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Fenestrelle e il genocidio (inesistente) dei borbonici

Quanti furono i prigionieri di guerra borbonici e papalini che morirono al forte San Carlo di Fenestrelle tra il 1860 e il 1865, dopo il crollo del Regno delle Due Sicilie e la proclamazione del Regno d’Italia? Per Juri Bossuto e Luca Costanzo, autori del saggio “Le catene dei Savoia”, in uscita a settembre con l’Editrice Il Punto-Piemonte in Bancarella, il loro numero ammonta a circa una quarantina. Si tratta dunque di una cifra ben diversa da quella fissata in decine di migliaia di presunte vittime sterminate nei presunti lager sabaudi, che da anni, tra siti Internet e libelli vari, vengono contrabbandate senza il sostegno di alcuna fonte archivistica, o di altro tipo, dalla pubblicistica neoborbonica e antiunitaria. L’anno scorso, sempre in estate, Bossuto e Costanzo avevano anticipato l’esito del loro lavoro basato su documenti parrocchiali, militari e civili dell’epoca, tirandosi addosso insulti e persino minacce. Ora il libro, che peraltro non si limita alla vicenda dei “napoletani” ma prende in esame il sistema carcerario e repressivo piemontese dal 1700 al fascismo, non fa che confermare quelle intuizioni.

di Massimo Novelli da La Repubblica Torino del 3 agosto 2012

Tanto che lo storico Alessandro Barbero, che ha scritto la prefazione, può affermare che il lavoro dei due ricercatori piemontesi “non è soltanto opera di storia, ma necessario intervento civile”, che smonta una “invenzione”: “Parlo d’invenzione, che è parola forte se usata fra storici, e lo faccio a ragion veduta, perché Bossuto e Costanzo dimostrano tangibilmente che per quanto riguarda Fenestrelle ciò che è stato scritto da autori come Fulvio Izzo, Gigi Di Fiore, Lorenzo Del Boca o Pino Aprile è pura invenzione, non si sa quanto in buona fede”. Lo stesso Barbero rammenta di stare conducendo “una ricerca complessiva sullo scioglimento dell’esercito borbonico, il trattamento dei prigionieri e degli sbandati napoletani, e la loro incorporazione nell’esercito italiano, e ogni documento che mi passa tra le mani attesta che i libri di quegli autori contengono, in proposito, innumerevoli inesattezze e falsità, facilmente documentabili e dimostrabili”.

“Circa quaranta decessi in cinque anni tra soldati borbonici, ormai appartenenti ai Cacciatori Franchi (italiani, ndr) e papalini”, ricordano Bossuto e Costanzo, “significavano il doppio di quanto accadeva normalmente” a Fenestrelle. Però “in queste cifre, più che un genocidio etnico, si poteva osservare il macabro frutto di una profonda nostalgia, unita forse ad equipaggiamenti non adatti a quell’ambiente di alta montagna”. Dalla “corrispondenza ritrovata” traspare poi “un’attenzione continua dai caratteri umanitari” verso i militari napoletani, non “tralasciando mai di evidenziare l’essere i prigionieri di guerra soprattutto soldati che meritavano il medesimo trattamento riservato ai commilitoni sabaudi”.

Lo scopo che “si prefiggeva la traduzione dei soldati del “disciolto esercito borbonico” nelle fortezze di Fenestrelle” era “quello di “ricevere, disarmati, una lezione di moralità militare, dopo la quale verrebbero inviati ai Reggimenti” del nuovo Stato italiano. Uno scopo, perciò, “incompatibile con qualsiasi soluzione finale nei loro confronti”. Nel libro viene anche sfatata la “presunta e folle, se fosse vera, prassi di “gettare e sciogliere nella calce viva i soldati napoletani appena giunti a Fenestrelle””, come sostiene “uno dei tanti siti filoborbonici”. La calce viva “posta sui cadaveri era la prassi cui tutte le sepolture dovevano essere soggette per motivi d’igiene, all’epoca”.

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Inserito il 24 settembre 2012

244 Commenti

  1. Mi richiamo a quanto ha scritto Marco,molto più lucido e pacato del sottoscritto sulla cosiddetta”storiografia ufficiale del Risorgimento” spesso tra l’altro nel dopoguerra scritta pure da studiosi marxisti o anche cattolici e quindi certo non filosabaudi, anzi semmai l’esatto contrario,comunque più seri e meno faziosi, almeno su questo argomento dei gionalisti localisti Aprile o Lorenzo Del Boca,le cui ricostruzioni tendenziose sono funzionali agli interessi di certi politici locali che hanno magnato e saccheggiato risorse pubbliche a più non posso a beneficio dei loro accoliti,intelletualucoli di periferia, teatranti e musicisti d’accatto compresi,gretti e meschini. altro che cosmopoliti e progressisti…Preciso che non è Umberto I ad essere nato a Napoli,ma Vittorio Emanuele III.Certo che considerare Giacinto De Sivo, notoriamente cortigiano dei Borbone di Napoli, uno storico serio, e dimenticare quanto hanno scritto storici seri, peraltro tutti meridionali, come Croce, Giuseppe Galasso, Gioacchino Volpe (abruzzese come Croce)o Rosario Romeo, dimenticato dal liberalume leghista-clerico borbonico al potere da vent’anni, e dal resto della cultura dominante,per avere detto male del”democraticissimo ” ed intoccabile Gramsci e per avere attaccato le sue balorde teorie economiche marxiste-leniniste,la dice lunga sul livello culturale oggi imperante non solo al Sud,ma in tutta Italia.Meglio dare spazio ai seminatori di odio,ad ultras da stadio, a pseudostorici formato Asl o Pro loco, ad improvvisati pennivendoli alla ricerca dello scandalo e del sensazionalismo per vendere migliaia di copie da riservare al popolo bue.Tipo Pino Aprile,, sodale dell’accorto amministratore siculo Lombardo,uno che dirigeva Gente ed era vicedirettore di Oggi, attualmente impegnati nella ricostruzione della Storia vera,come dicono i presuntuosi disinformati ed arroganti.Si la storia degli amori di Belen o dei fidanzati della Canalis…Per non parlare di Lorenzo Del Boca,il piemontese, che nonostante la terribile dittatura sabauda,ancora imperante,scrivendo libracci sui maledetti Savoia, è diventato presidente nazionale del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti per dieci anni o forse più…Ah che eroi, a prendersela con i morti, come le jene e gli sciacalli, che gente scomoda, quanti sacrifici, quante rinunce.Quanti dibattiti faticosi, quante mangiate e quante bevute…

  2. Caro Marco!Quante se ne dicono.Tu dici: “Non esiste una “storia ufficiale del Risorgimento”.” .E allora quella che fanno studiare a scuola cos’è?, tutte quelle “panzanate” che il ns.(?)Presidente ci propina ogni giorno sull’Unità d’Italia (?)cos’è?. Ma forse tu hai ragione, perchè non esiste nessun risorgimento. E’solo un mito inventato. 150 anni fa c’è stata solo una guerra (mai dichiarata dai “sardo-piemontesi”) di annessione e di colonizzazione del Sud (checchè ne dica e ne pensi il ns. amico “Ernesto”). Si è vero c’erano i briganti,feroci e autori di efferatissimi delitti, ma questi li trovavi in ogni angolo della penisola, in quel periodo analizzato (La tua disanima si limita, con qualche piccola eccezione, al 1800). Ebbene, in Piemonte operavano i famosi “Mayno della Spinetta e “il Bersagliere” Pietro Mottino,poi mostri di provata crudeltà: dai “Fratelli di Narzole” al sanguinario Francesco Delpero, passando per “La jena di San Giorgio”. Sull’argomento puoi leggere: Briganti del Piemonte.Alessandro Mondo(Autore).
    Nella Romagna, invece,troviamo Alfonso Piccolomini “duca di Montemariano” (che, alla fine del ‘500, mise in atto azioni di brigantaggio nei territori al confine fra la Romagna toscana e quella pontificia.La banda era composta da malfattori toscani, romagnoli e marchigiani. Celeberrimo, qualche anno più tardi, Stefano Pelloni, detto “il “Passatore”, che viene ucciso il 23 marzo 1851.
    Differente invece il “Brigantaggio” post-unitario. Quelli non erano Briganti, erano “Partigiani”. Gente che difende la propria vita, le proprie donne, la propria terra, la propria dignità non si può apostrofarla “Briganti”. Paesi interi insorsero quando si accorsero della “truffa”. Erano scesi al Sud “i fratelli d’italia” per “liberarli”.
    Da chi? se è lecito sapere.Avevano promesso (Don Peppino “Garibardo”) le terre ai contadini e quei contadini che cercarono di prenderle, furono fucilati (Nino Bixio a Bronte), ma già, le terre erano degli Inglesi e quelli avevano finanziato il ns.”Garibardo” con le “famose piastre turche” in oro.
    Mi permetto di dissentire su quanto da te affermato:”i lazzaroni (la folta classe della malavita comune napoletana,…).Il termine “Lazzaroni”, ha origine dallo spagnolo “Lazaros” e si rifà agli stracci di cui era avvolto il Lazzaro evangelico. Secondo il Croce il termine “lazzaro” deriverebbe dallo spagnolo antico laceria, dal latino lacerus: lacero, strappato. Quindi, “la folta classe della malavita comune napoletana…” che c’entra? come sempre, è una mia dissertazione, “La deni- grazione” del SUd è sempre di moda.
    “Durante il processo alla banda La Gala emersero casi di cannibalismo. Lo storico Antonio Lucarelli ricorda casi di brigantesse cannibali.” Sono Tue parole. Ebbene, si è vero, ma si trattò di un caso isolato. Di un uomo a cui, per colpa di un delatore, avevano fatto morire in carcere alcuni congiunti.A quel tempo, “i fratelli d’italia”, venuti a liberarci,per indurre “i Briganti” a costituirsi, mettevano in prigione i genitori,le mogli, i figli..e questi erano “i civilissimi piemontesi”. Quest’uomo, quando ebbe nelle mani “il delatore”, si vendicò su di lui anche con atti cannibaleschi. in quanto
    a Lucarelli non deve “ricordare casi di Brigantesse cannibali”, (per fare audience), ma deve citare testimoniaze e documenti.
    Nella “Repubblica Partenopea” è meglio non addentrarsi se no non si finisce mai. Erano solo “Giacobini” al soldo dei Francesi ai quali dovevano pagare, profumatamente, la loro permanenza a Napoli, per proteggerli e tacere sul loro “trafugamento” delle opere d’arte e spoliazione dei Musei Napoletani.E poichè il primo Commissario (Faipoult), non era solerte nel “trasferire” le opere d’arte a Parigi, fu subito sostituito da “A. J. Abrial (arrivato il 28 marzo)”.In 6 mesi di “repubblica fantoccia”, ci furono a Napoli più di 8.000 morti.
    In conclusione, come abbiamo visto, c’è una bella differenza tra i briganti-criminali e i “Briganti” post-unitari. Nupo da Napoli
    Pontificio gli diedero la caccia pe

  3. E adesso dedichiamoci ad Ernesto (che non è quello di Foria -con la a-).Nel commento precedente si è parlato di briganti e “Briganti”. Ora, lasciando stare “i pennaruli” e i “paglietta”, il ” “buon ” Ferdinando II di Borbone, Re Bomba non per la trippa,ma perchè bombardò la Sicilia,”. Veramente divenne “Re Bomba” perché consentì il bombardamento di Messina del 5 settembre 1848.
    Il 5 aprile 1849 Vittorio Emanuele II (sempre II anche dopo l’unità) Fece bombardare la città di Genova, che si era sollevata contro i Savoia, da La Marmora, con l’aiuto degli inglesi.Il cannoneggiamento durò a lungo. Dopo i Piemontesi attaccarono in forze. I prigionieri, come scrisse lo stesso La Marmora, venivano passati per le armi. Nelle sue memorie troviamo un’altra frase su Genova: “non meritar riguardo una città di ribelli”. Sedata la rivolta Genova fu lasciata al sacco della soldataglia. L’intera città fù sottoposta a saccheggi e violenze, ci fu chi venne ucciso per rubargli solo un po’di verdura! La soldataglia dei Savoia stuprò e violentò le donne, anche alla presenza dei figli. Furono profanati e saccheggiati le chiese ed i Santuari, le case dei Missionari, i conventi. Vittorio Emanuele II scrisse in francese la seguente lettera al generale Alfonso La Marmora (l’originale autografo è conservato all’Archivio di Stato di Biella, fondo Ferrero, serie Principi, cassetta VI/11/141):

    “Mon cher général,
    Je vous ai confié à vous l’affaire de Gènes parce que vous étés un brave. Vous ne pouviez mieux faire et vous méritez toutes espèces de compliments.
    J’espère que notre malheureuse nation ouvrira enfin les yeux et verra l’abîme ou elle s’était lancée tête baissée. Il faut beaucoup de la peine pour l’en tirer et c’est encore malgré elle qu’il faut travailler pour son bien; qu’elle apprenne enfin une fois à aimer les honnêtes gens qui travaillent pour son bonheur et à haïr cette vile et infecte race de canailles à la quelle elle se con fiait et dans la quelle sacrifiant tout sentiment de fidélité, tout sentiment d’honneur elle prêtait tout son espoir (odiare questa vile e infetta razza di canaglie di cui essa si fidava e nella quale, sacrificando ogni sentimento di fedeltà, ogni sentimento d’onore, essa poneva tutta la sua speranza). Après nos tristes événements, dont vous aurez eu les détailles d’après mon ordre, je ne sais pas même moi comment je sois réussi au milieu de tant difficultés à en être au point où nous sommes. J’ai travaillé constamment nuit et jour, mai si cela continue comme cela j’y laisse la peau, que j’aurais bien plutòt voulu laisser dans une des dernières batailles. Je vais parler à la députation, avec prudence; elle saura pourtant ma manière de penser. Vous verrez les conditions; il m’a fallu bien me débattre avec le Ministère, car Pinelli souvent se montre bien faible. Je pense vous laisser quelque temps a Gènes: faites tout ce que vous jugerez à propos pour le mieux. Rappelez vous, beaucoup de rigueur avec les militaires compromis. J’ai fait mettre De Asarta et le Colonel du Genie en Conseil de guerre. Rappelez vous de faire condamner tous les délits par les tribunaux, commis par qui que ce soit et surtout sur nos officiers; de chasser aussitôt tous les étrangers et de les faire accompagner à la frontière et de former aussitôt une bonne police. Il y a peu d’individues compris dans la note, mais on dit qu’il faut de la clémence. Instruisez nous de ce qui arrivera, de l’état de la ville, de son esprit, de ceux qui ont pris plus de part à la révolte, et tâchez si vous pouvez que le soldats ne se portent pas a des excès sur les habitants, et faites leur donner, si c’est nécessaire, une haute paye et beaucoup de discipline surtout pour ceux que nous vous envoyons; il seront fâchés de ne pas arriver à temps. Conservez moi votre chère amitié, et conservez vous pour d’autres temps qui, à ce que je crois, ne seront pas éloignés, que j’aurais besoin de vos talents et de votre bravoure.

    Le 8 avril 1849 – Votre très affectionné – Victor
    Ecco chi era il “RE Galantuomo”.
    I massacri di interi paesi (Casalduni,Pontelandolfo, Scurcola, Campolattaro, Montecilfone e tanti altri paesi)sono per il ns Ernesto “Una ignobile infamia,una mistificazione infame della verità storica”.
    Dici ancora:”se non fossero esistiti meridionali antiborbonici che hanno pagato con il carcere,con la morte,con l’esilio,… Basti pensare a Francesco De Sanctis,…”. Ebbene, cosa doveva fare l’Autorità costituita con elementi che, pur essendo talenti, si schieravano apertamente contro di essa? (De Santis sulle barricate del 1848).Lo stesso Settembrini che “soggiornava” nelle prigioni “negazione di Dio” (ha!che ha saputo fare la denigrazione)con “pollastri” e con “confetti” che divideva anche con la moglie del direttore del carcere e dove oltre a tradurre delle opere, si “trastullava”, assieme a Spaventa, a scrivere “I NeopIa- tonici”, un racconto erotico omosex, manifesto ante-litteram di orgoglio gay. ” Un omosessuale in incognito fra i padri della patria ” (di Francesco Paolo Del Re da Romac’e’).
    Ebbene,caro Ernesto, trovamene uno che sia stato “giustiziato”. Lo stesso settembrini, nelle sue memorie, scrisse che agli studenti che si lamentavano con lui per l’andamento della Università (di cui era il Rettore) rispondeva: “Figli miei, bestemmiate la memoria di Ferdinando II. E’ sua la colpa di questo!”. Professore come c’entra quello Lì? “Si, c’entra;se egli avesse impiccati noi altri, oggi non si starebbe a questo: fù clemente, e noi facemmo peggio”.
    Pensaci Ernesto, la tragica risposta scolpisce la suprema delusione di quell’anima.
    Giacinto De Sivo può anche passare per ” cortigiano dei Borbone” ma classificare “il giacobino” Galasso, il “Fascio-monarchico” Gioacchino Volpe e il “liberal filo Cavourriano” servo prezzolato dei “sardo-piemontesi”, storici seri, bè..questo è proprio il massimo. Hai ragione, c’è un “popolo bue” che segue e crede pedissequamente a quello ” …che scrittori salariati …” scrivono sul mito del falso risorgimento.

    ” Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti” (Antonio Gramsci in “Ordine Nuovo”, 1920).
    Ernesto, non ti rimettere agli altri (“Mi richiamo a quanto ha scritto Marco,”), Nicola Zitara, pace all’anima sua, non ha mai scritto “panzane” e ogni Calabrese che si rispetti dovrebbe sentirsi onorato di essere un suo corregionale.Manchi di rispetto dicendo:”.AH ah, ridimu ca è megghiu.”
    Sient’a mme! Ernè.., mparatell nu poc’e storia. Ne hai bisogno. Nupo da napoli

  4. «In realtà “la difesa del trono e dell’altare”, la “guerra popolare”, sbandierate dalla propaganda legittimista e clericale, non poggiavano su una base molto più consistente dei raggiri e della demagogia […]. Le masse contadine si erano poste in movimento per cause economiche e sociali, permanenti e contingenti, che mostrano tutta la vacuità delle parole d’ordine reazionarie e spiegano come queste potessero, al massimo, attizzare furiose ed effimere esplosioni di collera e di malcontento, ma non erano certamente atte ad organizzare nel Mezzogiorno d’Italia qualcosa di simile alla Vandea controrivoluzionaria o alle guerra antinapoleoniche del popolo spagnolo. D’altronde, gli stessi pubblicisti borbonici e clericali si trovavano ben imbarazzati nello spiegare la totale assenza di capi legittimisti “napoletani” alla teste delle bande, oppure la riluttanza e l’ostilità di un Crocco o di un Chiavone nell’accettare la guida e i consigli di Borjes o di Tristany, sebbene costoro fossero stati officiati dalla corte in esilio a Roma come condottieri dalla guerriglia anti-unitaria. I capi delle bande brigantesche si avvalevano largamente della “legalità” impersonata da Francesco II, per emanare proclami e ordini, e per imporre balzelli, taglie e leve con sufficiente autorità. Ma tutto ciò, osservava il sotto-prefetto di Ariano Irpino, Lucio Fiorentino, in una acuta relazione del novembre 1862, concorreva ad alimentare il brigantaggio “solo per metà, e più esattamente per pretesto.” Cipriano La Gala replicò un giorno ironicamente ad un avvocato da lui catturato, il quale tentava di dimostrare la propria simpatia per i Borboni: “Tu hai studiato, sei avvocato, e credi che noi fatichiamo per Francesco II”?» Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano 1964, pp. 156-157
    I briganti propriamente “politici” furono in realtà ben pochi e risultarono essere per lo più murattiani o repubblicani. La Lucania fu infatti l’epicentro del brigantaggio politico, che ebbe in regione connotati anzitutto murattiani e non borbonici. L’altra zona con maggiore densità di briganti “politici” fu quella vicino alla frontiera del Lazio meridionale, perché poteva avvalersi dell’appoggio e della complicità del papa.
    E’ da notare comunque che molto spesso i briganti “politici” altro non erano che criminali comuni sostenuti con armi, viveri, denaro ecc. da interessati burattinai, ciò che può essere esemplificato da un evento abitualmente dimenticato ma di grande significatività. E’ noto che Pio IX, acerrimo nemico dell’Unità d’Italia e dello stato laico, finanziò ed armò i briganti e consentì loro di rifugiarsi nel Lazio, ancora in suo possesso, facendone propria base operativa. Eppure, dopo alcuni anni di tale politica, il pontefice, malgrado fosse estremamente ostile allo stato italiano e ne desiderasse in ogni modo la scomparsa, non solo cessò d’appoggiare i briganti, ma addirittura sottoscrisse con il governo italiano il cosiddetto “accordo di Cassino”, che consentiva alle unità regolari del Regio Esercito di passare il confine per inseguire e distruggere i briganti, in pieno territorio pontificio. La decisione del papa può stupire, perché egli rimase per tutta la vita del tutto contrario ad ogni cedimento della sovranità dello stato pontificio, che secondo lui aveva origine divina. La causa di una simile decisione papale era dovuta alla gravità delle devastazioni che i briganti avevano inflitto al territorio del Lazio meridionale, nonostante questi ultimi si trovassero su di uno stato loro amico e benefattore.
    Un mutamento analogo avvenne anche nel Mezzogiorno, con il progressivo distacco dei “manutengoli”, che erano i finanziatori e burattinai dei briganti, dai banditi veri e propri. Questi ultimi si erano rivelati incontrollabili e dediti spesso alle violenze contro gli stessi ceti che li sostenevano, ossia essenzialmente parte del clero e dell’aristocrazia meridionali, cosicché costoro li abbandonarono.
    D’altra parte, in intere regioni il brigantaggio politico fu sempre praticamente assente. Ad esempio, in Calabria esistevano moltissime bande, tutte quante molto piccole e del tutto prive di connotazioni politiche, i cui capi briganti erano di solito già alla macchia nel periodo borbonico. L’epicentro del brigantaggio fu la Lucania, dove esistevano molti comitati segreti di “manutengoli”. Essi però erano costituiti in prevalenza da “murattiani”, gruppo ideologico che nel meridione conservava ancora dopo il 1860 una certa consistenza.
    Il più importante e famoso dei capi brigante, Carmine Crocco, ebbe un itinerario a suo modo esemplare. Colpevole di reati comuni ed assieme smanioso di vendicarsi d’angherie subite da persone di ceto superiore al suo, Crocco divenne brigante sotto il regno borbonico. All’arrivo di Garibaldi, egli prese parte ad un’insurrezione antiborbonica a Potenza e s’arruolò nell’esercito garibaldino. Egli sperava nella cancellazione della propria fedina penale. Tuttavia, scoperto il suo passato di bandito, fu cacciato dall’esercito. Egli allora riprese a fare il brigante, per conto proprio, per poi venire contattato da emissari francesi, che gli fornirono armi e denaro in quantità: l’intento di Napoleone III era proprio quello di portare un Murat, e non un Borbone, sul regno di Napoli. Crocco si diede quindi al brigantaggio, in teoria per conto del re borbonico in esilio (tanto da usare anche la vecchia bandiera borbonica, atta a conseguirgli le simpatie del clero, ostile allo stato laico unitario), di fatto finanziato ed armato dall’imperatore francese.
    Quando infine fu catturato ed imprigionato, egli ebbe modo di dichiarare nelle sue memorie (aveva appreso a leggere e scrivere in carcere) che non aveva combattuto per il re borbonico, perché non voleva cambiare un padrone per un altro, quanto per una (confusamente teorizzata) sorta di repubblica contadina dai tratti anarchici.
    Insomma, Crocco iniziò a fare il brigante per ragioni personali sotto la monarchia borbonica, divenne garibaldino, dovette ritornare alla macchia perché fu scoperto il suo passato di criminale (non per motivi ideali), innalzò la bandiera borbonica ma di fatto era finanziato ed armato dalla Francia, infine dichiarò di essere più o meno repubblicano.
    La maggior parte dei capi briganti erano alla macchia già nel periodo borbonico, cosicché il fenomeno non si può interpretare come “resistenza” allo stato unitario, in quanto preesisteva ad esso. Era anzi plurisecolare ed espressione del malcontento contadino verso l’apparato statale e la classe dirigente latifondista, fosse essa rappresentata dagli Angioni, dagli Asburgo di Spagna, dai Borboni o dai Savoia.

  5. Il regno borbonico era quello che aveva di gran lunga la maggior diffusione di criminalità (cfr. ad esempio Romano Canosa, “Storia della criminalità in Italia. 1845-1945”, a causa dell’arcaica struttura sociale di tipo feudale e dell’alleanza vigente fra potere regio ed i vari gruppi criminali dei lazzaroni, dei briganti e delle mafie.
    Il brigantaggio era infatti presente da molti secoli e con grande intensità nel Meridione d’Italia ed era uno dei maggiori ostacoli ad un suo sviluppo. Fra gli altri, il grande storico Fernand Braudel nel suo capolavoro “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” (cfr. volume II, capitolo V, paragrafo III. MISERIA E BANDITISMO), presenta proprio l’Italia meridionale come uno degli esempi di territorio infestato dal fenomeno brigantesco, che egli, intelligentemente, riconosce come un fenomeno assieme anarcoide (jacquerie contadina indotta dalle misere condizioni di vita), criminale eppure sfruttato dai latifondisti per i propri interessi di fazione. Cito un brano fra i molti del Braudel: “Nelle grandi patrie del banditismo, il compito [di repressione] deve essere sempre ripreso. Nel 1578 il marchese di Mondéjar, viceré di Napoli, decideva un nuovo tentativo contro i fuoriusciti di Calabria. Sin dall’arrivo nel regno era stato informato dei loro crimini: terre predate, strade interrotte, viaggiatori assassinati, chiese profanate, incendi, persone rapite e ricattate. I provvedimenti del cardinal Granvelle erano stati inefficaci, e anzi, scriveva il vicerè, “il numero di fuoriusciti è aumentato, moltiplicati i loro delitti, cresciuto talmente il loro potere e l’insolenza che in mille parti del regno non si può viaggiare senza gravi rischi e pericoli” (ibidem, p. 789). ancora dal Braudel: “In Calabria […] i fuorilegge pullulano, favoriti dalla circostanze e dalla natura del terreno […] Le azioni repressive esasperarono l’attività dei banditi: forzavano castelli, entravano in pieno giorno nelle grandi città, osando “Uccidere i loro nemici persino nelle chiese, facendo prigionieri, su cui mettevano taglie”. Le atrocità spandevano il terrore: “Essi devastavano le terre, massacravano le greggi di coloro che resistevano o che li perseguitvano per ordine e incarico dei governatori, non osando questi farlo essi stessi” (Ibidem, p. 790). Ancora dal Braudel: “Nel 1580 un agente veneziano segnalava che tutto il regno era infestato dai banditi, che i briganti da strada erano i padroni nelle Puglie e soprattutto in Calabria. […] Una ventina d’anni dopo la situazione era ancora peggiore. I briganti spingevano le loro incursioni sino al porto di Napoli: le autorità arrivavano a preferire l’accordo o l’astuzia alla lotta. La grossa banda di Angelo Ferro, che terrorizzava la Terra di lavoro” (Ibidem. p. 791).

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