di Ernesto Galli della Loggia dal Corriere della Sera del 4 agosto 2014
Non a caso le altre due grandi interpretazioni di quell’evento che in contemporanea ad esso videro la luce – quella del presidente americano Wilson che considerava la guerra come l’ultimo scontro tra la libertà dei popoli da un lato e la tirannide della Realpolitik dall’altro, e quella di Lenin che vi vedeva invece una semplice lotta intestina al capitalismo imperialista, anticamera della rivoluzione mondiale – entrambe quelle due visioni sono ormai solo roba d’archivio. Sì, dappertutto ha vinto l’«inutile strage».
Per averne conferma basta pensare al tono e ai contenuti delle commemorazioni centenarie che ormai s’infittiscono anche in Italia. È tutto un ricordo delle cecità dei politici di quegli anni, delle bugie della propaganda, degli orrori delle trincee, della crudeltà degli ordini, dei disagi disumani della vita quotidiana, della carneficina degli assalti, delle mutilazioni. E insieme, naturalmente, è tutta un’analisi critica della retorica, dei miti, delle lugubri cerimonie del lutto che allora e dipoi fiorirono, dei cimiteri di guerra, dei monumenti ai militi ignoti e non, sparsi dappertutto. Tutto un ripescaggio di diari strazianti. Solo questo insomma sembrerebbe che fu quel conflitto per gli europei di oggi. Solo ciò appare meritevole di essere ricordato.
In questo modo siamo indotti a vedere nella guerra che oggi ricordiamo null’altro che un puro e semplice insieme di negatività che cancellano tutto il resto. Cancellano, tanto per dirne qualcuna, l’acquisita indipendenza di tre o quattro nazioni europee, il definitivo tramonto di ceti sociali, come l’aristocrazia, abituati a un secolare dominio, un senso nuovo di cittadinanza e di mobilitazione politica diffusa tra milioni di soldati provenienti dalle classi popolari, la nascita di nuovi formidabili fermenti di autonomia tra i popoli e le élite dall’Anatolia al Golfo Persico, al Nilo. Perché è vero, tutte le guerre sono un’«inutile strage»: ma si dà il caso che esse abbiano quasi sempre il notevole effetto di cambiare il mondo. Ed è per questo che meritano di essere ricordate e studiate da quella cosa che si chiama storia.
Ma studiate storicamente, appunto. Non già nel modo in cui noi stiamo ricordando la Grande Guerra, nel quale si riflette quasi esclusivamente la nostra temperie culturale di oggi. E oggi la dimensione della potenza come cuore e strumento della politica ci appare una bestemmia. Oggi non ci curiamo più di Stati, di popoli e di nazioni e dei loro eventuali diritti, dal momento che i soli diritti che c’interessano sono quelli dell’individuo: cosicché, imbevuti di essi, ogni costrizione e ogni disciplina ci appaiono insensate e disumane, comunque sempre inutili. Così come sempre inutile e disumana ci appare oggi in particolare la morte, a cominciare da quella «naturale», e dunque figuriamoci ogni altra. Sempre per effetto di tutto questo, la guerra è anche completamente uscita dal nostro orizzonte pratico ed emotivo se non come male assoluto. Siamo pronti a credere che perciò essa debba essere semplicemente messa al bando e giudicata un crimine; del pari accarezziamo l’idea – provi ognuno a decidere dentro di sé quanto realistica – che possa esistere un mondo senza conflitti, ovvero che tutti i conflitti potrebbero essere risolti pacificamente se solo ci fossero un po’ di buona volontà ed un adeguato arbitrato internazionale.
Questa è l’ideologia che attualmente ci domina: intrisa di individualismo e di umanitarismo, molto cosmopolita e razionalista, molto politicamente corretta. Ma se è vero che ad ogni fatto del passato non possiamo che guardare con i nostri valori, è pur vero che tale prospettiva dovrebbe però trovare il suo limite nella capacità di calarci nel passato stesso, di storicizzare, come si dice. Cioè di non giudicare meccanicamente le cose di ieri con il metro di oggi. Ai milioni di morti della Grande Guerra e al loro sacrificio almeno questo lo dovremmo.