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Fenestrelle e il genocidio (inesistente) dei borbonici

Quanti furono i prigionieri di guerra borbonici e papalini che morirono al forte San Carlo di Fenestrelle tra il 1860 e il 1865, dopo il crollo del Regno delle Due Sicilie e la proclamazione del Regno d’Italia? Per Juri Bossuto e Luca Costanzo, autori del saggio “Le catene dei Savoia”, in uscita a settembre con l’Editrice Il Punto-Piemonte in Bancarella, il loro numero ammonta a circa una quarantina. Si tratta dunque di una cifra ben diversa da quella fissata in decine di migliaia di presunte vittime sterminate nei presunti lager sabaudi, che da anni, tra siti Internet e libelli vari, vengono contrabbandate senza il sostegno di alcuna fonte archivistica, o di altro tipo, dalla pubblicistica neoborbonica e antiunitaria. L’anno scorso, sempre in estate, Bossuto e Costanzo avevano anticipato l’esito del loro lavoro basato su documenti parrocchiali, militari e civili dell’epoca, tirandosi addosso insulti e persino minacce. Ora il libro, che peraltro non si limita alla vicenda dei “napoletani” ma prende in esame il sistema carcerario e repressivo piemontese dal 1700 al fascismo, non fa che confermare quelle intuizioni.

di Massimo Novelli da La Repubblica Torino del 3 agosto 2012

Tanto che lo storico Alessandro Barbero, che ha scritto la prefazione, può affermare che il lavoro dei due ricercatori piemontesi “non è soltanto opera di storia, ma necessario intervento civile”, che smonta una “invenzione”: “Parlo d’invenzione, che è parola forte se usata fra storici, e lo faccio a ragion veduta, perché Bossuto e Costanzo dimostrano tangibilmente che per quanto riguarda Fenestrelle ciò che è stato scritto da autori come Fulvio Izzo, Gigi Di Fiore, Lorenzo Del Boca o Pino Aprile è pura invenzione, non si sa quanto in buona fede”. Lo stesso Barbero rammenta di stare conducendo “una ricerca complessiva sullo scioglimento dell’esercito borbonico, il trattamento dei prigionieri e degli sbandati napoletani, e la loro incorporazione nell’esercito italiano, e ogni documento che mi passa tra le mani attesta che i libri di quegli autori contengono, in proposito, innumerevoli inesattezze e falsità, facilmente documentabili e dimostrabili”.

“Circa quaranta decessi in cinque anni tra soldati borbonici, ormai appartenenti ai Cacciatori Franchi (italiani, ndr) e papalini”, ricordano Bossuto e Costanzo, “significavano il doppio di quanto accadeva normalmente” a Fenestrelle. Però “in queste cifre, più che un genocidio etnico, si poteva osservare il macabro frutto di una profonda nostalgia, unita forse ad equipaggiamenti non adatti a quell’ambiente di alta montagna”. Dalla “corrispondenza ritrovata” traspare poi “un’attenzione continua dai caratteri umanitari” verso i militari napoletani, non “tralasciando mai di evidenziare l’essere i prigionieri di guerra soprattutto soldati che meritavano il medesimo trattamento riservato ai commilitoni sabaudi”.

Lo scopo che “si prefiggeva la traduzione dei soldati del “disciolto esercito borbonico” nelle fortezze di Fenestrelle” era “quello di “ricevere, disarmati, una lezione di moralità militare, dopo la quale verrebbero inviati ai Reggimenti” del nuovo Stato italiano. Uno scopo, perciò, “incompatibile con qualsiasi soluzione finale nei loro confronti”. Nel libro viene anche sfatata la “presunta e folle, se fosse vera, prassi di “gettare e sciogliere nella calce viva i soldati napoletani appena giunti a Fenestrelle””, come sostiene “uno dei tanti siti filoborbonici”. La calce viva “posta sui cadaveri era la prassi cui tutte le sepolture dovevano essere soggette per motivi d’igiene, all’epoca”.

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Inserito il 24 settembre 2012

244 Commenti

  1. In quanto alle ricerche di archivio, e’ fin troppo facile intuire che chi commette stragi, cerchi anche di cancellarne le prove. Se non fosse stato trovato per caso l’Inno al Re (quello dedicato a Ferdinando I), cosa si sarebbe detto? che il Regno Duosiciliano non aveva neanche un inno? l’orda barbarica piemontese distrusse tutto cio’ che riguardava i Borbone.

  2. Una delle differenze importanti fra unificazione tedesca ed italiana è il fatto che mentre la prima ha conservato nel nuovo stato l’egemonia dello stato fondatore (la Prussia, che rimase dominante sino al 1918), nella seconda invece questo non è assolutamente avvenuto, tanto che sin da subito la classe dirigente è stata costituita da membri proveniente da ogni regione. Nel II Reich tedesco la Prussia conservò la capitale (Berlino) ed il controllo diretto del ministero della Guerra, che aveva per di più competente in campo economico, diplomatico, scolastico, postale ecc. Al contrario, nello stato italiano la capitale fu spostata prima a Firenze, poi a Roma, e nell’esercito gli ufficiali piemontesi erano una minoranza e se ne contavano da ogni parte d’Italia (mentre nell’esercito prussiano gli alti gradi rimasero quasi un monopolio degli Junker sino al 1918)
    Come nell’ambito militare, anche in quello politico si aveva una classe dirigente rappresentata sin dall’inizio da membri di tutte le regioni. Questa è una caratteristica nota dell’Unità d’Italia, contrastante con quanto avvenne con l’Unità tedesca. L’unificazione tedesca ha conservato alla Prussia un ruolo egemonico, consentito proprio dalla struttura federale, che ha lasciato alla Prussia una serie di prerogative privilegiate. Fra l’altro, il ministero della Guerra, importantissimo anche per la sfera diplomatica, economica e culturale nella Germania dell’epoca, non era affatto “imperiale”, ovvero unitario, bensì soltanto prussiano. La capitale rimase a Berlino e gli Junker aveva una preminenza sociale netta nella classe dirigente.
    Si creò uno Stato federale in cui le entità preunitarie si conservarono eccome: es. rimasero al loro posto il re di Baviera, il conte del Palatinato, il duca di Baden, ecc. Il vero problema è che non tutti i Land erano uguali: il regno di Prussia aveva una predominanza costituzionalmente garantita (il re di Prussia era automaticamente imperatore di Germania e questi deteneva un grandissimo potere rispetto al Parlamento, nel Reichsrat, la camera federale nominata dai governi dei vari Land, aveva una preminenza assoluta la Prussia il cui sistema elettorale a tre classi garantiva il potere degli Junker, la capitale era Berlino, ecc.).
    Al contrario, lo stato italiano sin dall’inizio: 1) ha imposto un’assoluta uguaglianza a tutte le regioni, senza alcuna distinzione 2) ha avuto una classe dirigente mista sin da prima della sua costituzione, perché già quella del regno di Sardegna comprendeva esuli provenienti da ogni parte d’Italia 3) nell’esercito gli ufficiali piemontesi erano già nel 1866 solo la maggioranza relativa, ben lontani da quella assoluta: una minoranza fra minoranze 4) la capitale fu trasferita da Torino prima a Firenze, poi a Roma 5) la denominazione ufficiale dello stato pre-unitario era “regno di Sardegna”, erede legittimo del regno sardo sorto nel pieno Medioevo. Ufficialmente, tutti i sudditi erano detti “sardi” e una delle due bandiere ufficiali (non quella ben nota del Tricolore con lo stemma sabaudo) era appunto quella tradizionale del regno di Sardegna 6) l’unificazione legislativa non ha comportato l’adozione soltanto delle norme e leggi del regno di Sardegna, poiché furono applicate anche molte altre, alcune ex novo, altre provenienti da stati pre-unitari. 7) la classe politica italiana già della Sinistra storica (1876) era costituita in prevalenza da meridionali. 8) la pubblica amministrazione era rappresentata già sotto Giolitti da una maggioranza relativa di meridionali 9) l’esercito e la marina non fecero mai alcuna distinzione

  3. La provenienza di queste 20 divisioni nel 1866 era la seguente:
    -5 erano vecchie divisioni del regno di Sardegna (Piemonte, Liguria, Sardegna)
    -2 erano divisioni arruolate in Lombardia
    -7 provenivano integralmente da eserciti di stati pre-unitari della sola Italia centrale, passati organicamente al nuovo Regio Esercito (Emilia, Romagna, Marche, Umbria, Toscana)
    -6 provenivano dall’Italia meridionale ed erano rappresentate per circa la metà da ex reparti borbonici, passati organicamente al nuovo Regio Esercito. I reparti scelti di queste unità (artiglieria, cavalleria, bersaglieri), che richiedevano professionisti od almeno volontari in ferma lunga, erano tratti quasi per intero da vecchie unità borboniche. Accanto ai militari professionisti o volontari in ferma lunga, queste unità erano costituite da truppe di leva tratte dalle regioni meridionali.
    Queste distinzioni non possono però rendere adeguatamente conto dell’elevato grado di mescolanza degli uomini all’interno dei vari reparti, poiché le truppe di leva venivano arruolate da due distretti militari distinti. Inoltre, gli ufficiali superiori erano spesso spostati a seconda delle esigenze e le “armi dotte” (genio ed artiglieria) richiedevano professionisti altamente preparati. Buon ultimo, circa 1500 ufficiali erano ex garibaldini dell’esercito meridionale di Garibaldi e provenivano da tutta Italia.

  4. L’Italia risulta geneticamente unita da moltissime migliaia di anni, da prima ancora che giungessero gli Indoeuropei. In verità, l’Italia è quel che si definisce “un’isola genetica”, alla pari, in Europa, soltanto con la Finlandia: è un recente studio di genetica ad affermarlo. (http://scenaitalica.forumfree.org/index.php?&s=5d5aebd3fd5e89069236ba44ae82ea26&showtopic=499
    ). Insomma, essa è geneticamente abbastanza unita, molto più di quanto lo siano quasi tutte le altre nazioni europee.
    Durante i secoli, le Alpi hanno fatto da barriera agli spostamenti massicci di popolazioni ed il mescolamento è stato piuttosto basso. I vari popoli germanici invasori, Longobardi in testa, erano numericamente davvero esigui. (cfr. ad esempio il saggio monografico del medievista Stefano Gasparri, “Prima delle nazioni”, che tratta in modo approfondito tale questione)
    Si deve quindi concludere che gli Italiani abbiano, di massima, antenati comuni, contrariamente a quanto olevano i vecchi e pur pregevoli studi di Cavalli-Sforza. Studi di genetica più recenti paiono invece assicurare che l’Italia costituisca entro certi limiti una vera e propria “isola genetica” (è quanto sostiene, fra gli altri il genetista olandese Manfred Kayser con una sua mappa genetica dell’Europa, pubblicata dalla rivista Current Biology), come avviene, in tutta Europa, soltanto con la Finlandia.
    Perciò, sul piano strettamente genetico, l’Italia non solo è unificata da oltre 4000 anni (QUATTROMILA ANNI), ma lo è in misura così forte e radicata da poter essere paragonata in Europa solo ed esclusivamente ad un’altra nazione, la Finlandia.

    È stata ampiamente provata l’esistenza d’una forte identità comune fra le varie popolazioni d’Italia, dalle Alpi al mare, ben prima dell’unificazione romana.
    Storici dell’Italia antica hanno elaborato la tesi cosiddetta del “PAN-ITALIANESIMO”, secondo cui i vari popoli pre-romani (Etruschi, Liguri, Sardi, Corsi, Reti, Italici, Veneti, Latini, persino in parte i Celti ed Greci, che comunque erano MINORANZE giunte in Italia soltanto nel I millennio a.C avanzato, quindi millenni dopo l’insediamento degli altri gruppi etnici maggioritari) avrebbero raggiunto un considerevole grado di unità culturale ben prima dell’unificazione romana. Tale teoria ha avuto il suo pioniere anzitutto in Michel Lejeune, sia storico in senso stretto, sia glottologo (in assoluto uno dei maggiori mai esistiti), il quale ha affermato la comunanza culturale e linguistica fra i diversi popoli d’Italia prima dell’unificazione romanza, conseguente alla mescolanza etnica fra indo-europei e mediterranei ed alla diffusione culturale. La tesi di questo studioso francese ha poi incontrato grande fortuna nell’ambito dell’antichistica [ Una breve presentazione della sua figura si trova in A. PROSDOCIMI Michel Lejeune. L’Italie antique et autre chose encore, in Hommage rendu a Michel Lejeune, Academie des Inscriptions et Belles Lettres (Parigi, 19 gennaio 2001), Parigi 2001, pp.33-41.]
    È questo il parere, fra gli altri, anche del professor Sabatino Moscati, dell’Accademia dei Lincei, autore di una «Archeologia delle regioni italiane». Questi spiega che nella storia d’Italia esiste una costante tendenza all’unità politica ed alla convergenza culturale, indotta dalla stessa configurazione naturale e geografica d’Italia, poiché le Alpi ed il mare costituiscono delle frontiere permanenti e chiare. L’Italia, serrata quasi da ogni parte dal mare e sull’unico lato di terraferma sbarrata dalle Alpi costituisce quindi una specie di “isola continentale”. Sabatini spiega inoltre che su base archeologica è possibile provare sin dalle epoche più remote una notevole omogeneità culturale fra tutte le parti d’Italia, come l’esistenza nell’evo antico dello stesso tipo di steli funerarie dalla valle d’Aosta sino alla Sicilia o di bronzi votivi dal Veneto alla Sardegna.
    Lo scenario sarebbe quindi analogo a quello dell’unione politica raggiunta nel secolo XIX. Esisteva già una “nazione”, differenziata regionalmente, ma con caratteri di fondo comuni. Su di essa, si è poi aggiunta e sovrapposta l’unificazione giuridica e politica. Non si dimentichi che gli Italici, i Veneti ed i Latini avevano origini comuni, e che vivevano assieme ai discendenti degli antichi Mediterranei, pre-indoeuropei (Liguri, Etruschi, Sardi) dal II millennio a.C. Esisteva quindi una grande somiglianza sul piano delle organizzazioni politiche, le forme religiose, le strutture sociali ecc. La cultura greca, che poi si diffuse largamente in Italia, costituì poi un ulteriore base di unità. A tutto questo si aggiunse poi la comune organizzazione politica, militare e giuridica di Roma, e la latinizzazione di tutti gli abitanti d’Italia, completa ormai sotto Augusto. È possibile sostenere che l’Italia quale “nazione” esista da ben più di due millenni, con una sua unità sostanziale costituita da diversi “strati” sovrapposti l’uno all’altro.
    Si può dire che l’Italia come nazione in fieri esistesse già prima della stessa costruzione imperiale romana, che per così dire costruì il proprio edificio su fondamenta preesistenti. Roma quindi non negò e non soppresse le culture sue anteriori, bensì le condusse al loro naturale compimento nella piena realizzazione di un’unità anche politica, giuridica, linguistica e della conscientia sui.

    La distinzione all’interno della nazione italiana di aree regionali quali il “nord”, il “centro”, il “sud” è storicamente piuttosto recente, affermandosi in pratica soltanto dopo l’anno Mille in conseguenza dello sviluppo dello stato pontificio al centro, della conquista normanna al sud (un Mezzogiorno che era stato sino a quel momento la regione di gran lunga più frammentata culturalmente dell’intera Italia), della diffusione di modelli politici e sociali comuni nel settentrione con l’emergere delle città-stato. Nell’Antichità NON si ritrova in Italia alcuna differenziazione del genere. Se esiste in tale epoca una distinzione tendenziale macroregionale essa NON è del tipo nord/sud, bensì EST/OVEST. Infatti, sul versante adriatico si trovavano concentrate le popolazioni indo-europee italiche, dai Veneti ai vari Italici, strettamente imparentate fra loro, mentre invece su quello tirrenico prevalevano quelle pre-indoeuropee, dei Liguri, degli Etruschi, dei Sardi e dei Corsi. Anche questa distinzione è comunque solo tendenziale, poiché popolazioni pre-indoeuropee (di gran lunga le più antiche) esistevano anche sul versante adriatico (è il caso di Reti, presenti in Friuli e sull’arco alpino orientale) ed indoeuropee sul lato tirrenico (è il caso dei Latini).
    Non si può nemmeno parlare di un “nord” celtico e di un “sud” greco. Anzitutto, ambedue queste popolazioni erano giunte in Italia in un’epoca storicamente molto più tarda degli altri. I Veneti, gli Italici ed i Latini erano pervenuti in Italia all’inizio del II millennio a.C., mentre i Mediterranei avevano interamente popolato l’Italia alla fine dell’ultima glaciazione e della scomparsa del Neanderthal (!). Al contrario, i Greci giungono in Italia nell’VIII secolo aC. ed i Celti nel V secolo a.C. Si trattò comunque soltanto di piccole minoranze nel complesso dei popoli della penisola. Il popolamento celtico comprendeva l’area settentrionale dell’attuale Piemonte e Lombardia, l’attuale Emilia e parte della Romagna, parte del Friuli e parte delle Marche. I Greci era presenti quasi esclusivamente sulle coste di parte del sud: soltanto in Sicilia avevano un popolamento esteso anche all’entroterra.
    La stragrande maggioranza degli abitanti dell’attuale Mezzogiorno non era affatto greca, ma costituita da italici, che popolavano la maggior parte dell’Appennino da nord a sud, per non parlare dei Veneti che erano loro molto affini culturalmente e parte del medesimo ceppo d’Indoeuropei, che riuniva assieme Veneti, Latini ed Italici.
    Similmente, la presenza dei Mediterranei tagliava trasversalmente l’Italia da nord a sud. La Liguria, il Piemonte e la Lombardia meridionali erano popolate dai Liguri, la Toscana ed il Lazio settentrionale a nord del Tevere dagli Etruschi, la Corsica dai Corsi e la Sardegna dai Sardi. Ma erano forti ancora in epoca romana le presenze e le eredità etrusche sino in Campania, che era stata abitata dagli Etruschi sulla costa prima che vi giungessero i Greci. È poi noto che Roma, posta proprio al confine meridionale dell’Etruria, assorbì moltissimo della cultura di questo popolo, che i più antichi abitanti di Roma furono in parte Etruschi e che per un certo periodo nell’epoca monarchica fu anzi governata da sovrani etruschi. Liguri, Etruschi, Corsi, Sardi, come anche i più antichi abitatori della Sicilia, poi respinti nell’entroterra dall’invasione greca, erano tutti Mediterranei, con una lingua e costumi simili.
    Per farla breve, se era possibile individuare una certa differenziazione macroregionale nell’Italia antica, essa del tipo EST/OVEST e non certo nord/sud. Queste distinzioni poi non rendono conto affatto della grande molteplicità di situazioni e soprattutto della profonda commistione di culture e popolazioni, che avevano un sottofondo comune, sia GENETICO, sia CULTURALE, come ho spiegato sopra.

    Nessun dubbio in ogni caso che non esista alcun popolo “padano”, di cui non si è avuto mai sentore alcuno per oltre 2000 anni, prima che arrivasse Umberto Bossi, come fatto invece strumentalmente da una propaganda che ha avuto l’ardire di rivendicare rune e miti celtici (i Celti sono stati un popolo invasore), dimenticando, tra l’altro, d’avere avuto proprio in Milano, città romana, una capitale imperiale e in Venezia una figlia primogenita della romanità, d’oriente e d’occidente.
    L’Italia settentrionale aveva piena cittadinanza romana già sotto Augusto e già nei secoli precedenti esistevano al suo interno, come in tutto il resto della penisola, città e popolamenti romani. Dall’Italia a nord del Rubicone provennero, fra gli altri, Virgilio (da Mantova), il più grande poeta latino, Livio (da Padova) e Tacito (dal Piemonte meridionale), i due più grandi storici (Tacito fu anche un importantissimo uomo politico), oltre ad altri autori come Catullo (il fondatore della poesia erotica latina), Plinio il Vecchio (il maggior enciclopedista latino e comandante della flotta imperiale), Plinio il Giovane (squisito letterato dell’epoca traianea), Ambrogio (teologo, letterato, politico d’assoluto rilievo). Dalla EX Gallia Cisalpina provennero imperatori, senatori, legioni intere. La legione “Alaudae”, la più combattiva e fedele di tutte le legioni di Cesare, era stata arruolata in Italia settentrionale, nella cosiddetta “Cisalpina”. Milano divenne capitale imperiale e tale rimase per molti secoli. Quando la Dacia fu romanizzata dopo la conquista di Traiano, con un’eredità plurisecolare che condusse secoli più tardi alla Romania (la terra dei Romani, appunto), la maggior parte dei coloni provennero proprio dalla pianura padana.
    Allo stesso modo con cui NON esiste alcuna “padania”, così non esiste nessuna fantomatica “nazione duosiciliana”. Il termine stesso “duosiciliano” è un neologismo creato in anni recentissimi e del tutto sconosciuto durante l’esistenza del regno delle Due Sicilie. Quando si voleva ricorrere ad una aggettivazione per indicarne gli abitanti si distingueva fra “napoletani”, “calabresi” (vocabolo che all’epoca designava abitualmente tutti gli abitanti del reame borbonico sul territorio continentale al di fuori di Napoli e delle zone vicine) e siciliani. Tutti però erano ritenuti, già all’epoca, essere italiani, così come oggi si distingue fra identità nazionale comune e le identità regionali sottostanti. La consapevolezza d’appartenere ad una medesima nazione, quella italiana, si ritrova nel corso dei secoli costantemente, in tutte le regioni d’Italia, bene espressa dalla sua classe intellettuale, senza differenza fra nord e sud. Basti ricordare ciò che scrivevano sull’Italia Dante, Machiavelli, Vico, oppure che praticamente tutta la classe intellettuale dell’Italia meridionale fu favorevole all’Unità.
    L’Italia intesa come definizione geografica si ritrova da ben prima della conquista romana, poiché si parlava prima anche della sua unificazione politica di Italia quale realtà geografica. Questo si ritrova, ad esempio, in Polibio di Megalopoli. Ma l’Italia intesa quale unità politica ed amministrativa compare già sotto Ottaviano Augusto e continuò ad esistere per tutta romanità imperiale, quindi per altri CINQUE SECOLI. Anche dopo il collasso dell’impero romano d’Occidente continuò ad esistere la convinzione dell’unità culturale ed etnica dell’Italia: sotto Odoacre, sotto i Goti, poi dopo il ritorno dell’Italia al di sotto dell’impero romano, questa volta d’Oriente. Rimando integralmente agli imprescindibili scritti di Sandro Consolato, apparsi su “Politica Romana” anni fa, in merito al ruolo dei Longobardi nella storia italiana. Il re longobardo, a fianco del titolo di “rex langobardorum”, utilizzava anche quello di “rex Italiae” o addirittura “rex totius Italiae” e praticamente dal Regno di Liutprando in poi l’integrazione etnica, politica e linguistica (con l’adozione del volgare romanzo da parte dei secondi) tra italici e longobardi è un processo accettato e irreversibile. Si continuò a parlare di “regnum Italiae” anche dopo la caduta dei Longobardi e sino alle soglie del Rinascimento ed, almeno formalmente, esso continuò ad esistere.

    E’ indiscutibile che tutta l’Italia postromana sia erede e continuatrice di Roma. Questo è già dimostrabile sul piano linguistico. Tranne le piccolissime minoranze alloglotte (francesi, austriache, slave, greche, albanesi,che tutte assieme arrivano al 4% del popolamento d’Italia), tutte le lingue locali italiane, i “dialetti”, derivano dal latino, sono quindi lingue neolatine o romanze. Inoltre, esse appartengono tutte ad una medesima famiglia linguistica, definita dai glottologi italo-romanza, che abbraccia tutte le lingue locali dalle Alpi alla Sicilia.
    Inoltre, esistono due lingue nazionali, italiano letterario e latino.
    La lingua italiana può ben dirsi latino moderno, poiché i rapporti che la legano all’idioma dei Romani sono ben più numerosi e forti della semplice derivazione da quest’ultimo della maggior parte dei lemmi italiani deriva da quelli della lingua latina, che pure è già di per sé sufficiente a qualificare l’italiano quale neo-latino o romanzo. Le regole grammaticali della lingua italiana furono fissate molto presto, già nel Rinascimento, e furono degli umanisti a farlo. Costoro modellarono consapevolmente la sintassi italiana su quella della lingua latina, che avevano assunto a paradigma esemplare. Figura centrale fu quella di Pietro Bembo, buon scrittore in italiano ma grande latinista.
    Si possono portare molti esempi delle conseguenze di tale scelta. La struttura della frase è molto più breve in inglese che in italiano, lingua in cui sono frequenti periodi di notevole complessità sintattica raggiunti attraverso la coordinazione e la subordinazione. Tale impianto deriva direttamente dalla lingua latina e per la precisione dalla concinnitas, assunta quale modello dagli umanisti rinascimentali e ben differente dal fraseggiare prevalentemente mono-proposizionale di altri idiomi.
    Non si può neppure sostenere l’idea di una radicale diversità sintattica fra latino ed italiano dovuta all’assenza dei casi in quest’ultimo. In realtà, il latino era, come tutte le altre lingue analoghe, diversificato al suo interno in determinate varianti: il latino letterario, il latino quotidiano, il latino giuridico, il latino volgare (sermo vulgaris), il rustico (sermo rusticus), il militare (sermo castrensis) ecc. È ciò che avviene anche nell’italiano contemporaneo, od in altre lingue, con una differenziazione di linguaggi a seconda dell’ambiente sociale, dell’educazione, del contesto. Il latino incomparabilmente meglio conosciuto è, per ovvie ragioni, quello letterario, che ha lasciato come testimonianza di sé una grande letteratura folta di nomi illustri, mentre gli altri sono pochissimo noti, tramite le poche attestazioni presenti in testi letterari, nonché epigrafi di varia provenienza. Tuttavia, è assodato come nel latino rustico ed in parte in quello quotidiano i casi fossero adoperati con molta flessibilità, od addirittura tralasciati. Il latino orale frequentemente ometteva le desinenze finali ed attribuiva il valore grammaticale ai vocaboli su base posizionale. Un discorso analogo si può compiere per l’uso dell’articolo, assente nel latino letterario, ma presente di fatto in quello quotidiano o rustico (unus quale articolo indeterminativo è impiegato addirittura nelle Metamorfosi del raffinatissimo poeta Ovidio). L’italiano nella sua costruzione ha attinto da tutte le varie forme di latino esistenti, seppure con diversa intensità. Alcuni suoi lemmi o date strutture sintattiche derivano dal latino letterario, altre invece dal latino quotidiano, rustico, volgare, giuridico, militare ecc. Ad esempio, l’aggettivo “equino” discende dal letterario equus, mentre il sostantivo “cavallo” deriva da caballus, del sermo rusticus, e “palafreno” da palafrenus, del sermo castrensis.La grammatica italiana è quindi molto simile a quella latina, sia per il tramite della sua rielaborazione teorica e letteraria modellata sull’esempio dei classici antichi, sia attraverso la sua derivazione dalle varie forme di sermones antichi diversi da quello illustris.
    Un altro aspetto dell’italiano derivante dal latino è il suo vocalismo, nonché la ricerca dell’eufonia: questo è anzi di derivazione letteraria. Oggigiorno esiste la prassi di leggere mentalmente, la cosiddetta lettura silenziosa o mentale, mentre, almeno sino al secolo XIV incluso, l’abitudine era quella di leggere ad alta voce. Questo comportava la ricerca da parte degli scrittori, in poesia ed in prosa, di specifici effetti vocali. Il brano non doveva soltanto rispondere a criteri di bellezza estetica quali oggigiorno si è abituati a valutare in un testo scritto, ma essere letteralmente musicale. Infatti, sia nel mondo antico, sia in quello medievale e rinascimentale, le pubbliche letture di poeti erano, spesso, accompagnate dal suono soffuso di strumenti musicali. È nota la musicalità sonora attribuita alla lingua italiana, la quale ha le sue radici nella sua natura precipuamente letteraria. I poeti o scrittori italiani, almeno sino ad una certa epoca (XVII secolo) s’ispiravano anche in questo ai modelli della latinità, anzitutto Virgilio e Cicerone, e pertanto selezionavano i lemmi, li modificavano o li combinavano, al fine d’ottenere un linguaggio gradevole all’udito ovvero musicale. Può essere utile per valutare l’importanza di tale operazione riportare un semplice esempio: il grande Monteverdi, fra i padri della lirica, trasse ispirazione nella formazione di questo “nuovo” genere canoro dai testi di Torquato Tasso e dalla loro peculiare cadenza ed espressività. Gli esempi riguardanti il rapporto fra poesia e musica italiane nei secoli passati, specie nel periodo compreso fra il Petrarca ed il Metastasio, potrebbero facilmente moltiplicarsi ad libitum, tanto che il petrarchismo letterario è stato spesso studiato in riferimento ai suoi contenuti musicali.
    Ancora, il latino costituisce accanto all’italiano la seconda lingua nazionale d’Italia. Si scritto e parlato ininterrottamente in latino sino almeno al secolo XVIII e la letteratura in questa lingua prodotta sul suolo peninsulare nel Medioevo e nell’età moderna è d’immense proporzioni. In questo modo, il latino ha rappresentato per secoli una bussola indispensabile anche per l’impiego dell’italiano stesso, specie al di fuori della Toscana. Ancora nel 1824 Giacomo Leopardi poteva giustificare sue scelte linguistiche, non contemplate nel Vocabolario italiano dell’Accademia della Crusca, ricorrendo al vocabolario latino del Forcellini.
    Si può quindi sostenere che l’italiano sia a tutti gli effetti latino moderno. Esso deriva dalla lingua latina degli antichi Romani, da cui riprende la maggior parte dei propri vocaboli, il proprio impianto grammaticale e sintattico, il vocalismo. Inoltre, sino al secolo XVIII almeno in Italia si è scritto e parlato ininterrottamente in latino e questa lingua ha servito da modello paradigmatico per quella italiana. Ancora, tutte le lingue locali o vernacolari italiane (i dialetti) sono d’origine neo-latina, esattamente come l’italiano letterario. I linguisti infatti le classificano per intero all’interno del gruppo linguistico detto italo-romanzo, derivato dal latino e costituente una famiglia a sè stante all’interno del più ampio raggruppamento delle lingue neo-latine. Questo costituisce fra l’altro un’ulteriore prova dell’esistenza di una nazione italiana e della sua unitarietà culturale, già espressa a livello linguistico.
    Sebbene il latino sia a tutti gli effetti la seconda lingua nazionale italiana, anzi si potrebbe dire la prima, esso conserva il carattere d’idioma cosmopolita per eccellenza. Il latino è alla base di tutte le lingue neo-latine, estremamente diffuse nel mondo, più dell’inglese stesso (lo spagnolo ha più parlanti di madre lingua che non l’inglese, mentre francese, portoghese ed italiano sono comunque conosciutissimi nei paesi esteri). Inoltre, il latino è la lingua ufficiale del cattolicesimo, religione universale Ancora , esso è la lingua della letteratura fondatrice delle letteratura europee ed è rimasta sino all’epoca moderna avanzata la lingua culturale, scientifica e giuridica per eccellenza.

    Si può quindi concludere che la storiografia consente d’affermare con certezza come esistesse un’unità sostanziale fra i vari popoli abitanti l’Italia già prima dell’unificazione romane, dovuta sia alle loro origini in buona misura comuni, sia al loro progressivo “amalgama”: è la tesi del pan-italianesimo. La posteriore unità politica romana condusse ad un ulteriore processo unificante, con la latinizzazione di tutti gli abitanti, sia sul piano giuridico e politico, sia linguistico, culturale e della coscienza di sé. Sono quindi mistificanti ed illusorie le rivendicazioni localistiche fondate su di un passato immaginario di separatezza: l’Italia come nazione esiste almeno dai tempi di Ottaviano Augusto e come unità culturale ha tranquillamente più di 2500 anni.

  5. Luigi ha scritto troppe volte ” ci ” , anche il vittimismo ha un limite , poi si perde di dignita’ . Contento lui … A me sembra evidente che non si puo’ fare una discarica senza che non se ne accorga qualcuno . Evidentemente Luigi pensa che i sindaci , guardie municipali , e quant’altro non se ne accorgono . Che il sud sia amministrato da padani ? Del resto non sono anni che sostengono che i generali di franceschiello hanno tradito? Che li abbia nominato bossi ?

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