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Fenestrelle e il genocidio (inesistente) dei borbonici

Quanti furono i prigionieri di guerra borbonici e papalini che morirono al forte San Carlo di Fenestrelle tra il 1860 e il 1865, dopo il crollo del Regno delle Due Sicilie e la proclamazione del Regno d’Italia? Per Juri Bossuto e Luca Costanzo, autori del saggio “Le catene dei Savoia”, in uscita a settembre con l’Editrice Il Punto-Piemonte in Bancarella, il loro numero ammonta a circa una quarantina. Si tratta dunque di una cifra ben diversa da quella fissata in decine di migliaia di presunte vittime sterminate nei presunti lager sabaudi, che da anni, tra siti Internet e libelli vari, vengono contrabbandate senza il sostegno di alcuna fonte archivistica, o di altro tipo, dalla pubblicistica neoborbonica e antiunitaria. L’anno scorso, sempre in estate, Bossuto e Costanzo avevano anticipato l’esito del loro lavoro basato su documenti parrocchiali, militari e civili dell’epoca, tirandosi addosso insulti e persino minacce. Ora il libro, che peraltro non si limita alla vicenda dei “napoletani” ma prende in esame il sistema carcerario e repressivo piemontese dal 1700 al fascismo, non fa che confermare quelle intuizioni.

di Massimo Novelli da La Repubblica Torino del 3 agosto 2012

Tanto che lo storico Alessandro Barbero, che ha scritto la prefazione, può affermare che il lavoro dei due ricercatori piemontesi “non è soltanto opera di storia, ma necessario intervento civile”, che smonta una “invenzione”: “Parlo d’invenzione, che è parola forte se usata fra storici, e lo faccio a ragion veduta, perché Bossuto e Costanzo dimostrano tangibilmente che per quanto riguarda Fenestrelle ciò che è stato scritto da autori come Fulvio Izzo, Gigi Di Fiore, Lorenzo Del Boca o Pino Aprile è pura invenzione, non si sa quanto in buona fede”. Lo stesso Barbero rammenta di stare conducendo “una ricerca complessiva sullo scioglimento dell’esercito borbonico, il trattamento dei prigionieri e degli sbandati napoletani, e la loro incorporazione nell’esercito italiano, e ogni documento che mi passa tra le mani attesta che i libri di quegli autori contengono, in proposito, innumerevoli inesattezze e falsità, facilmente documentabili e dimostrabili”.

“Circa quaranta decessi in cinque anni tra soldati borbonici, ormai appartenenti ai Cacciatori Franchi (italiani, ndr) e papalini”, ricordano Bossuto e Costanzo, “significavano il doppio di quanto accadeva normalmente” a Fenestrelle. Però “in queste cifre, più che un genocidio etnico, si poteva osservare il macabro frutto di una profonda nostalgia, unita forse ad equipaggiamenti non adatti a quell’ambiente di alta montagna”. Dalla “corrispondenza ritrovata” traspare poi “un’attenzione continua dai caratteri umanitari” verso i militari napoletani, non “tralasciando mai di evidenziare l’essere i prigionieri di guerra soprattutto soldati che meritavano il medesimo trattamento riservato ai commilitoni sabaudi”.

Lo scopo che “si prefiggeva la traduzione dei soldati del “disciolto esercito borbonico” nelle fortezze di Fenestrelle” era “quello di “ricevere, disarmati, una lezione di moralità militare, dopo la quale verrebbero inviati ai Reggimenti” del nuovo Stato italiano. Uno scopo, perciò, “incompatibile con qualsiasi soluzione finale nei loro confronti”. Nel libro viene anche sfatata la “presunta e folle, se fosse vera, prassi di “gettare e sciogliere nella calce viva i soldati napoletani appena giunti a Fenestrelle””, come sostiene “uno dei tanti siti filoborbonici”. La calce viva “posta sui cadaveri era la prassi cui tutte le sepolture dovevano essere soggette per motivi d’igiene, all’epoca”.

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Inserito il 24 settembre 2012

244 Commenti

  1. Certo che Bossuto e Costanzo hanno una bella “faccia tosta” a scrivere sui “martiri Borbonici di Fenestrelle” e, alla stregua diquel “branco di scrittori salariati e prezzolati”
    di regime, a ridurne a poche unità quei poveri infelici che
    furono immolati alla colonizzazione (e non unità) e alla depredazione del Sud (dai cosidetti “fratelli d’italia”).
    Ed ecco, sotto, cosa ne pensano i Neo-Borbonici.
    Nupo da napoli

    FENESTRELLE: libri inutili e una memoria necessaria.
    Un libro di tali Bossuto, consigliere regionale di Rifondazione Comunista, e Costanzo, guida turistica proprio a Fenestrelle ed esperto di minoranze linguistiche, attacca la “pubblicistica neoborbonica e antiunitaria” che “senza il sostegno di fonti archivistiche o di altro tipo” avrebbe diffuso (“non si sa quanto in buona fede”) l’“invenzione” delle migliaia di vittime cadute, tra i soldati napoletani imprigionati, nella fortezza-lager di Fenestrelle in Piemonte. Seguirà, allora, qualche osservazione sul testo che abbiamo appena finito di leggere con attenzione e che vi invitiamo a non acquistare per evitare di andare incontro all’esigenza da scoop degli autori, esigenza dimostrata già da un particolare non irrilevante: il testo (438 pagine) dedica alla questione dei “soldati borbonici” ingigantita dai media locali solo 27 pagine occupate, in gran parte, da testi che già conosciamo (in testa quello di Fulvio Izzo). A questo proposito è significativo il tentativo operato qualche ora fa dalla casa editrice che ha linkato sul nostro gruppo facebook “Neoborbonici Gruppo Ufficiale” la pubblicità del suo libro a caccia, ovviamente, di sponde polemiche e pubblicitarie confermate dallo stesso (ambiguo) titolo (“Le catene dei Savoia” ).
    Uno degli aspetti più interessanti del libro in questione è collegabile a quella che possiamo definire “eterogenesi dei fini”. Già sulla copertina sono messe in risalto le esecuzioni atroci e spettacolari, le punizioni “contro gli oziosi o la verminia che ricopre i detenuti”… La parte “migliore” del testo, infatti, è proprio nell’analisi spesso cruda che fa del durissimo sistema carcerario sabaudo.
    Interessanti anche certe affermazioni utili per ricostruire la Torino del passato vista da Torino e ricca di spunti che sembrano più legati ai peggiori luoghi comuni sulla capitale delle Due Sicilie che alla “avanzatissima” (per gli storiografi ufficiali) capitale sabauda : “Torino era una città flagellata da vagabondi che dormivano sotto i portici con l’immigrazione dalle campagne che vi portava disagio e miseria” (p. 16) con la moltiplicazione di misure “contro i giovani oziosi” e di “carceri a regime speciale”. (p. 17). Mentre a Napoli, allora, più o meno negli stessi anni, giuristi di fama internazionale potevano farci vantare primati come quello relativo alla motivazione delle sentenze, tra i sudditi dei Savoia, ancora nella seconda metà del Settecento, si usavano tecniche come “il trascinamento a coda di cavallo, le tenaglie infuocate, le ruote sul petto, lo scannamento dei prigionieri, la rottura di ossa, le decapitazioni con le teste recise accanto alle braccia e nelle gabbie” (abitudine consolidata e duratura, come dimostrano le “decapitazioni per comodità di trasporto” praticate ai danni dei nostri “briganti” post-unitari: cfr. Busta 60 Fondo Brigantaggio Ufficio Storico Stato Maggiore dell’Esercito Italiano). “Per trattare così i carcerati… meglio sarebbe fugilarli tutti che fargli morire a così lenta maniera”, tra febbri, malattie, sudiciume e marciume (p. 93). Le stesse “tecniche” resistono, nonostante riforme teoriche e inutili interventi, ancora nel 1820 (p. 113), nel 1834 e fino alla metà dell’Ottocento (p. 208), anche con la diffusa pratica delle “cinghiate e delle bretelle” e i condannati (in gran parte politici) “in condizioni di brutalità assoluta” (p. 153). Ancora nel 1845 “catene ignominiose e insetti che rodevano le carni” (p. 171). Ad Alessandria (uno dei luoghi di deportazione dei soldati borbonici), le “celle sembravano loculi” e tra il 1846 e il 1852 morirono 246 detenuti sui 1294 ingressi (p. 196) e ancora “catene con 18 maglie di ferro dai piedi al fianco” e “bastonature” istituzionalizzate che spesso procuravano ferite e paralisi permanenti (p. 213). La Commissione di Statistica del 1828/1837 rilevava il 20% dei decessi nei bagni penali per cause varie (a Fenestrelle, in particolare, per “malattie respiratorie e crolli organici”): “tavole di legno (il governo non forniva pagliericci) sudicie, umide e catene anche di notte” erano norma e prassi almeno fino al Codice Zanardelli del 1889 (cfr. pp. 217-222).
    Il tutto rende quasi surreale (se non comica) l’affermazione di tale prof. Barbero (docente ed esperto di storia medioevale) che dimostra, forse, di non aver letto il libro che introduce e cita (ancora e addirittura) Gladstone, affermando che il quadro sabaudo delle prigioni era di certo, però, meno tragico di quello che l’inglese trovò a Napoli nel 1851”: la famosa “negazione di Dio eretta a sistema di governo”; giudica, inoltre, come delle sciocchezze le tesi del “complotto inglese” e “quelle consolatorie che hanno trovato in questi anni larghissima eco nella pubblicistica neoborbonica contribuendo alla confusione mentale e alla selvaggia parzialità dei dibattiti sul Risorgimento”. Barbero, tra l’altro, dimostra di non aver letto i libri anche di suoi eminenti colleghi universitari in merito alle mire britanniche (su tutti l’ultimo testo di E. Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee ) e di non sapere che lo stesso Gladstone avrebbe negato di essere stato nelle nostre carceri (con una visita che non ha mai trovato, tra l’altro, alcun riscontro documentario)…
    Significative anche le prime parole degli autori a proposito di Fenestrelle: “Le tante vittime della monarchia [sabauda] decedute nella fortezza per avere espresso il loro pensiero non sono mai state oggetto di commemorazioni… Un’unica eccezione per i militari borbonici” (pp. 359 e sgg.). Come dire: ma come si permettono o come gli è venuto in mente addirittura di ricordare i loro caduti e di onorarne la memoria? E a seguire: “i siti borbonici” [quali? Nel “mare magnum” di internet tutto è possibile ma tutto deve essere dimostrato, a meno che non cerchiamo scoop a tutti i costi, “non si sa quanto in buona fede”, per parafrasare un’affermazione cara agli autori] “scrivono di soluzione finale o di sterminio etnico” o di “angherie infernali delle guardie” o dell’uso di “gettarli nella calce viva allo scopo di eliminarli brutalmente” ma si tratterebbe, sempre secondo gli autori, di “mistificazioni a fini politici”. Premesso che queste tesi potrebbero rispondere ad una banale “mistificazione a fini commerciali”, qualche domanda: risulta agli autori una qualche candidatura politica di uno pseudo-partito neoborbonico o di qualcuno degli autori dei libri “neoborbonici” negli ultimi 151 anni? Se i nostri soldati caduti (comunque migliaia) non sono caduti inciampando per le strade dei loro paesi, ma solo perché deportati in quanto “soldati napoletani”, trattasi di incidenti casuali o di “sterminio”, per giunta “etnico” derivato da una soluzione che fu comunque (per loro) “finale”? O forse hanno letto da qualche parte che i “soldati borbonici venivano messi vivi nella calce” piuttosto che, morti, “nella calce viva”, visto che era (come scrivono anche loro) una pratica diffusa per motivi igienici?
    In questo senso, allora, dove sarebbero le “invenzioni” del libro, per fare solo un esempio tra i libri più diffusi degli ultimi anni e citato dagli autori (“Terroni” di Pino Aprile)? Si trattò effettivamente dei “primi campi di concentramento e sterminio in Europa istituiti da italiani del Nord, per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a migliaia, forse decine di migliaia squagliati –non si sa perché- nella calce”)…
    Sorvoliamo sulla sintesi troppo sintetica e superficiale della storia italiana (l’epopea dei “mille”, i -falsi- plebisciti o addirittura le citazioni dello “scienziato” Lombroso -sconfessato sostenitore della teoria della inferiorità della razza meridionale – o anche il “brigantaggio – quando si cita il probabile passaggio a Fenestrelle della brigantessa Maria Oliverio morta dopo 15 anni di permanenza – come “simbolo del disagio del mondo contadino” e così via…) e andiamo al cuore della questione. Viene ribadito più volte che quei soldati borbonici erano destinati unicamente ad essere “addestrati ed arruolati” dopo una necessaria “lezione di moralità militare”, uno scopo “incompatibile con qualsiasi soluzione finale”. Come se chi militasse negli eserciti non sabaudi non fosse moralmente adeguato (e forse qui prevale la teoria lombrosiana coeva della inferiorità della razza meridionale, utilizzata ancora da qualcuno ai tempi nostri) e come se le deportazioni non fossero di per sé, per le conseguenze drammatiche e oggettive (volute e non volute) una “soluzione finale”.
    Tornando a Fenestrelle (per fortuna solo metaforicamente), se nel periodo francese era già “uno dei bagni penali più duri dell’intero dipartimento” (p. 91) “con l’umidità che divorava calce e persone” (p. 248); se nel 1830 furono numerose le richieste per “tutelare la salute delle guardie” (!) (p. 320); se nel 1840 il “giornale degli ammalati” registrava (in piena estate, tra giugno e agosto) ben 1668 ammalati (p. 337), quando, perché e come, in pochi anni, quel forte si sarebbe trasformato in albergo a cinque stelle? Se il numero medio dei suoi “abitanti” non superava le 800 unità (tra guardie e prigionieri) (p. 366), quali conseguenze poteva avere la permanenza negli stessi ambienti di 1300 persone (personale escluso)? Ancora paradossali e quasi involontariamente comiche (se non si trattasse di certe questioni) le affermazioni con le quali gli autori esaltano quei documenti nei quali si rivela, verso i soldati borbonici, “un’attenzione continua dai caratteri umanitari” o addirittura “affabilità e amorevolezza”: a Fenestrelle? Il simbolo (come ci dicono gli autori), fino a qualche mese prima, della più estrema crudeltà del sistema carcerario sabaudo? A 1250 metri e senza divise invernali? E se tutto era così “umanitario” e lineare (arresto, formazione, arruolamento), perché i soldati napoletani organizzarono una rischiosissima rivolta il 22 agosto del 1861? Non risulterebbero “esecuzioni capitali” per i 260 responsabili, ma neanche si sa che fine avrebbero fatto… A proposito di cifre, uno degli autori, sempre “non si sa quanto in buona fede” e forse sempre per “fini commerciali”, era già “uscito” presso qualche quotidiano locale per annunciare che i morti dei Fenestrelle (luglio 2011) “erano solo 4” salvo, poi, correggersi (luglio 2012, poco prima dell’uscita del libro) aggiungendone altri 40… Le fonti di queste notizie e del numero dei morti (già al centro di una diffusa ricerca di storici “borbonici” oltre 10 anni fa) sono sempre le stesse: o le corrispondenze o i registri parrocchiali o i “ruolini dei soldati”, ben sapendo, però, che trattasi di documenti quasi sempre parziali, per quel che ne resta delle lettere e per quello che si è potuto compilare e resta in un registro o in un ruolino se è vero che gli stessi ufficiali di Fenestrelle si lamentano per la mancanza degli stessi ruolini e per l’impossibilità di registrare in qualche modo i soldati (pp. 361 e sgg.). Secondo gli autori, il “destino dei prigionieri fu un intrecciarsi di invii ospedalieri e trasferimenti ai reggimenti” ma è forse qui l’errore di fondo: il destino “archivistico” dei prigionieri fu quello, ovvero: abbiamo solo i documenti (e parziali) dei prigionieri ospedalizzati o trasferiti ai reggimenti. E i tanti senza ruolini che non si riuscì, come detto, neanche a registrare? E, per fare solo un esempio, i tanti che, prima di Fenestrelle, durante il trasporto da Napoli a Genova si lanciarono in mare fino a rendere addirittura necessario un apposito servizio di controllo? “A Rimini il mal umore nei soldati giunge fino alla disperazione di darsi la morte. Parecchi si sono annegati nel mare volontariamente. Sicché dovettero le autorità porre delle guardie in piccole barchette per impedire simili eccessi” (“L’Armonia”, 1861). E qui vengono fuori i tragici dubbi sul destino dei tantissimi “borbonici sbandati” o dei “refrattari borbonici che giungevano in grandissimo numero” (“Gazzetta del Popolo” già nell’agosto del 1861).
    Gli autori evidenziano come un dato positivo il fatto che, da “prigionieri di guerra”, lo status burocratico di quei soldati passò in poco tempo a quello di “militari napoletani” (in gran parte come “cacciatori franchi”): si trattò, invece, di un efficace rimedio per adottare contro i nostri antichi compatrioti, soluzioni e rimedi più “drastici” riservati a quelli che potevano non essere considerati più prigionieri di guerra ma “traditori” o, peggio, “disertori” ostinandosi nel loro rifiuto di integrarsi nell’esercito che giustamente consideravano “nemico”. E sono in corso nostre approfondite e decennali ricerche archivistiche per accertare, anche “incrociando” fonti e archivi, quale destino gli fu riservato.
    A questo punto, è necessario qualche appunto sulle fonti e sui necessari confronti, lontani il più possibile dalla sindrome della “miopia dell’archivista” con la quale chi studia un documento se ne innamora al punto da non guardare più gli altri eventuali documenti o le altre fonti già esistenti sul tema. La ricerca archivistica, come sa bene solo chi frequenta gli archivi per decenni e assiduamente, è spesso una ricerca “in negativo”: sono più numerosi, cioè, i documenti che mancano e che o sono scomparsi o sono altrove, piuttosto che quelli che abbiamo la fortuna di ritrovare. E i documenti che abbiamo sotto gli occhi e che magari trascriviamo con fatica e passione (è il caso, ogni tanto, anche del testo che stiamo analizzando), non possono rappresentare quelli che non abbiamo: se la “pratica della bastonatura”, allora, era diffusa e “legalizzata”, può darsi che ritroviamo dei documenti che la descrivono ma è altrettanto probabile che se qualcuno oltrepassava la “legalità” di quella pratica, soprattutto in contesti militari, decidesse di non lasciare tracce documentarie. E se ci risulta un documento in cui un ufficiale racconta la nostalgia di un militare borbonico con umanità, quanti ufficiali non hanno raccontato il loro disprezzo (o le loro punizioni) verso gli stessi soldati? Del resto, più “illegali” erano le pratiche finalizzate alla punizione o alla eliminazione di quei soldati nemici, meno sono le “prove” archivistiche rintracciabili, come ci dimostrano storie e stermini anche più attuali (quali archivi conservano i documenti dei morti dei massacri nazisti o comunisti?). Qualche dato, infine, a proposito del dramma ancora sconosciuto dei soldati borbonici.
    Senza considerare le fonti che riportano le dichiarazioni, nel 1861, del ministro piemontese Della Rovere (“ottantamila soldati” dell’ex esercito borbonico che si sarebbero rifiutati di passare con i sabaudi), già nell’ottobre del 1860, a migliaia, erano stati deportati nei depositi di Napoli o nelle carceri e in seguito trasferiti con il decreto del 20 gennaio 1861 che istituì “Depositi d’uffiziali d’ogni arma dello sciolto esercito delle Due Sicilie”. Stipati nelle navi come bestie e sbarcati a Genova, laceri ed affamati, venivano smistati nei vari campi di concentramento di San Maurizio Canavese, Alessandria, San Benigno (Genova), Bergamo, Milano, Forte di Priamar (Savona), Parma, Modena, Bologna e, naturalmente, di Fenestrelle. Nel novembre del 1860 già 1600 soldati borbonici sono a Milano, 1000 a Bergamo; una circolare del novembre del 1860 preannunciava “l’arrivo di parecchie migliaia di prigionieri napoletani tenendo presente che un numero considerevole era già a Fenestrelle, Alessandria, Milano, Bergamo” (p. 376). Nel settembre del 1861 oltre 3.000 erano i soldati delle Due Sicilie nel campo di San Maurizio e nel mese successivo arrivarono a 12.447.
    Il 19 novembre del 1861 il generale Manfredo Fanti, inviando un dispaccio al Cavour, chiedeva di noleggiare all’estero dei vapori per trasportare a Genova 40.000 prigionieri di guerra. 11.550 uomini dopo l’assedio di Capua furono avviati a piedi a Napoli per essere trasportati in uno dei porti di Sua Maestà il re di Sardegna (cfr. A. Comandini, L’Italia nei Cento Anni (1801-1900) del secolo XIX giorno per giorno illustrata, 1990-1909 e Enrico Della Rocca, Autobiografia di un veterano, 1897). Si tratta di quei “bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti che, sbarcati, vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato… trattati come animali, ammassati nei bastimenti, tenuti senza cibo e acqua per giorni, i poveri meridionali, colpevoli soltanto di essere rimasti ostinatamente fedeli al loro Re, vennero sbattuti in terre sconosciute, fredde, in campi di concentramento inospitali e, soprattutto, lontano dai loro affetti e dai loro cari” (cfr. Civiltà Cattolica, Edizione pubblicata a Napoli, 2000). Nel gennaio del 1861 risulterebbero 1700 ufficiali borbonici e 24000 militari di truppa senza considerare i (numerosissimi) “sbandati” e i non meno di 17000 soldati delle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella. “Verso la metà di Gennajo arrivarono a Genova i convogli dei soldati napolitani, in numero pressoché di 20. 000 uomini. Di questi si formò in principio due grandi depositi nella riviera della Liguria: l’uno a Savona, sotto la direzione del colonnello Nicola Ardoino, l’altro a Chiavari, comandato dal colonnello Pietro Guattari. Secondo un quadro approssimativo, che fu diretto al ministro della guerra, risulta che il numero degli ufficiali napolitani ammogliati ascendeva alla rispettabile cifra di 1700 e che quello dei soldati che si trovavano nello stesso caso non era forse minore di 24 mila. Giusta le medesime informazioni gl’invalidi della stessa armata avrebbero fra tutti un numero di figliuoli non minore di tremila” (Cronaca della guerra d’Italia, Rieti, 1862)
    E il problema resta e resiste addirittura nel 1869 e ancora nel 1872 se il governo italiano trattava la complicata questione della costituzione di una “colonia penitenziaria” prima in Patagonia, poi in Tunisia, sull’isola di Socotra o in Borneo perché (parole del sen. Giovanni Visconti Venosta, più volte ministro degli Esteri) “Presso le nostre impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte”. Utile sottolineare che lo stesso governo raccolse puntualmente e vergognosamente i rifiuti indignati di mezzo mondo di fronte a quella proposta (cfr. i numerosi Documenti Diplomatici Italiani e le “lettere riservate”, Ufficio Storico Marina Militare Italiana).
    Evidentemente si trattava ancora di migliaia di “refrattari” (altro che “giuramento ai Savoia prestato da molti e con entusiasmo”, come risulta da un -unico- documento riportato nel testo) con la progressiva e drammatica aggiunta dei nostri “briganti”.
    Quello che non torna, dopo tanti (troppi) anni e dopo la lettura del testo di Bossuto e Costanzo, è il numero dei nostri soldati: se (decisamente per difetto) non meno di quarantamila soldati furono trasportati, deportati, ricoverati, arruolati o imprigionati al Nord, quanti di essi furono assassinati, fucilati o feriti? Quanti di essi morirono nelle carceri, nei campi di concentramento-lager dei Savoia? Quanti ne morirono per quelle ferite o dopo le malattie inevitabili per la promiscuità e la durezza delle condizioni imposte? Quanti tornarono effettivamente a casa? E se qualcuno sostiene che a casa vi tornarono o che furono arruolati nel nuovo esercito, perché oltre 10 anni dopo, ancora si cercava di spedirli in Patagonia a migliaia? E cosa gli successe dopo i (vani) tentativi di esiliarli visto che non c’era, evidentemente, la volontà di liberarli?
    E’ certo, allora, che le ricerche (serie e doverose) devono continuare, ma è altrettanto certo che molte (troppe) migliaia di nostri soldati (in grandissima parte giovani e giovanissimi: il cuore materiale e morale della società meridionale post-unitaria) furono vittime di un massacro ingiusto e ingiustamente dimenticato con danni incalcolabili sia morali che materiali.
    E’ chiaro, allora, che le accuse di “mistificazione” o “invenzione non si sa quanto in buona fede” o ad “uso e consumo di passioni ed interessi” (altro che “versioni differenti della storia”, come sostiene la casa editrice per giustificare la sua pubblicità sui nostri gruppi facebook!) rivolte a chi da decenni sta cercando, con fatica e sacrifici personali, di portare (dopo 151 anni di colpevoli silenzi) fuori la verità storica sulla storia del Sud pre-unitario, sul processo di unificazione e anche sui nostri soldati massacrati e dimenticati, potremmo girarle pari pari agli autori di questo testo, ma eviteremo di farlo.
    Abbiamo, per amore di una memoria storica ancora importante, il dovere di evitare sprechi di tempo in polemiche utili solo per chi deve vendere libri e il dovere di continuare il nostro lungo, attento e meraviglioso percorso di ricostruzione di radici e identità. Continueremo, allora, a considerare Fenestrelle (come ci suggerisce un depliant allegato al libro che mi ha inviato in dono Pino Perri, appassionato ricercatore e carissimo amico in “esilio” piemontese) “il simbolo della provincia di Torino” e di una storia ancora tutta da ricercare e raccontare soprattutto alle prossime generazioni.

    Prof. Gennaro De Crescenzo

    Movimento Neoborbonico
    Parlamento delle Due Sicilie – Parlamento del Sud, Commissione Cultura e Istruzione

  2. Ma gl ignoranti neoborbonici, i lacchè dei briganti assassini sono salariati dalle mafie? Un calabrese che odia i Borbone e i briganti oggi al governo al Sud

  3. Caro Ernesto del 27/09/2012 io mi informerei chi è “Ernesto a Foria”.Ma visto che sei già ignorante per natura (di storia delle tue radici)forse è meglio che…..

  4. Sono di Catanzaro e non me ne frega niente di nupo e di Forio, nè di quelli che credono alle panzane di una dinastia di corrotti,bigotti e mafiosi,imposta da austriaci,spagnoli,e protetta dagli inglesi,chiaro lettore di Aprile, Del Boca,Di Fiore e gli altri analfabeti della storia, prezzolati dai mafiosi.Le mie radici, come quelle di tutti gli italiani del Sud,non asseviti alle dinastie francospagnole non hanno nulla a vedere nè con i Borbone ottusi e i loro servi, nè con i discendenti dei briganti criminali oggi al potere in mo0lte regioni del Sud e non solo.Hai capito?

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