Home Risorgimento “Finalmente, una Patria comune e una bandiera comune”

“Finalmente, una Patria comune e una bandiera comune”

Ho letto con la dovuta attenzione sia l’articolo di Ugo Finetti del 18 settembre («C’era l’Italia anche prima del Risorgimento») sia l’articolo di Giordano Bruno Guerri del 5 settembre («Il Risorgimento? È zoppo, ora gli storici lo riscrivano»). Due testi interessanti e intelligenti. Guerri ha ragione nel sottolineare che il brigantaggio meridionale non fu né un fenomeno marginale né un fenomeno delinquenziale in senso stretto.

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di Mario Cervi, da Il Giornale del 21 settembre 2009

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Fu una rivolta di massa sociale e politica. Finetti ha ragione nel sottolineare che vi furono importanti realtà regionali, pur improntate a una coscienza unitaria, ben prima che nascesse lo Stato italiano. La lingua «disegnava una comunità che si articolava e si consolidava da Milano a Palermo nella letteratura, nell’arte, nella ricerca scientifica». La storia d’Italia – questa in sintesi la tesi di Finetti – non inizia nel 1861.
Tutto vero. Ma l’Unità è del 1861: di quello soprattutto, nell’imminenza di celebrazioni solenni, dobbiamo discutere. Molti autori – oltre ai due citati – insistono sulle ombre che hanno contrastato le luci del Risorgimento. Per quanto mi riguarda la smitizzazione e dissacrazione dell’Unità è non solo legittima ma necessaria. Tutti i grandi eventi della storia hanno avuto la caratteristica d’intrecciare il nobile all’ignobile, e anche al feroce.

Basta pensare alla Rivoluzione francese o al processo di formazione degli Stati Uniti. Anche l’insistere sui difetti che i protagonisti degli eventi ebbero non mi scandalizza per niente. Semmai, per quanto concerne in particolare uno di quei protagonisti Cavour, mi sembra che i suoi detrattori cadano in contraddizione quando lo trattano a male parole dopo aver spiegato in lungo e in largo che l’esercito piemontese era pessimo, che Vittorio Emanuele II era uno zoticone, che Garibaldi – niente da ridire – aveva a volte tratti pagliacceschi. Ma se il conte riuscì a fare l’Italia in quelle condizioni doveva proprio essere un genio.
Non concedo nulla, dunque, alle narrazioni edulcorate e impennacchiate di certi testi scolastici. Sono da buttare. La realtà fu diversa. Ma nella attuale disputa sull’Unità si è superato, a mio avviso, un limite che consideravo invalicabile (tranne che per qualche nostalgico dell’ancien régime): si nega cioè che il Risorgimento, con tutte le sue pecche e con tutti i suoi limiti, sia stato un momento positivo della storia d’Italia, un passaggio epocale dall’«espressione geografica» all’entità e alle dimensioni di uno Stato. Gravato, s’intende, da problemi immani e irrisolti. Ma finalmente una Patria comune e una bandiera comune.

La contestazione che sempre più prende piede pretende di riscrivere il Risorgimento non per depurarlo della retorica che gli si era appiccicata e per restituirlo alle sue connotazioni autentiche, ma per bollarlo come il male. Allora bisogna intendersi. Se quel punto di vista acquisisce credito, e trova udienza perfino nelle sedi istituzionali, tanto vale non celebrare nulla. O al più si celebri una messa da requiem in memoria del defunto. Su questo punto, che è fondamentale, deve venirci dai Palazzi romani una parola chiara. Dobbiamo depennare dall’elenco dei padri della Patria coloro che abbiamo considerato tali (e che tali secondo me rimangono)?
In provincia, ma la provincia non di rado può dare lezioni a Roma, non si sono ancora rassegnati a questo revisionismo totale. Proprio oggi, a Saluzzo, si apre una manifestazione, indetta dal centro europeo Giovanni Giolitti, dall’ufficio storico dello Stato Maggiore dell’esercito, e dall’Istituto italiano per gli studi filosofici (Napoli), avente lo scopo di onorare le forze armate. Saranno presentati saggi uno dei quali, di Maria Grazia Greco, si occupa de Il ruolo e la funzione dell’esercito nella lotta al brigantaggio (1860-1868). Da quelle forze armate che solo nel 1879 assunsero il nome di «regio esercito italiano» sono venute generazioni di soldati, e centinaia di migliaia di caduti, gli ultimi in Afghanistan.

Scrive Aldo A. Mola in una sua relazione al convegno: «A differenza di quanto troppo spesso è stato detto, la caserma non fu affatto dominio di gretta e perfino spietata disciplina. Politici, storici e sociologi avveduti concordavano nel constatare che dopo il servizio militare i giovani tornavano solitamente migliori di com’erano partiti. Di solito venivano assegnati lontano da casa. Scoprivano mondi, lingue, costumi, mentalità diverse dalla loro e maturavano. Tornavano cittadini». Un illuso, Aldo A. Mola? Un illuso De Amicis, Edmondo dei languori, un illuso anch’io? Può darsi. Ma se la si pensa così meglio, ripeto, darci un taglio.
Come sicuramente auspica Angela Pellicciari che attribuisce alla Chiesa – nonostante la quale e contro la quale il Risorgimento fu realizzato – tutte le possibili virtù civili oltre che religiose. Secondo lei il Risorgimento «ha portato alla negazione di tutti gli ideali di libertà e di eguaglianza, è stato una guerra di religione combattuta dall’élite massonica borghese contro la Chiesa cattolica, che rappresentava l’identità del popolo italiano e delle masse. In questo senso dico che il Risorgimento è stato antinazionale perché ha reciso le vere radici dell’identità italiana, che sono tutt’uno con la religione cattolica».
Angela Pellicciari è una studiosa seria ma anche molto militante. Immagino che per lei il Sillabo sia stato un buon documento. Oso tuttavia muoverle un’obbiezione. Anche Ahmadinejad, scagliandosi contro chi vuol ribellarsi alla clericocrazia iraniana, dice che le masse sono con l’Islam e con gli ayatollah. Magari è proprio così. Ma basta?

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Per saperne di più vedi anche

Il Risorgimento? È zoppo, è ora che gli storici lo riscrivano

Ha un nome la “piccola vedetta lombarda” di De Amicis

150° dell’Unità d’Italia: Il comitato rivede la bozza Bondi

Fratelli d’Italia in 162 anni di storia (e non li dimostra)

“Non c’é Italia senza Tricolore e senza Inno di Mameli”

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Inserito su www.storiainrete.com il 13 ottobre 2009

5 Commenti

  1. Vorrei sottoporre a questo spazio ” specialistico” un commento che ho inviato a Sergio Romano per un suo corsivo sulla ingiustificatezza di alcune riabilitazioni del Regno dell Due Sicilie. Dice Romano ( vado a memoria ) – ” Buona parte delle iniziative industriali, civili, politiche , economiche che pure vanno riconosciute come avanzate, resta oscurata dal modo di governare oppressivamente poliziesco e civicamente arretrato..E’ poi vero che molto fenomeno passato per brigantaggio fu in realtà resistenza all’invasione …” . Già l’elenco dei settori in cui quello Stato conobbe iniziative positive quando non all’avanguardia per i tempi, e l’accenno a una resistenza di tipo patriottico all’occupazione piemontese velata dallo spirito risorgimentale , sembra contraddire l’affermazione finale .
    Fino al 1799 – anno della rivoluzione giacobina – sotto il regno di Carlo III° e poi di Ferdinando I° , e durante il regno di Ferdinando II°- dal 1823 allle soglie del 1850 – sviluppi industriali manufatturieri , cantieristici, metalmeccanici , furono riconosciuti avveniristici , e navi e locomotive esportate dovunque. Era seguita e aiutata la ricerca scientifica , e Napoli ospitava convenzioni di livello europeo e anche più vasto ( e una specie di “traccia” è rimasta nel tempo, se pensiamo ai laboratori di ricerche genetiche e mediche sopravvissuti ai secoli, in mezzo alle Gomorra attuali … )L’agricoltura era gestita in modo moderno – naturalmente dobbiamo riferirci a quei tempi – e dai granai pugliesi si esportava nell’area mediterranea , e questo faceva anche di quello Stato un cerniera politica di quell’area con l’Europa. In economia erano allo stesso modo riconosciute in Europa le gestioni di uomini come il toscano Bernardo Tanucci ed il napoletano Luigi Filangieri . E nella politica interna , se gli sviluppi elencati avessero avuto il tempo della continuità, avrebbero finito per logica conseguenza con lo stabilizzare una classe media che tardava a formarsi, e una coscienza civica nelle masse popolari , che tre secoli precedenti di viceregno spagnolo non si erano curati di creare .
    Ma le date che ho indicato in apertura furono
    ” sterzate ” di interruzione e ritardo ad ogni sviluppo, costringendo regnanti – non ” raffinati” come molta parte delle altre dinastie europee ( non però i Savoia…) , con molte delle quali erano comunque apparentati – umanamente capaci di cogliere aspirazioni e pecche delle masse popolari , e abbastanza intelligenti nel promuovere nelle cariche migliori uomini di prim’ordine , a difendersi con mezzi di polizia ad essi stessi non congeniali.
    La rivoluzione giacobina fu utopistica e fece danni immensi ; più tardi i fenomeni carbonari fecero lo stesso , e in Sicilia gli inglesi da tempo appoggiavano sotto banco ogni spinta secessionistica.
    La dimostrazione dei risultati di varianti nella storia non esiste. Ma è giusto concedere ai Borbone il riconoscimento che quanto avevano creato avrebbe potuto evolversi in uno Stato ricco e civile , come tuttora il nostro sud non è , e al centro del Mediterraneo . Forse rinverdendo la ricchezza e civiltà che sei secoli prima erano state adombrate dai regni normanni e svevi.

  2. Certo, come no.
    Era così all’avanguardia che il Regno d’Italia, soltanto nel primo biennio dell’Unità (1861-1862), alla voce “Spiagge, porti e fari” mise in conto spese ingenti proprio per le provincie napoletane e la Sicilia, considerate SEPARATAMENTE, a dimostrazione di come fosse ridotta quest’ultima.
    Del resto i racconti dei miei avi siciliani non lasciano scampo: fame, malattie, violenza, analfabetismo. Solo con l’Unità d’Italia si cominciò a vedere la luce.
    La marchesa Gozzadini, che veniva dallo Stato Pontificio (non chissà da dove), nel suo viaggio nel regno delle due sicilie rimase impressionata dalle condizioni di spaventosa miseria che trovò, e le lasciò scritte in un libro.
    Cari meridionali, invece di cullarvi in sogni di gloria inesistenti, corroborati dalla creduloneria popolare, andate a ricostruire la città dell’Aquila, va là, che è meglio!
    Maria Cipriano

  3. Caro Rodrigo Normanni,
    credo che lei abbia un problema di cronologia. Esportare navi e locomotive sotto Carlo III e Ferdinando IV, poi I, sarebbe stato ovviamente impossibile. Ferdinando II regnò dal 1830 al 1859. Il primo slancio “industriale” nel Regno di Napoli si ebbe nel decennio francese: sul punto può consultare i quattro volumi della “Statistica murattiana” a suo tempo editi da Demarco. Quanto ai risultati mirabolanti ottenuti negli anni Trenta e Quaranta, la invito a leggere il volume di Alessandro Marra sulle condizioni economiche di Terra di Lavoro pubblicato da Franco Angeli.
    Dico però a Maria Cristina che se vanno condannate le favole dei neo-borbonici, non si possono dimenticare gli errori, molti e gravi, commessi dalla classe dirigente tutta intera dopo la proclamazione del Regno d’italia.
    Cordialità

  4. Chi sarà questa Maria Cristina. Spero non sia una parente neanche alla lontana di Maria Sofia, che fu vista sfidare sugli spalti di Gaeta le cannonate dei “perfidi” piemontesi giusto dai giornalisti francesi che se la inventarono.
    Errori molti e gravi del Regno d’Italia, lei dice. Forse.
    Ci fece uscire dall’ancien regime, dall’analfabetismo, dall’isolamento, dall’oppressione di un mondo chiuso senza nessuna libertà, dalla mortificazione di essere dei dispersi. In cambio ha ereditato solo guai. E adesso, anche l’ingratitudine di un popolo in completa regressione morale, culturale e politica a cui sono bastati un ventina di “nuovi storici” coccolati dai media sempre a caccia di sensazionalismi, per cambiare le carte in tavola, riesumando le stesse identiche accuse che già era note allora da parte dei nemici dell’Unità d’Italia, a cui la libertà di parola e di stampa concessa dal governo liberale dava licenza di rovesciare le più rocambolesche e ingiuriose accuse. Ne uscì fuori di tutto, anche che i “piemontesi” avevano chiuso la Zecca di Napoli e il teatro San Carlo. Ne uscì fuori che i briganti lottavano coraggiosamente per la terra, e infatti morivano tutti dalla voglia di alzarsi col canto del gallo per andare a zappare, arare e seminare: era questa la vita che agognavano, è chiaro!
    Anche l’appoggio inglese è chiaro, soprattutto se si ricava copiando pari pari la recensione di Paolo Mieli (“l’errore di Ferdinando II fu quello di inimicarsi l’Inghilterra”) al libro del professor Di Rienzo. L’ex direttore del Corriere della Sera, infatti, ama far da cassa di risonanza ai libri che ridimensionano l’enfasi Risorgimentale che tanto lo infastidisce, e il libro del prof. Di Rienzo -per quanto lui abbia preso decisamente le distanze da tutti i neoborbonici-, risponde a questo requisito, il quale è fondamentale affinchè il dottor Mieli si slanci nell’acritica accettazione delle tesi che smorzano l’insopportabile “vulgata risorgimentale”. In tal caso è di turno il conclamato appoggio dell’Inghilterra, la quale in vita sua non appoggiò altri che sè stessa, come ben sa la Storia. Il fatto è che non intervenne nessuno a tentare di fermare il nostro Eroe Garibaldi, nessuno si prese questa responsabilità: nè l’Austria che poteva benissimo attaccare, nè la Francia nè la Russia nè la Prussia. Si risolse tutto, come disse il Cavour, con “quattro fulmini caduti qui e là”.
    C’era poco da scegliere, infatti: o la soluzione moderata del conte di Cavour, oppure la rivoluzione. Non c’era altra via d’uscita per l’Europa.
    Maria Cipriano

  5. Mi scuso con Maria Cipriano per aver modificato il suo nome nel precedente commento. Devo però insistere sugli errori commessi non dal Regno d’Italia ma dalla classe dirigente post-cavouriana che del conte non aveva purtroppo nè la duttilità nè la capacità politica. Non mi dilungo su quali siano stati: la storiografia ne ha ampiamente discusso.
    Su Paolo Mieli concordo, e quanto alle favole neoborboniche (dal Regno delle Due Sicilie terza potenza industriale a Garibaldi ladro di cavalli, alla decennale chiusura delle scuole nell’Italia meridionale) cerco di smontarle in tutte le sedi che posso praticare: devo ammettere che è abbastanza facile.
    Cordialità

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