose e la caccia.
    Maria Carolina perseguiva gli interessi dell’Austria, non del regno borbonico, che egli disprezzava, al punto da circondarsi di preferenza come ministri, consiglieri ed aiutanti d’Italiani d’altre regioni o di stranieri ad ogni effetto. La due disastrose decisioni di muovere guerra alla Francia, nel 1798 e poi nel 1805 furono dovute alla volontà della regina, che così intendeva aiutare la guerra dell’Austria contro le forze francesi. Fra gli altri, Vincenzo Cuoco osserva che “La regina spiegò il piú alto disprezzo per tutto ciò ch’era nazionale. […] Ci vedemmo inondati da una folla di stranieri, i quali occuparono tutte le cariche, assorbirono tutte le rendite senz’avere verun talento e verun costume, insultarono coloro ai quali rapivano la sussistenza.” Ad esempio, il comandante in capo dell’esercito borbonico divenne un austriaco, il generale Mack.
    La posizione di Maria Carolina come sovrano effettivo del reame borbonico (o bisognerebbe dire piuttosto “asburgico”) segnò il declino della vecchia camarilla “spagnola”, che aveva dominato dai tempi di Carlo III, e della sua sostituzione con una di austriacanti.
    La situazione si ripresentò non troppo differente nel 1859, alla morte di Ferdinando II. Francesco II, privo d’intelligenza ed energia, era completamente manipolato e plagiato da una triade costituita dalla matrigna (austriaca), dalla moglie (bavarese e sorella della moglie dell’imperatore Francesco Giuseppe) e dall’ambasciatore d’Austria, che controllavano la politica del regno con la propria consorteria.

    B) dopo il 1815, l’impero asburgico forniva all’esercito borbonico gli ufficiali addestratori (figure simili, mutatis mutandis, a coloro che oggigiorno sono definiti eufemisticamente “consiglieri militari”). Inoltre, dopo il licenziamento dei mercenari svizzeri, ritenuti le truppe migliori e più fidate dell’esercito borbonico (che però si erano ammutinate … le più fedeli, costituite da mercenari stranieri!), comparirono nell’esercito borbonico dei reparti detti di “bavaresi”, che erano invece costituiti in prevalenza da austriaci già militari delle armate imperiali asburgiche, e prestati al sovrano borbonico sia per aiutare un alleato, sia per assicurarsene il controllo. Di fatto, Vienna aveva sue unità militari alle pendici del Vesuvio.

    C) Lo stato borbonico aveva due banche ufficiali, il Banco di Palermo ed il Banco di Napoli, il più importante. Quest’ultimo aveva il potere di stampare moneta, ma non era controllato dal sovrano borbonico, bensì da una famiglia notissima, d’origine austriaca: i Rothschild. Il ramo austriaco dei Rothschild fu per lunghissimo tempo, dal Settecento sino al 1866 ed oltre, il principale finanziatore dell’imperatore d’Austria ed assieme una cinghia di trasmissione della sua politica imperiale. Come avvenne questa presa di possesso dei Rothschild sul Banco di Napoli?
    Ferdinando I aveva dovuto accettare la costituzione voluta dai suoi sudditi, ma, sebbene avesse giurato fedeltà alla carta costituzionale, non aveva intenzione di mantenere la parola data. Egli si recò a Lubiana a colloquio col Metternich e richiese l’intervento armato dell’Austria contro il suo stesso popolo. Il primo ministro austriaco accettò, ma pose precise condizioni.
    La spedizione militare del 1821 con cui l’Austria marciò sul regno delle Due Sicilie, su invito del suo stesso sovrano, per abrogarvi la costituzione, fu finanziata dal barone Rothschild. Dopo il 1821, una parte consistente dei contingenti militari asburgici giunti a Napoli per stroncare la rivoluzione costituzionale rimase acquartierata nel regno borbonico, a carico dell’erario e dei contribuenti locali.
    Da allora, le finanze dello stato delle Due Sicilie furono affidate ai Rothschild, che Metternich aveva imposto a Ferdinando I in cambio dell’intervento militare. In sostanza, il sovrano chiese che l’Austria reprimesse la costituzione ed in cambio accettò sia che le spese dell’occupazione militare austriaca fossero accollate alle casse borboniche, sia che l’amministrazione finanziaria del regno fosse controllata dai Rothschild, la longa manus della politica asburgica, permettendo quindi che il suo stato divenisse a sovranità limitata. Inoltre, il controllo finanziario di quest’ultimo sul “Banco di Napoli” concedeva indirettamente all’Austria un’ingerenza stretta nel bilancio e quindi nella politica del governo borbonico.
    [cfr. Maria Carmela Schisani, How to make a potentially defaulting country credible: Karl Rotschild, the Neapolitan debt and financial diplomacy ( 1821-26), in “Rivista di Storia economica”, XXVI, n.2. agosto 2010, pp. 233-277.]
    Quando Garibaldi giunse a Napoli, fra i suoi provvedimenti vi fu quello di confiscare la quota azionaria di proprietà del Rothschild e nazionalizzarla. Tale provvedimento fu dovuto, perché il Banco era controllato da un privato, straniero e per di più longa manus del governo imperiale, ostilissimo all’Italia. Si noti però che tale decisione riguardò appunto i beni finanziari del barone Rothschild e che il beneficiario fu lo stato italiano. Gli Italiani quindi, meridionali inclusi, non persero un centesimo da tale esproprio, anzi furono collettivamente arricchiti dalla nazionalizzazione della quota azionaria di controllo del “Banco”, in precedenza in mano ad un banchiere austriaco.

    5) L’ASSENZA INTERNA DI SOVRANITA’. FEUDALESIMO E CRIMINALITA’ ORGANIZZATA
    Si dovrebbe ancora parlare, in maniera MOLTO approfondita, dell’assenza di sovranità INTERNA del reame borbonico, ossia della presenza di forze assai potenti, interne però e non esterne, che minavano la sovranità del governo:
    1) il potere feudale
    2) il brigantaggio
    3) le mafie
    Con tutti e tre questi tipi di potere, anteriori alla stessa nascita del regno borbonico e molto radicati, i sovrani borbonici vennero a patti, concedendogli larghi spazi di tolleranza ed accettando alleanze.
    Basti comunque osservare che il regno delle Due Sicilie, non diversamente dai vari protettorati e colonie che esistevano nel mondo di allora, era dominato da potenze straniere, che ne controllavano le finanze, le forze armate, la politica estera. Infatti, la forma “classica” di protettorato è proprio questa: uno stato in cui le finanze, le forze armate, gli esteri sono dominate da un altro stato, straniero. I secoli XVIII-XX hanno visto moltissimi esempi simili, specialmente in Africa ed in Asia.

  4. ” Il grande storico Gioacchino Volpe affermò che dopo la caduta di Napoleone in Italia «la massoneria si era addormentata “. Ma quale grande storico! Volpe era un “lecchino” dei Savoia “piemontesi”, insignito dell'”Ordine Civile dei savoia” , per poi “traghettare” nei “fascisti”.

    ” Carlo III era un uomo in tutto e per tutto spagnolo, anzi castigliano, che dopo aver conquistato il regno con un’armata per così dire internazionale si circondò di stranieri, fra cui molti collaboratori spagnoli. Dopo aver regnato per alcuni anni, essendogli stata offerta la corona di Spagna, preferì tornare nel paese natale.
    Non credo che vi sia nulla di cui discutere: un regno nato dalla conquista di un sovrano spagnolo, ottenuto con l’ausilio di soldati spagnoli, circondato da collaboratori spagnoli, che infine preferì tornare in Spagna.” Quante inesattezze in queste parole: Anzitutto Carlo Sebastiano di Borbone a Napoli era Carlo VII anche se non si fece mai chiamare cosi. In Spagna diventò Carlo III e poi non era del tutto spagnolo (la mamma,la Farnese, era italiana e credo che tutti siano concordi nel reputare Napoli fortunata di averlo avuto come Monarca. ” si circondò di stranieri, fra cui molti collaboratori spagnoli.” Infatti!! L’abate Galiani, il famoso principe di Sansevero (reputato mago), il “toscano” Bernardo Tanucci, che poi furono i tutori del piccolo Ferdinando I (e IV) erano stranieri!!
    “Dopo aver regnato per alcuni anni, essendogli stata offerta la corona di Spagna,…” Regnò per alcuni anni e cioè per ben 24 anni (se questi sono alcuni anni!). Dopo Carlo VII tutti i Borbone che regnarono a Napoli, erano tutti Italianin nati o a Napoli, o a Palermo, quindi Italiani più dei “sardo-piemontesi” che parlavano ,scrivevano ed erano i ” cagnolini” dei francesi.!
    Mi fermo qui, Marco, perchè vedo che tu vuoi scrivere la storia, ma la “tua storia”. Basta! nupo da Napoli.
    r

  5. Carlo di Borbone dopo l’invasione e la conquista dell’Italia meridionale si dedicò più ai propri piaceri personali anziché al governo ed all’amministrazione delle terre di cui si era impossessato. Il suo passatempo preferito era la caccia, a cui riservava la maggior parte del proprio tempo: “Però il gran da fare ordinario della Corte, la cura più assidua, la fatica più diurna consisteva nelle cacce del re. Assai poco egli si tratteneva nella capitale, e quel poco era inframmezzato dalle “campagne” o “giornate” di caccia nei luoghi immediatamente vicini. C’eran poi i men vicini e lontani, e quindi moto continuo di viaggi.” Per far ciò, il sovrano si trasferiva senza sosta fra le sue molte residenze di caccia: Torre di Guevara, Bonino, Venafra, Procida, Portici, Persano … [M. Schipa, “Il regno di Napoli al tempo di Carlo Borbone”, Napoli 1904, p. 290.]
    Una delle molte riserve venatorie create da questo sovrano per proprio diletto era stata fondata sull’isola di Procida. Questo avvenne dopo che il re ebbe confiscato le proprietà di Michelangelo D’Avalos, marchese di Vasto e signore dell’isola. Il sovrano impose inoltre agli isolani d’allevare fagiani. Scrive M. Schipa: “A tal fine due magistrati […] D. Matteo de Ferrante e D. Domenico Caravita, presidenti della R. Camera della Sommaria, onorati del grave compito, distribuirono fra parecchi isolani i fagiani avanzanti con l’obbligo di custodirli, alimentarli, esibirli ad ogni richiesta, pena ducati 20 per ogni capo mancante.”
    Il re impose inoltre pene severissime per l’uccisione d’un animale da caccia, che egli voleva riservato a sé: “Per l’uccisione di un fagiano, di un coniglio o altra bestia da caccia, decretarono la pena di 50.000 ducati con 7 anni di esilio pel nobile, di 100 ducati con sette anni di galera pel non nobile. Ma se l’uccisore era un ecclesiastico, in sua vece pagava e andava in galera il suo congiunto più prossimo, innocente. Severamente punito tenere cani e gatti, pel quale reato erano punibili anche gli ecclesiastici”. [M. Schipa, “Reali delizie borboniche in Napoli nobile”, in “Napoli Nobilissima”, n. s., 111, 1922]
    Siccome Carlo di Borbone voleva anche evitare che la cacciagione venisse attaccata da altri animali, egli proibì agli abitanti dell’isola di tenere con sé cani e gatti. Il risultato fu una grande proliferazione di topi.
    Anche Alexandre Dumas nella sua storia “I Borboni di Napoli” (Napoli 1864), scritta ricorrendo ad una notevole molte di documenti d’archivio, racconta il celebre o famigerato episodio, con le sue drammatiche conseguenze. Dopo aver ricordato che “Carlo III aveva una passione che dominava tutte le altre, la caccia […], che induriva il suo cuore, e che oscurava il suo spirito”, egli aggiunge che “siccome i gatti erano i nemici naturali dei fagiani grossi e piccoli, egli ordinò l’estirpazione della razza felina in tutta l’isola di Procida”. Il risultato fu un dilagare di topi, che giunsero a sbranare vivo un bambino in fasce: “I gatti non essendo più là per distruggere i sorci, ed i topi, questi pullulavano, e divennero audaci tanto, che un bambino nella culla fu divorato da essi.”
    Dopo questo tragico evento, ne avvenne un altro che portò alla rivolta gli isolani: “Questo fatto che avea diggià contribuito ad esasperare gli abitanti di Procida, coincise con un altro che non era tale calmarli. Un uomo il quale malgrado l’editto del suo re, avea conservato il suo gatto, sia per affezione a quello, sia per odio ai sorci, fu denunciato, imprigionato, convinto e condannato alla frusta per mano del carnefice; fu fatto andare per l’isola col suo gatto appeso al collo e venne mandato poscia alle galere.” Davanti alla condanna alle galere, quindi a fungere da rematore incatenato al remo, d’un uomo colpevole solo d’aver tenuto con sé il proprio piccolo felino, gli abitanti di Procida giunsero ad insorgere ed a minacciare che, se l’editto non fosse stato revocato, avrebbero chiesto aiuto ai pirati barbareschi “meno crudeli, secondo loro, d’un re che lasciava mangiare i loro figli dai topi, piuttosto che correre il rischio di veder mangiato dai gatti uno dei suoi fagiani” (A. Dumas, “I Borboni di Napoli”, pp. 56-57).

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