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Fenestrelle e il genocidio (inesistente) dei borbonici

Quanti furono i prigionieri di guerra borbonici e papalini che morirono al forte San Carlo di Fenestrelle tra il 1860 e il 1865, dopo il crollo del Regno delle Due Sicilie e la proclamazione del Regno d’Italia? Per Juri Bossuto e Luca Costanzo, autori del saggio “Le catene dei Savoia”, in uscita a settembre con l’Editrice Il Punto-Piemonte in Bancarella, il loro numero ammonta a circa una quarantina. Si tratta dunque di una cifra ben diversa da quella fissata in decine di migliaia di presunte vittime sterminate nei presunti lager sabaudi, che da anni, tra siti Internet e libelli vari, vengono contrabbandate senza il sostegno di alcuna fonte archivistica, o di altro tipo, dalla pubblicistica neoborbonica e antiunitaria. L’anno scorso, sempre in estate, Bossuto e Costanzo avevano anticipato l’esito del loro lavoro basato su documenti parrocchiali, militari e civili dell’epoca, tirandosi addosso insulti e persino minacce. Ora il libro, che peraltro non si limita alla vicenda dei “napoletani” ma prende in esame il sistema carcerario e repressivo piemontese dal 1700 al fascismo, non fa che confermare quelle intuizioni.

di Massimo Novelli da La Repubblica Torino del 3 agosto 2012

Tanto che lo storico Alessandro Barbero, che ha scritto la prefazione, può affermare che il lavoro dei due ricercatori piemontesi “non è soltanto opera di storia, ma necessario intervento civile”, che smonta una “invenzione”: “Parlo d’invenzione, che è parola forte se usata fra storici, e lo faccio a ragion veduta, perché Bossuto e Costanzo dimostrano tangibilmente che per quanto riguarda Fenestrelle ciò che è stato scritto da autori come Fulvio Izzo, Gigi Di Fiore, Lorenzo Del Boca o Pino Aprile è pura invenzione, non si sa quanto in buona fede”. Lo stesso Barbero rammenta di stare conducendo “una ricerca complessiva sullo scioglimento dell’esercito borbonico, il trattamento dei prigionieri e degli sbandati napoletani, e la loro incorporazione nell’esercito italiano, e ogni documento che mi passa tra le mani attesta che i libri di quegli autori contengono, in proposito, innumerevoli inesattezze e falsità, facilmente documentabili e dimostrabili”.

“Circa quaranta decessi in cinque anni tra soldati borbonici, ormai appartenenti ai Cacciatori Franchi (italiani, ndr) e papalini”, ricordano Bossuto e Costanzo, “significavano il doppio di quanto accadeva normalmente” a Fenestrelle. Però “in queste cifre, più che un genocidio etnico, si poteva osservare il macabro frutto di una profonda nostalgia, unita forse ad equipaggiamenti non adatti a quell’ambiente di alta montagna”. Dalla “corrispondenza ritrovata” traspare poi “un’attenzione continua dai caratteri umanitari” verso i militari napoletani, non “tralasciando mai di evidenziare l’essere i prigionieri di guerra soprattutto soldati che meritavano il medesimo trattamento riservato ai commilitoni sabaudi”.

Lo scopo che “si prefiggeva la traduzione dei soldati del “disciolto esercito borbonico” nelle fortezze di Fenestrelle” era “quello di “ricevere, disarmati, una lezione di moralità militare, dopo la quale verrebbero inviati ai Reggimenti” del nuovo Stato italiano. Uno scopo, perciò, “incompatibile con qualsiasi soluzione finale nei loro confronti”. Nel libro viene anche sfatata la “presunta e folle, se fosse vera, prassi di “gettare e sciogliere nella calce viva i soldati napoletani appena giunti a Fenestrelle””, come sostiene “uno dei tanti siti filoborbonici”. La calce viva “posta sui cadaveri era la prassi cui tutte le sepolture dovevano essere soggette per motivi d’igiene, all’epoca”.

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Inserito il 24 settembre 2012

244 Commenti

  1. Caro Davide, poichè Emanuele il 26 gennaio ha detto (testuale):” Resta la domanda su come avrebbero fatto sparire anche le ossa dopo aver “sciolto” le parti molli dei corpi nella calce viva. La chimica non è un’opinione, ha leggi ben precise. E la calce viva NON scioglie le ossa.”. Per quanto sopra affermato io ho “tirato in ballo” le donne di Ciudad Juarez, per come “sparivano”. Per quanto riguarda quanto tu dici:” Se “sterminio” vi fu, nessuno di voi che inseguite la pista del massacro siete riusciti a dimostrare nulla.Viceversa, state solo insistendo su qualcosa che non esiste”. Ebbene, perchè non visioni il video dei dibattiti tenutisi sia a Bari (tra il prof. Barbero e il prof. De Crescenzo),sia a Torino(sempre fra Il prof. Barbero e il Giornalista/scrittore de “Il Mattino”)? Ti segnalo i video suddetti:http://youtu.be/7k3lR5JWdE8 (Barbero/De Crescenzo).http://youtu.be/4bt3MJnJZ2I (Barbero/Di Fiore).

    FENESTRELLE Verità e rispetto per i soldati Napoletani e per i Borbone.
    (vedi commento del 17/10/2012) …… il problema resta e resiste addirittura ancora nel 1872 se il governo italiano trattava la complicata questione della costituzione di una “colonia penitenziaria” prima in Patagonia, poi in Tunisia, sull’isola di Socotra o in Borneo… Evidentemente si trattava ancora di migliaia di “refrattari” con la progressiva e drammatica aggiunta dei nostri “briganti”. Quello che non torna, dopo tanti (troppi) anni è il numero dei nostri soldati: se, come si afferma anche nell’articolo, ben sessantamila soldati furono trasportati, deportati, ricoverati, arruolati o imprigionati al Nord, quanti di essi furono effettivamente assassinati, fucilati o feriti? Quanti di essi morirono nelle carceri o nei campi di concentramento-lager dei Savoia? Quanti ne morirono per quelle ferite o dopo le malattie inevitabili per la promiscuità e la durezza delle condizioni imposte? E se qualcuno sostiene che a casa vi tornarono (ma i riscontri effettuati finora presso gli archivi locali sono negativi e drammatici) o che furono arruolati nel nuovo esercito, perché oltre 10 anni dopo, ancora si cercava di spedirli, a migliaia, in Patagonia? E cosa gli successe dopo i (vani) tentativi di esiliarli visto che non c’era, evidentemente, la volontà di liberarli?…. Si aspettano Risposte.
    Nunzio Porzio
    17 ottobre 2012, 18:24/ 28/02/2013

  2. Pare che uno di questi autori appartenga a Rifondazione comunista. Un comunista che difende una monarchia che ha perseguitato anarchici, comunisti e socialisti, è da espellere dal partito. Non è comunista, è semplicemente un arrivista. Per fare questa questa repubblica sono morti 87 mila partigiani, migliaia di americani, canadesi, inglesi, francesi, australiani. I cimiteri di Cassino, Anzio, Nettuno ecc ecc sono pieni di croci. Nel sud, nel 1860 e d’intorni,i piemontesi hanno massacrato un milione di contadini ed operai, hanno incendiato oltre cento città e villaggi. Hanno bruciato pagliai, raccolti, stuprato ragazze, fucilato anche centinaia di bambini. Siamo riusciti a conoscere qualche nome di questi, gli altri? Mbè, il Babbeo piemontese fa riferimento al carteggio di Cavour, che per noi ci si può pulire il culo. Per il babbeo non sono documenti credibili gli articoli della Civiltà Cattolica e di altri giornali del tempo. Gaeta fu rasa al suolo, senza dichiarazione di guerra, i morti ammontarono ad oltre quattromila. la città chiese i danni di guerra dopo pochi giorni. Li vogliamo. Ammontano a circa 250 milioni di euro attuali. Come vogliamos apere i nomi e i cognomi di tutti i fucilati dai barbari savoiardi. A Gaeta, nel 1960 fu scoperchiata una foiba sullo spiazzo di Montesecco, vi trovarono duemila cadaveri, molti con divisa borbonica. Le ossa di quei fucilati vennero traslate tutte nel cimitero borbonico di Via Garibaldi dall’amministrazione Corbo. I piemontesi, molto di rado, e solo dopo processi dei tribunali, erano costretti a scrivere i nomi dei condannati alla fucilazione, ma la maggior parte dei fucilati non avevano nomi , nè cognomi. basta leggere le ricordanze di molti ufficiali piemontesi. IL Babbeo torinese potrebbe consultare i diari di quei delinquenti,Bianco di Jorioz, per esempio, ha scritto che ha squartato la testa di un pastorello perchp, secondo lui, non indicandogli da dove fuggì una banda di briganti, era uno di loro. Lui, giudice e assassino. “…Il 16 di novembre erano state eseguite le prime fucilazioni poi, dopo l’assedio dei briganti ad Acquasanta, paesi interi erano stati arsi dalle fiamme, Vena Martello, San Vito, Pagese, San Martino…e sul selciato di ogni piazza di paese venivano lasciati per ammonimento i corpi goffi e barbuti dei <> ( Aldo De Jaco, Il Brigantaggio meridionale, Editori Riuniti, Roma, 1969, pag. 25)
    Il generale Pinelli fece le sue presentazioni al popolo del Sud. In nome di Vittorio Emanuele fucilò migliaia di contadini e diede fuoco alle loro case, senza crearsi scrupoli di sorta.
    Ermenegildo Novelli, udinese che partecipò alla repressione dei partigiani nel Sud nelle file della brigata Pinelli nel 1861, 50 anni dopo quei fatti, fece pubblicare un suo diario ove annotò i crimini commessi dal suo battaglione:”…nella provincia di Teramo ci siamo fermati fino ai primi di maggio del 1861, perlustrando boscaglie, lottando briganti e facendone prigionieri parecchi, incutendo salutare paura nella parte trista di quei disgraziati paesi…molti briganti erano sconosciuti nei paesi dove venivano giustiziati. Nei primi tempi si prendevano, si giudicavano, si fucilavano, si seppellivano. Qui finiva tutto, e non solo per loro, ma anche per gli altri. Chi li conosceva? Chi sapeva delle loro scellerate azioni? Chi della triste e meritata fine loro? …nessuno…la terra copriva tutto.
    Ma quando videro nei sagrati o nelle piazze i corpi dei fucilati, paesani o non paesani, rimanere esposti al sole e alla pioggia, le cose cambiarono ad un tratto. Il castigo aveva servito di salutare esempio ai cattivi…” (Aldo De Jaco, Ibidem, pp.52-53 Vedi pure Diario di guerra 1860-61, Del Bianco Editore)
    Che eroi ha avuto l’esercito piemontese! ( noi ci rifiutiamo di chiamarlo italiano) , gente come Ermenegildo pensava di incutere paura negli abruzzesi con le fucilazioni e con il terrore, che imbecille! Ma i criminali di guerra sono tutti degli imbecilli. Quanti contadini uccise Ermenegildo ed il suo battaglione? Non si saprà mai. La terra copriva tutto, diceva il nostro eroe.
    14 villaggi devastati in tre giorni
    Il 31 di gennaio del 1861, il generale Ferdinando Pinelli, dando la caccia ai partigiani del Sud che i piemontesi chiamavano briganti o reazionari, non usò il napalm o i diserbanti ma incendiava foreste e boscaglie, raccolti e case mettendo in atto una caccia all’uomo tanto barbara quanto bestiale; mise in atto tutto l’odio di classe che la casta militare piemontese gli impartì: ”…lungo la strada quante chiese, e quanti oratori s’incontrarono da quelle bestiali soldatesche, tanti furono incendiati, dopo averli, ben inteso, messi prima a sacco e ruba, senza verun riguardo ai sacri arredi. I poveri montanari, quantunque male armati, combattevano con quella disperata ostinazione che viene dal sapere che si ha a che fare con nemico spietato; pure dovettero sgombrare i vari luoghi da essi occupati. In meno di tre giorni i villaggi furono interamente devastati ed arsi dai conquistatori, i quali a primo sfogo del loro furore si sogliono scagliare sopra le chiese. Dal villaggio di Giustamano, presso Cavaceppi, si hanno racconti particolareggiati di rapine e di sacrilegi che fanno raccapricciare, congiungendo alla ribalderia dell’assassinio lo scherno ed il cinismo del vendere all’asta pubblica i vasi sacri, gli ornamenti sacerdotali e gli arredi degli altari, a vilissimo prezzo. Queste spedizioni sono poi celebrate dai giornali liberali come atti di vigore. (La Civiltà Cattolica, Vol.IX, Serie IV, Roma, Anno 1861, pp.615-616 . Il Rifondatore comunista che ha scritto questo libro, e il babbeo torinese, anche lui negazionista, farebbe bene a visitare il carcere di gaeta, il più duro dei lager piemontesi. Erano d’uso in quel carcere, fino al 1961, i bagni penali.C’è un lago sotto il castello angioino. Spiegherò loro cosa erano e chi li praticava. Intanto chiederò al segretario nazionale di Rifondazione comunista l’espulsione dal partito dell’autore del libello di cui sopra. Rifondatore,hai mai letto Gramsci?? Leggilo e impara. Gramsci non ha mai , dico mai, parlato bene del Risorgimento piemontese, sai perchè? era l’apoteosi del capitalismo becero che ha rovinato l’Italia e il mondo. Oggi, 200 famiglie, detengono l’80% della ricchezza mondiale. Significa che non hai imparato niente….ArruvuaRRRRRRR!!!!!!!!!!

  3. ecco il famoso tabaccaio di Gaeta, antonio ciano.
    Persona talmente confusa che vuole passare per socialista e cita la “civilta’ cattolica” dei gesuiti, che i socialisti li brucerebbero ancora oggi. O ciano, ma hai mai sentito parlare non so di Carlo Pisacane e della brutta fine che fece?
    Caro ciano, ma hai mai letto qualcosa nella tua vita? Vuoi davvero mettere la “civilta’ cattolica” tra le fonti della ricerca storica, quando non si tratti di una ricerca antropologica sul bigottismo clericale italico?
    E quest’uomo scrive libri, di storia per giunta!
    Oh povera Patria.

  4. Mazzini c’e’ stato 4 mesi nel carcere di Gaeta, e non se n’e’ mai lamentato. Gramsci non ha mai condannato l’unita’ nazionale tou court, ma da comunista vedeva ogni forma di unita’ statuale moderna come strumento di repressione borghese. Gramsci esalta spesso Mazzini e Garibaldi per il loro apporto “democratico” al processo unitario.
    tie’ ciano, fatti na cultura:
    Riformismo: identità e differenze tra socialismi – Mazzini vs Marx
    L’abolizione della proprietà individuale nondimeno è il rimedio proposto da parecchi tra i sistemi di socialisti dei quali vi parlo, e segnatamente del comunismo … tutto il mio lavoro combatte quel sogno colpevole che rinnega progresso, doveri, fratellanza umana, solidarietà di nazioni, ogni cosa che voi ed io veneriamo
    L’educazione ha una importanza fondamentale ed era bene affrontare la questione su aspetti pratici e nei sui più recenti scenari di ricerca da principio, ma da questo punto è utile far partire le altre linee in cui si espresse la prospettiva sociale dell’Esule. Innanzitutto dobbiamo chiederci: è giusto individuare in Mazzini un progetto legittimamente “riformista” ? È in qualche modo utilizzabile questa espressione per delinearne le prospettive sociali? A mio giudizio, supportato dai recenti studi che ho più sopra citato, non è solo legittimo ascrivere Mazzini ad un contesto riformista, ma anche socialista in senso lato.
    Questo perché prima di tutto siamo – finalmente – in un periodo storico in cui le connotazioni politiche a livello scientifico non devono necessariamente far riferimento al contesto attuale o da poco pregresso. In secondo luogo perché è innegabile che nella visione associazionistica di Mazzini, la quale nega la lotta di classe, ma propugna l’uguaglianza sociale – anche tra uomo e donna -, la democrazia, la libertà dell’individuo, è inevitabilmente presente un’ idea tesa alla riforma graduale della società ed al miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici.
    In secondo luogo Mazzini è socialista, perché fu nel socialismo che le sue eredità più genuine vennero successivamente percorse, ed è giustamente di “socialismo mazziniano” che una lunga, seppur minoritaria, tradizione storiografica che parte da Gnocchi – Viani e Salvemini, passa da Rosselli e Levi, e arriva a Mastellone, La Puma, Lingua e Mack Smith, va parlando da più di un secolo. Il socialismo riformista mazziniano è originalmente basato sul concetto di “associazione”: “libertà e associazione” sarà non a caso per anni il “grido di battaglia” di numerosi gruppi operai e intellettuali italiani, i quali pur tra mille difficoltà e contrasti, elaborarono per decenni una “terza via sindacalista”1, la quale aveva essenzialmente in Mazzini il proprio nume tutelare.
    Per questo preciso motivo, è utile qui discernere una questione che abbiamo trascinato finora: il problema dell’ ”antipatia” ricambiata e quasi atavica, che corse tra Mazzini e Marx ed i suoi effetti sulle successive interpretazioni del messaggio sociale del primo. L’argomento in sé ha avuto lunga fortuna e molti autori se ne sono occupati e continuano a farlo, viepiù oggi che al tramonto – o chissà ! all’eclissi – dell’ utopia comunista ed a seguito della caduta del Muro, si ha gioco facile a voler riprendere una battaglia ideale di sì lungo corso.
    Già nel 1949 Luigi Salvatorelli scrisse: “Se nell’ultimo terzo del secolo decimonono Marx aveva sconfitto Mazzini, nella seconda metà del ventesimo Mazzini supera definitivamente Marx”2, ma prima e dopo di lui autori di enorme caratura hanno rincarato la valutazione, inneggiando alla superiorità storica dell’associazionismo mazziniano sulla teoria della lotta di classe: tra questi come non citare Salvemini, Nello Rosselli3, lo stesso Salvatorelli e Spadolini4.
    Se da molti contemporanei la Comune Parigina del 1871, vista come realizzazione ideale dell’ideologia marxista, fu considerata l’atto di morte del mazzinianesimo, ad oggi questa è vista invece come l’inizio della sua vittoria. Leonardo La Puma nel suo recente Giuseppe Mazzini. Democratico e Riformista Europeo5: arriva a dire che il giudizio di netta condanna che espresse l’Esule sull’evento parigino è “la prova indiscutibile della superiorità storicamente incontrovertibile della visione sociale e politica del Genovese”6, Lingua non si discosta molto7, e tra le pieghe del suo linguaggio sempre molto asettico anche Mastellone, fa trasparire questo giudizio.
    I due cospiratori agirono per decenni nella stessa città, pur a quanto sembra non incontrandosi mai. Anche il loro terreno di proselitismo era il medesimo: entrambi cercavano infatti affiliati nelle fabbriche e tra gli operai ed entrambi avevano innegabilmente a cuore il futuro delle classi lavoratrici: i fini e i mezzi per ottenerli però furono nettamente ed immediatamente in contrasto tra loro e suscitarono fin da subito prese di posizione all’interno del panorama “socialista” e democratico europeo.
    Marx, che era uso ad un linguaggio colorito e ridicolizzante nei confronti degli avversari politici, con Mazzini non fu avaro di insulti: “vecchio somaro”, “Teopompo”, “leccaculo dei liberali”8, sono solo alcuni degli epiteti coi quali lo descrisse. Dall’altra parte Mazzini, il quale non negò mai l’indubbio genio dell’avversario, ne scrisse però come di un: “uomo di ingegno acuto, ma dissolvente, di tempra dominatrice, geloso dell’altrui influenza, senza forti credenze filosofiche o religiose e, temo, con più elemento d’ira, anche se giusta, che non d’amore nel cuore”9.
    Ma volendo tirar le conclusioni, possiamo dire che la controversia precipua che li allontanò fu fin da subito una: la questione della proprietà privata: “Come per mezzo della religione, della scienza, della libertà l’individuo è chiamato a trasformare, a migliorare, a padroneggiare il mondo morale ed intellettuale, egli è pure chiamato a trasformare, a migliorare, a padroneggiare, per mezzo del lavoro materiale, il mondo fisico. È la proprietà il segno, la rappresentazione del compimento di quella missione, della quantità di lavoro col quale l’individuo ha trasformato, sviluppato, accresciuto le forze produttrici della natura […] Non bisogna abolire la proprietà perché oggi è di pochi; bisogna aprire la via perché i molti possano acquistarla. Bisogna richiamarla al principio che la renda legittima, facendo sì che il lavoro solo possa produrla”10.
    Questo passo dei Doveri ci offre l’esatta dimensione della differenza esistente tra i due: dove Marx scoprì uno strumento di repressione borghese, Mazzini vide in vece uno strumento potenziale di incivilimento e progresso sociale ed economico. Pur non volendo abbracciare in toto le certezze sulla superiorità incontrovertibile delle tesi mazziniane, ci si può fermare alla constatazione che queste divergenze rappresentano, e nemmeno tanto in potenza, buona parte della difformità strutturale che ha segnato per quasi un secolo il dibattito tra socialdemocrazia e comunismo.
    Può sembrare paradossale, ma ad ulteriore riprova della provenienza socialista di Mazzini, si può ricordare che egli rischiò addirittura di diventare il leader della I Internazionale Socialista. Il 28 settembre del 1864 alla Saint Martin’s Hall si tenne infatti una storica riunione che avrebbe sancito di li a poco la fondazione della “mitica” I Internazionale; a questa riunione furono invitati come esponenti di rilievo dei movimenti operai sia Mazzini che Marx. Per diverse ragioni nessuno dei due vi partecipò in prima persona, ma entrambi mandarono fiduciari a rappresentarli. Per parte del Genovese si presentò il “segretario” e redattore Adolfo Wolff, già membro del corpo di spedizione Garibaldino in Sicilia; “ambasciatore” del filosofo di Treviri e di Engels era invece il sarto Eccarius. Alla riunione erano presenti delegazioni rappresentanti i movimenti di tutta Europa: all’ovvia maggioranza numerica inglese, capitanata dai due eroi delle trade unions Odger e Cremer, si accompagnavano infatti gruppi tedeschi, italiani, svizzeri, polacchi e francesi11.
    Nello Rosselli apre il suo “Mazzini e Bakunin” proprio con un capitolo dedicato al congresso e allo scontro che ivi si pose tra proposizioni mazziniane e marxiste. Possiamo notare come quasi tutti gli studi odierni si concentrino in prima analisi su questo episodio e ciò ad ulteriore riprova della sua centralità per ciò che avvenne in seguito.
    Mazzini cercò fin da subito di egemonizzare il congresso e forte della sulla sua notorietà in Inghilterra, si appoggiò al consenso del nucleo inglese oltre che di quello italiano. A Wolff venne affidato infatti il compito di redigere lo statuto dell’associazione. Questo statuto originale, – non è un caso forse – non ci è pervenuto, ma molti storici sono concordi nel credere che fosse una copia dello “Statuto della Fratellanza Artigiana Universale d’Italia”, che sarà approvato a Napoli di lì a qualche mese12.
    Wolff persuaso della riuscita del progetto, partì per Napoli e venne successivamente arrestato ad Alessandria, nel frattempo il fido Eccarius, convinse la commissione redigente a sottoporre il testo al giudizio dello stesso Marx, la reazione di questi fu di quasi disgusto: “Restai proprio spaventato – quando udii il buon Le Lubez (il rappresentante francese) leggere un preambolo inutile, fraseologico, malamente scritto e assolutamente infantile,che pretendeva di essere una dichiarazione di principî, nel quale ad ogni punto si sentiva Mazzini incrostato con pezzi di socialismo francese.”13. Quindi per non lasciare “una riga di quella roba”, si trovò costretto a cambiare radicalmente il testo, lasciando dell’originale soltanto “nel preambolo due frasi su dovere e su diritto, e così pure verità, moralità e giustizia, ma queste frasi sono collegate in modo tale che non possono recare alcun danno.”14.
    Due anni dopo il Congresso, tenuto questa volta a Ginevra, approvò ufficialmente il testo opportunamente limato, segnando così la fine della “fase mazziniana” dell’ Internazionale, che divenne da allora, malgrado le diffidenze di Mazzini, un fortissimo strumento organizzativo e di pressione politica in tutta Europa, che trovò resistenze di penetrazione soltanto in Italia, dove per molto tempo ancora sarebbero sopravvissute le roccaforti dell’associazionismo mazziniano, oltre che le cellule di stampo anarchico e bakuniano15.
    Proprio per definire una strategia italiana di democrazia e socialismo, alternativa a quella propugnata dall’ Internazionale, – appoggiata per altro sin dalla fine degli anni ’60 dal generale Garibaldi16 – il primo novembre del 1871, Mazzini realizzò il suo ultimo grande progetto di riforma: convocò le associazioni operaie italiane a Roma con l’obbiettivo di ivi organizzare un movimento unico a metà tra un sindacato e un partito politico in senso stretto: “Vorrei fare qualcosa di reale per gli operai; se no, non abbiamo diritto di combattere l’ internazionale”17.
    C’era come principio la volontà di far rappresentare le classi lavoratrici d’ Italia da un soggetto che potesse esporne le rivendicazione socio – economiche, ma innervandole di un contenuto associativo, cercando quindi anche di attrarre e collaborare con la “borghesia illuminata”. Un principio molto simile a quello tipico delle trade unions inglesi quindi. La morte lo colse però con troppo anticipo, dopo qualche mese, e il nuovo Congresso italiano ebbe vita breve, fagocitato da un lato dall’ Internazionale e dall’altro da Bakunin.
    Altra discussione apertasi di recente sul tema è quella che riguarda il Manifesto del partito comunista del 1848. L’idea di Mastellone, supportata da numerosi elementi, è che questo sia almeno in parte una risposta alle tesi mazziniane esposte proprio in quel periodo – tra il ‘46 e il ’47 – negli articoli, poi raccolti nei Thoughts about Democracy, in cui Mazzini attacca duramente le tesi dei comunisti e dei loro sostenitori. L’intero corpus, è stato per la prima volta scoperto e riproposto proprio da Mastellone nel 199618.
    In questi articoli si leggono frasi che oggi appaiono davvero profetiche: “Con il comunismo avrete una gerarchia arbitraria di capi con l’ intera disponibilita’ della proprieta’ comune, col potere di decidere circa il lavoro, la capacita’ , i bisogni di ciascuno19”, senza contare che si vede forse per la prima volta nella storia il termine “dictatorship”, inventato per giudicare i possibili effeti di uno sviluppo comunistico della società.
    Facendo un confronto col testo leggendario del comunismo, Mastellone nota come la dove nel Manifesto si opera una analisi critica delle accuse “borghesi” al movimento, buona parte di questa sia speculare a ciò che scrive Mazzini in un articolo apparso sul People’s Journal del 17 aprile 1847, componente i Thoughts; questo perché risulta certa la loro vasta risonanza nel panorama democratico di Londra.
    Gli articoli infatti, costituiscono uno dei contributi più fondamentali del tempo sul dibattito allora in corso sulla nascita della democrazia in Europa. Nel suo più recente Mazzini, Democracy in Europe20, Mastellone ripercorre le tappe di questo dibattito e arriva ad isolarne i soggetti fondamentali, scrive: “La rivoluzione sarebbe stata politica e costituzionale per Mazzini, sarebbe stata politica e antinobiliare secondo i Polacchi [ gli autori del Cracow Manifesto del 14 marzo 1846 ]; i democratici comunisti Engels e Marx sostenevano che la rivoluzione sarebbe stata fatta dal proletariato contro la borghesia.”21
    Il Genovese era autore influente e guadagnò di notorietà, grazie soprattutto al così detto scandalo del “letter – opening affair”, ossia la sua denuncia al segretario di stato inglese James Graham, il quale aveva per anni ordinato che le missive inviate e ricevute da Mazzini fossero aperte e lette, come lui stesso ammise più tardi. Il governo inglese aveva peraltro informato regolarmente Austria, Piemonte Francia e Due Sicilie, dei dati ritenuti sensibili, contenuti nelle lettere.
    Questo divenne evidente allorché si seppe della sfortunata conclusione dell’impresa dei fratelli Bandiera, i quali avevano messo a parte il solo Mazzini del loro piano e si erano poi ritrovati ad essere già attesi in Calabria dalle truppe borboniche. Il rispetto della corrispondenza e dei diritti civili ad essa connessi era da tempo un fondamento della società inglese e pertanto la cosa arrivò ad essere discussa in parlamento e causò non pochi problemi al gabinetto, il quale dovette affrontare le ripetute accuse dell’opposizione ed anche di alcuni membri dello stesso governo22; molti politici scrissero e parlarono in favore di Mazzini e della sua causa italiana e questo gli procurò una duratura influenza anche sul parlamento inglese23.
    La vicenda scatenò una intensa riprovazione da parte degli intellettuali e una ondata di sdegno nell’opinione pubblica24 e proprio in seguito questa, Mazzini si ritrovò ad avere grande notorietà e prestigio, tale da consentirgli una intensa attività editoriale che lo vide autore di diversi testi sulla questione italiana, oltre che di numerosi articoli sulla questione democratica e sociale.
    Il periodico cartista: “The Northern Star” divenne il principale strumento di questa diffusione. Di questa rivista diretta da Julian Harney, non si dava notizia nella pubblicistica italiana prima che Mastellone cominciasse le sue ricerche e questo ha notevolmente inficiato la nostra comprensione del soggetto, in quanto il periodico fu di notevole importanza per tutta l’emigrazione politica residente in Inghilterra. L’emigrazione politica italiana, tedesca, polacca e francese ebbe infatti sempre grande spazio sulla rivista, che poteva vantare contributi di personalità di eccezione: oltre lo stesso Mazzini vi scrivevano infatti costantemente anche Marx ed Engles25.
    E proprio sul Northern Star del 24 luglio 1846 che esce in prima pagina l’ “Adress of the German Democratic Communists of Brussels to Feargus O’ Connor, signed by Engels, P.Gigot, Marx, July, 17 1846”, testo anticipatore del futuro Manifesto e in cui forse per la prima volta si parla di “working class democracy” e “great struggle of capital and labour”26. Quando Mazzini lesse quest’articolo, ne scrisse a John Saunders27, direttore dell’altro periodico influente di area democratica, a cui chiese di poter pubblicare in una raccolta le sue proprie recenti riflessioni sulla democrazia in Europa, che avrà poi come titolo Thoughts on Democracy. Appare quindi verosimile che il Manifesto e i Thougts fossero parte di una controversia politica più ampia, di cui rappresentano il portato ideologico di due approcci democratici diversi, ma di pari dignità intellettuale.
    Le tesi riformiste di Mazzini raggiungono quindi nella loro dialettica col comunismo europeo la loro formulazione più completa ed alta. Questo però indusse forse il Genovese a svalutare la portata dei progetti dei suoi avversari: “Il comunismo ha proseliti tra gli operai tedeschi, ma è sobbollimento non grave di passioni concitate contro l’inetta direzione dei moti rivoluzionari del 1848; e non conta, da Marx infuori, il quale voleva a ogni patto essere caposetta, uomini di potente o maturo intelletto. Per ogni dove gli uomini chiamati ad esercitare una qualunque influenza sugli eventi che si appressano, vivono convinti che l’associazione non può essere se non volontaria; che il governo deve incoraggiarla, ma non comandarla; che ogni uomo o nucleo di uomini voglioso di lavoro deve in una società ben ordinata, trovarlo; che il governo deve tentare di provvederlo dei mezzi e stromenti richiesti all’uopo; che dallo stabilirsi d’una più diretta relazione tra il produttore e il consumatore deve escire vantaggioso per tutti; che una porzione dei mezzi posseduti dal governo dev’essere consacrata a somministrare al povero quel credito, ch’egli oggi mendica con enormi sagrifici e difficoltà ai banchieri e ai capitalisti; ma che tutto questo deve operarsi pacificamente, lentamente senza violazione dei diritti riconosciuti…”28
    Fin qui s’è detto delle divergenze umane e di pensiero tra i due grandi pensatori, più tardi ci occuperemo delle loro ripercussioni sul terreno propriamente politico, in special modo in Italia; tuttavia non ho ritenuto utile chiudere il capitolo senza considerare un’altra e recente lettura di questo soggetto, tendente questa volta a cercare e ricomporre i punti comuni, invece che a ripercorrere le differenze. Marcello Montanari, in un suo recente intervento, presentato al convegno Mazzini e gli scrittori politici europei29 del 2005 si prova infatti, partendo dalle considerazioni di Mastellone che ha sostanzialmente ricondotto Mazzini e Marx nell’orbita di un medesimo contesto, a rinvenire i punti e le strategie comuni tra i due grandi pensatori.
    Anche qui bisogna fare un passo indietro e ripartire dall’Internazionale. Sebbene, come abbiamo visto, dominata già dopo pochi anni da una concezione social – comunista o comunque molto vicina alle analisi di Marx, questa conservava in seno diverse anime e provenienze, non ultime quelle mazziniane e trade – unioniste, tanto vicine dal punto di vista ideologico tra loro. Diversi esponenti di quest’ ultima – gli stessi Odger e Cremer – si distaccarono man mano dall’ associazione, ma prima che il contrasto si consumasse in maniera netta ed irreparabile con la presa di posizione sulla Commune, Mazzini continuò ad invitare i suoi a collaborare col Congresso: “Gli elementi inglesi sono buoni” sebbene vi fosse l’eccessiva presenza di “ un Marx, tedesco, piccolo Proudhon … che non parla se non di guerra da classe a classe”30. Quindi riassumendo anche in questo caso le due concezioni di “socialismo” erano compresenti nel medesimo nucleo.
    Un nucleo che si sfalderà solo dopo l’impatto storico di un evento affatto nuovo per la sua drammaticità e per le sue conseguenze: la Comune parigina. Lo stesso Marx che si fece poi difensore imperterrito dell’esperimento, ebbe da principio dei dubbi su ciò che stava avvenendo in quei giorni del 187131; ma la denuncia da parte di Mazzini dei metodi di dittatura neo – giacobina e dei fini generali del socialismo internazionalista, fu fin da subito perentoria32.
    Gli elementi interni che abbracciarono questa tesi furono immediatamente messi da parte. Questo determinò l’ ”allontanamento coatto” oltre che degli uomini, anche di tutti i principi e le idee che ricordassero il mazzinianesimo: non si parlò più di società interclassista, né di primato della causa nazionale. Questo in nome dei trentamila comunardi uccisi da Thiers.
    È dunque la stessa storia attraverso quei tragici eventi a determinare una netta cesura col passato, attraverso un rinnovamento interno al socialismo europeo prima ed italiano poi, decretando le tesi marxiste le uniche e sole vincenti. Alcune tra le più importanti individualità all’interno del “mazzinianesimo” italiano accusarono il maestro di voler scendere proprio nel momento del trionfo “dal carro rosso della rivoluzione”: uomini come Bertani, Medici, Bixio33, fino a poco tempo prima tra i più vicini alla sua persona e alle sue idee, lasciarono da quel momento in poi il “leader” repubblicano in un enorme isolamento politico, abbracciando in toto la linea “garibaldina”, favorevole ai principi dell’internazionale.
    Questo non ha però impedito delle rivalutazioni postume da parte degli stessi esponenti socialisti che condannarono totalmente la posizione intransigente di Mazzini. È il caso ad esempio di Andrea Costa che nella sua Lettera ai miei amici di Romagna34, scritta nel suo rifugio svizzero, operò un celebre rifiuto dei metodi comunardi e rivoluzionari, avvicinandosi quindi all’eredità mazziniana; egli stesso però non nascose più tardi, nel 1900 come: “Mazzini soprattutto si alienò la parte più calda e generosa della gioventù, cresciuta alla scienza nuova, infierendo contro la Comune caduta, e attribuendo in gran parte alle teorie materialistiche la disfatta della Francia … Ricordate, o Compagni, il 71 ed il 72? – Come aspettavamo trepidanti le nuove di Parigi – come cercavamo gli statuti di questa Associazione Internazionale – come leggevamo con ansia ciò che i giornali stessi degli avversari ne scrivevano – con quale riconoscenza vedemmo Garibaldi prendere apertamente partito pei vinti ed inneggiare all’Internazionale?”35.

    Si è quindi aperta da inizio ‘900, in alcuni ambiti del socialismo italiano una sintesi ideale o almeno un tentativo di conciliazione del programma dell’ Internazionale con le idee associazionistiche e patriottiche di stampo mazziniano. Questo ad ulteriore riprova che il terreno politico di entrambe è evidentemente quello democratico e sociale. Esponenti storici della nomenclatura socialista italiana tentarono con alterna sorte di ricondurre Mazzini nell’alveo della propaganda socialista, ancor prima che la scissione tra socialisti e comunisti rese più facile questa propensione.

    Per ricordare solo alcuni casi possiamo citare Filippo Turati e il suo amico Rodolfo Mondolfo, che cercò sempre una via di mediazione tra i due “padri” : “Pure fra tante incomprensioni e divergenze, il fine ideale di una società del lavoro, sola capace di attuare la umanità consociata ed affratellata nei rapporti fra gli individui ed in quelli fra le nazioni, ravvicinava e accumunava le due dottrine, e rendeva possibile un loro parziale confluire nell’educazione ed ispirazione delle coscienze”36.

    Un altro punto evidenziato nello studio di Montanari è il sostegno di Marx alla causa dell’indipendenza d’Italia: fatto taciuto se non negato da molta parte della storiografia italiana. In molte ed anche autorevoli opere infatti si tende a connettere Marx a simpatie asburgiche37. Il Montanari evidenzia invece come gli unici attestati di stima che Marx elargì all’Esule italiano si debbono proprio alla questione italiana e alla denuncia del sistema monarchico asburgico e dei suoi metodi di repressione. Entrambi vedevano infatti nell’ Austria e nella Russia i due più grandi ostacoli sulla via del progresso umano38.

    Marx scrive in una lettera pubblicata sul Gazzettino Rosa: “Nel 1848 – 49 nella nuova Gazzetta Renana propugnai l causa d’Italia contro la maggioranza del parlamento e della stampa tedesca. Più tardi nel 1853, e in altre epoche assunsi nella New York Tribune le difese di un uomo col quale mi ero trovato in opposizione in quanto ai principi: Mazzini. In una parola, sempre tenni le parti dell’Italia rivoluzionaria, contro l’Austria.”39. A questo aggiunge la successiva delusione datagli dal processo unitario italiano, visto quanto mai in accordo con la linea mazziniana: “La denunziai [la guerra del ’59] come quella che doveva prolungare l’esistenza dell’impero bonapartista di un’altra decina d’anni, sottoporre la Germania al regime della caterva prussiana e fare dell’ Italia ciò che è oggi. Mazzini eccezionalmente fu del mio parere”40. Bisogna quindi scindere i due Marx: quello rispettoso dell’avversario in pubblico, da quello caustico e sarcastico nei giudizi epistolari privati e questo a mio parere senza chiederci quale fosse il più onesto.

    Spadolini analizzando le opinioni di Marx in merito al Risorgimento italiano, ne evidenzia una netta simpatia per la figura di Cavour41, cosa che lascerebbe intendere una qualche convergenza tra il padre del comunismo e l’establishment liberale e monarchico italiano, fautori di una via per l’indipendenza nazionale italiana, in contrasto con la così detta via democratica42, impersonata da Mazzini. Anche qui risulta utile la scissione tra i due Marx, in quanto sebbene il filosofo giudicasse Cavour “uno degli uomini più abili d’Italia”43 nelle corrispondenze private, allo stesso tempo lo svilisce al rango del “più arrendevole dei servi dell’imperatore francese”44 nel pubblico dibattito giornalistico politico, è quindi più vicino alle tesi mazziniane di quanto si sia sin qui pensato, soprattutto sul versante geopolitico e quindi nella comune lotta alla corona austriaca, la cui disgregazione totale è evidentemente nelle speranze di entrambi.

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