Di Antonello Carvigiani, per Storia in Rete del 25 marzo 2015
La storia si svolge in un Abbazia benedettina del nord Italia nel 1327, Autunno del medioevo – per dirla con Huizinga. Ma la periodizzazione storica – si sa – è sempre una formula vuota e carica di luoghi comuni. Peccato, però, che di luoghi comuni il romanzo trabocchi, così come di schematismi ideologici. Il protagonista-narratore è Adso da Melk, all’epoca dei fatti – che, ormai anziano, racconta in prima persona – novizio al seguito del francescano Guglielmo di Baskerville.
Nel romanzo, Guglielmo indaga su una serie di morti misteriose che avvengono nell’Abbazia. E’ l’incarnazione della ragione illuministica, calvinistica-anglicana ante litteram (il rimando a Sir Arthur Conan Doyle non è solo un gioco erudito ma ha un preciso significato ideologico), che si contrappone alla degenerazione intellettuale e morale della cultura cattolica. Guglielmo è un francescano ma, in realtà, nella narrazione appare completamente alieno dal suo stesso ordine.
Tutti gli altri religiosi vengono, infatti, bollati con marchi denigratori. Gli stessi Francescani: il cui personaggio più importante citato nel libro – Ubertino da Casale – viene depotenziato dalla sua formidabile carica profetica e imbevuto, invece, di una folle ebrezza che sfocia – sono le ultime parole che pronuncia nella finzione romanzesca – in una condanna senza appello della cultura contenuta nei libri.
Una figura non certo migliore fanno i Domenicani, rappresentati dalla ferocia del terribile inquisitore Bernardo Gui. Così come gli stessi padroni di casa, i Benedettini. Con loro, Eco compie il suo capolavoro ideologico. Coloro che salvarono e tramandarono la cultura classica, sul cui fondamento l’Europa moderna ha potuto costruire la propria civiltà, accompagnandola alla rivoluzione umana e spirituale innestata dal Cristianesimo, ebbene, proprio loro, i Benedettini, vengono fatti passare per nemici della cultura, i censori (l’inaccessibile biblioteca dell’Abbazia ne è figura scoperta), gli oscurantisti (la cecità di Jorge da Burgos è la metafora centrale del libro: la Chiesa che impone il suo stesso ottenebramento al mondo).
Francescani, Domenicani, Benedettini: nel medioevo opprimente di Eco non si salva nessuno (eccetto, naturalmente, gli eretici Dolciniani). Ottusi e spietati. Senza un’ombra di Misericordia, di quell’amore per l’altro che è il cuore del messaggio cristiano. Basti vedere come vengono descritti questi religiosi: laidi, deformi, sodomiti, golosi. In questo, l’ideologismo anticristiano dell’autore si va a sovrapporre al logoro stereotipo. Ce lo raccontano già le novelle del Trecento (Decameron compreso, esemplare Fra’ Cipolla) nelle quali si traccia polemicamente il profilo del monaco o del frate: gozzovigliatore, lussurioso e imbroglione.
Certo, la critica ci ha spiegato che il romanzo va letto secondo più livelli semantici (la polisemia del testo poetico, ce l’hanno insegnata Jurij Lotman e gli strutturalisti novecenteschi); che l’autore si diverte a costruire una selva di rimandi letterari e di citazioni colte; che c’è sempre molta ironia e che non bisogna mai prendere tutto sul serio. D’altra parte, nuda nomina tenemus: delle cose e degli avvenimenti non ci rimangono che i nomi. Ma nel medioevo del Nome della Rosa – l’opera che ha dato la fama vera ad Eco – i nomi che ci restano sono quelli, appunto, dello stereotipo e dell’anticlericalismo. Nomi facilissimi, tra l’altro, da leggere tra le righe del romanzo. Nell’orazione funebre di Eco, questo non dovrebbe essere dimenticato.