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Barbero: “Ma Fenestrelle non fu come Auschwitz”

Con un libro sui soldati borbonici prigionieri nel forte dei Savoia, Alessandro Barbero ha scatenato le proteste del Sud. Ora risponde a chi lo accusa.

di Alessandro Barbero da “La Stampa” del 21 ottobre 2012 

Nell’estate 2011 mi è successa una cosa che non avrei mai creduto potesse capitarmi nel mio mestiere di storico. In una mostra documentaria dedicata ai 150 anni dell’Unità mi ero imbattuto in un documento che nella mia ignoranza mi era parso curiosissimo: un processo celebrato nel 1862 dal Tribunale militare di Torino contro alcuni soldati, di origine meridionale, che si trovavano in punizione al forte di Fenestrelle. Lì avevano estorto il pizzo ai loro commilitoni che giocavano d’azzardo, esigendolo «per diritto di camorra». In una brevissima chiacchierata televisiva sulla storia della camorra, dopo aver accennato a Masaniello – descritto nei documenti dell’epoca in termini che fanno irresistibilmente pensare a un camorrista – avevo raccontato la vicenda dei soldati di Fenestrelle.

La trasmissione andò in onda l’11 agosto; nel giro di pochi giorni ricevetti una valanga di e-mail di protesta, o meglio di insulti: ero «l’ennesimo falso profeta della storia», un «giovane erede di Lombroso», un «professore improvvisato», «prezzolato» e al servizio dei potenti; esprimevo «volgari tesi» e «teorie razziste», avevo detto «inaccettabili bugie», facevo «propaganda» e «grossa disinformazione», non ero serio e non mi ero documentato, citavo semmai «documenti fittizi»; il mio intervento aveva provocato «disgusto» e «delusione»; probabilmente ero massone, e la trasmissione in cui avevo parlato non bisognava più guardarla, anzi bisognava restituire l’abbonamento Rai.

Qualcuno mi segnalò un sito Internet dove erano usciti attacchi analoghi; del resto, parecchie e-mail si limitavano a riciclare, tramite copia e incolla, dichiarazioni apparse in rete. Scoprii così che il forte di Fenestrelle – che la Provincia di Torino, con beata incoscienza, ha proclamato nel 1999 suo monumento-simbolo – è considerato da molti, nel Sud, un antesignano di Auschwitz, dove migliaia, o fors’anche decine di migliaia, di reduci meridionali dell’esercito borbonico sarebbero stati fatti morire di fame e freddo e gettati nella calce viva, all’indomani dell’Unità. Questa storia è riportata, con particolari spaventosi, in innumerevoli siti; esistono comitati «Pro vittime di Fenestrelle» e celebrazioni annuali in loro memoria; e al forte è esposta una lapide incredibile, in cui si afferma testualmente: «Tra il 1860 e il 1861 vennero segregati nella fortezza di Fenestrelle migliaia di soldati dell’esercito delle Due Sicilie che si erano rifiutati di rinnegare il re e l’antica patria. Pochi tornarono a casa, i più morirono di stenti. I pochi che sanno s’inchinano».

Superato lo shock pensai che l’unica cosa da fare era rispondere individualmente a tutti, ma proprio a tutti, e vedere che cosa ne sarebbe venuto fuori. Molti, com’era da aspettarsi, non si sono più fatti vivi; ma qualcuno ha risposto, magari anche scusandosi per i toni iniziali, e tuttavia insistendo nella certezza che quello sterminio fosse davvero accaduto, e costituisse una macchia incancellabile sul Risorgimento e sull’Unità d’Italia. Del resto, i corrispondenti erano convinti, e me lo dicevano in tono sincero e accorato, che il Sud fino all’Unità d’Italia fosse stato un paese felice, molto più progredito del Nord, addirittura in pieno sviluppo industriale, e che l’unificazione – ma per loro la conquista piemontese – fosse stata una violenza senza nome, imposta dall’esterno a un paese ignaro e ostile. È un fatto che mistificazioni di questo genere hanno presa su moltissime persone in buona fede, esasperate dalle denigrazioni sprezzanti di cui il Sud è stato oggetto; e che la leggenda di una Borbonia felix, ricca, prospera e industrializzata, messa a sacco dalla conquista piemontese, serve anche a ridare orgoglio e identità a tanta gente del Sud. Peccato che attraverso queste leggende consolatorie passi un messaggio di odio e di razzismo, come ho toccato con mano sulla mia pelle quando i messaggi che ricevevo mi davano del piemontese come se fosse un insulto.

Ma quella corrispondenza prolungata mi ha anche fatto venire dei dubbi. Che il governo e l’esercito italiano, fra 1860 e 1861, avessero deliberatamente sterminato migliaia di italiani in Lager allestiti in Piemonte, nel totale silenzio dell’opinione pubblica, della stampa di opposizione e della Chiesa, mi pareva inconcepibile. Ma come facevo a esserne sicuro fino in fondo? Avevo davvero la certezza che Fenestrelle non fosse stato un campo di sterminio, e Cavour un precursore di Himmler e Pol Pot? Ero in grado di dimostrarlo, quando mi fossi trovato a discutere con quegli interlocutori in buona fede? Perché proprio con loro è indispensabile confrontarsi: con chi crede ai Lager dei Savoia e allo sterminio dei soldati borbonici perché è giustamente orgoglioso d’essere del Sud, e non si è reso conto che chi gli racconta queste favole sinistre lo sta prendendo in giro.

L’unica cosa era andare a vedere i documenti, vagliare le pezze d’appoggio citate nei libri e nei siti che parlano dei morti di Fenestrelle, e una volta constatato che di pezze d’appoggio non ce n’è nemmeno una, cercare di capire cosa fosse davvero accaduto ai soldati delle Due Sicilie fatti prigionieri fra la battaglia del Volturno e la resa di Messina. È nato così, grazie alla ricchissima documentazione conservata nell’Archivio di Stato di Torino e in quello dello Stato Maggiore dell’Esercito a Roma, il libro uscito in questi giorni col titolo I prigionieri dei Savoia : che contiene più nomi e racconta più storie individuali e collettive di soldati napoletani, di quante siano mai state portate alla luce fino ad ora. Come previsto, si è subito scatenata sul sito dell’editore Laterza una valanga di violentissime proteste, per lo più postate da persone che non hanno letto il libro e invitano a non comprarlo; proteste in cui, in aggiunta ai soliti insulti razzisti contro i piemontesi, vengo graziosamente paragonato al dottor Goebbels.

Però stavolta c’è anche qualcos’altro: sul sito compaiono, e sono sempre di più, interventi di persone che esprimono sgomento davanti all’intolleranza di certe reazioni, che sollecitano un confronto sui fatti, che vogliono capire. Col mestiere che faccio, dovrei aver imparato a non farmi illusioni; e invece finisco sempre per farmene. Forse, dopo tutto, sta tramontando la stagione in cui in Italia si poteva impunemente stravolgere il passato, reinventarlo a proprio piacimento per seminare odio e sfasciare il Paese, senza che questo provocasse reazioni pubbliche e senza doverne pagare le conseguenze in termini di credibilità e di onore.

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Inserito su www.storiainrete.com il 22 ottobre 2012

65 Commenti

  1. Egr, Prof. A. Barbero,
    vedo che frequenta questo post e per questo ne approfitto per ringraziarla pubblicamente.
    Premesso che mi occupo di commercio e che quindi ho poca dimestichezza con lo strumento della scrittura; pur non disprezzando altri periodi storici, da sempre sono affascinato dalla storia classica e pre-classica e quando posso, sono alla ricerca in rete di materiale inerente tale periodo.
    Nelle mie rare frequentazioni su youtube, spesso sono “inciampato” nei suoi numerosissimi interventi sulla storia medievale e, districandomi fra tutti i video che la vedono torreggiare come protagonista, un giorno, per puro caso, mi sono imbattuto in una sua partecipazione a Bari dove, per la prima volta, la si vede in un contraddittorio e dove l’argomento storico trattato non appartiene alla sua solita area di competenza.
    Incuriosito dalla particolarità del materiale, subito noto dal titolo che l’altro contendente è niente popò di meno che un nostalgico della passata monarchia borbonica e che l’oggetto della contesa è l’ultima produzione editoriale targata Barbero, certificata, tra l’altro, dalla presenza del suo editore.
    Devo ammettere che prima di riprendermi da quello che mia moglie definisce “effetto Vanna Marchi” (occhi sgranati, sguardo attonito e bocca lievemente aperta) è passato un bel po’ di tempo ma, riottenuto il controllo dei sensi, immediatamente hanno incominciato a frullarmi in testa i primi dubbi: ma dov’è finito il distacco dell’accademico Barbero, dov’è l’aplomb cattedratico del famoso professore, ma, soprattutto, che fine ha fatto il platonico “…so di non sapere” dello studioso di filosofia?
    Si d’accordo, siamo in tempi di crisi e qualsiasi strategia è lecita per incentivare le vendite, ma è credibile che uno stimato docente universitario, accreditato presso la televisione di stato, membro di prestigiose manifestazioni come il Premio Strega, scenda in singolar tenzone contro un anacronistico e quindi un po’ ridicolo neoborbonico?
    Fatte queste prime considerazioni, decido di capirci qualcosa e parto, in via preliminare, con la ricerca in rete; procedo con ordine e la prima cosa che faccio, visito il sito dei neoborbonici per conoscere meglio chi è che si macchia di lesa maestà.
    Qui trovo la prima sorpresa, confesso che le poche e frammentarie notizie che mi erano giunte all’orecchio, non avevano attirato il mio interesse ed avevo bollato il movimento come fuori dal tempo, fuori dalla storia e fuori dalla realtà. Ad una prima occhiata nel sito, nella prima sezione del menù principale, trovo già le motivazioni dell’associazione che recitano testualmente: “Il Movimento Neoborbonico è un movimento culturale che nasce per ricostruire la storia del Sud e con essa l’orgoglio di essere meridionali…”, di seguito si spiga che non ha né finalità politiche, né interessi di carattere federalista né tantomeno separatista e, soprattutto, si dichiara che “…non è (un movimento) monarchico perché i Borbone sono soprattutto dei simboli della storia e della cultura del Mezzogiorno”.
    Cielo, le cose si complicano, le intenzioni di De Gennaro sembrano intellettualmente oneste, la sua immagine incomincia ad ammantarsi di luce…(colgo l’occasione per scusarmi ufficialmente con i neoborbonici per i miei pregiudizi) e passo al punto successivo, forse quello più naturale.
    Sul sito ufficiale della Fortezza di Fenestrelle, dopo una non troppo facile ricerca, trovo così riportato: “…oggi da più parti si ricorda il periodo in cui la fortezza divenne un campo di concentramento per truppe borboniche e papaline. Recenti ricerche sottolineano le pessime condizioni in cui nel 1861 questi militari furono «ospitati» a Fenestrelle: laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei. E’ noto un tentativo di ribellione ideato dai reclusi, piano sventato quasi per caso dalle autorità piemontesi”.
    Perbacco e pure perdinci, altra sorpresa, lo strano video che prima mi appariva quasi surreale si stava dissolvendo al cospetto della fondamentale e primaria domanda: ma perché quelli che, con un grande slancio di generosità, erano venuti a liberarci avevano ora la necessità di concentrare tanti soldati “nemici” in lager (oops, forse era meglio dicevo in gulag), al freddo ed alla fame; i “liberati”, prima di ritrovarsi in codesta condizione, furono avvertiti che poi avrebbero avuto tale trattamento? Le migliaia di soldati borbonici, prima di “abbracciare i nuovi ideali unitari” (in assenza di dichiarazione di guerra non si può parlare di resa), furono avvisati che successivamente avrebbero avuto l’obbligo di entrare nei ranghi del neo-esercito Italo piemontese?
    E poi, perché applicare la legge marziale ai territori così conquistati, inviare migliaia di soldati al sud per reprimere i focolai d’insurrezione popolare, costringere, per la prima volta nella loro storia, milioni di persone ad un esodo senza fine, ma, ma…. non erano i nostri fratelli d’Italia?…Ma perfino Caino ebbe pietà di suo fratello Abele e lo eliminò subito, senza sofferenze!
    Il romantico Risorgimento che conoscevo, quello che mi è stato inculcato a scuola sin da piccolo, si è trasformato all’improvviso in una grande e strana guerra, dove un Nord che si sente migliore e di molto superiore, si avventa con ferocia su un sud che si vuole e si deve ritenere inferiore!
    Chi è che ha cambiato le carte in tavola e quando? Ma Bossi non era un personaggio della più recente storia contemporanea?
    E’ qui, caro Professore, che principia la mia riconoscenza nei suoi confronti, se non fosse stato per quelle immagini così strane, se non fosse stato per la sua ostentata protervia che, in pieno delirio di onnipotenza, la spingeva a “minacciare” una gentile signora del pubblico di scrivere sul pessimo Lombroso, se non fosse stato per il suo senso di superiorità così simile a quello dei suoi predecessori, io non avrei mai e poi mai, intrapreso un viaggio attraverso le terribili verità del nostro passato, un viaggio di una persona che così ha potuto comprendere e contestualizzare meglio la sua condizione di uomo del Sud e che finalmente si sente a pieno titolo ed a tutti gli effetti, un Italiano.
    Egregio Professore, io ho raccolto il suo guanto di sfida e di questo le sarò eternamente grato!
    Un uomo del Sud

    P.S.: il ritenere gli “indignados meridionali” sinceri ed in buona fede, le fa onore ma le torna utile solo per ricevere ulteriori ringraziamenti e non la rende immune dai sospetti di cui si lamenta (il razzismo è spesso un boomerang e ha la memoria lunga);
    P.P.S.: per quanto concerne le motivazioni dei suoi “comportamenti”, proprio perché, come Lei dice “sta tramontando la stagione in cui in Italia si poteva impunemente stravolgere il passato…”, mi piace pensare che sia caduto nel medesimo meccanismo mentale dei neoborbonici che li obbliga ogni giorno, con coraggio ed orgoglio, ad impegnarsi nella strenue difesa delle proprie tradizioni e dell’onore dei propri avi, preferisco non fare altre congetture e la lascio da solo con la sua coscienza.

  2. Recentemente (venerdi 24 maggio) si è tenuto a Gorizia un interessante dibattito (“Questione meridionale e brigantaggio”) a cui hanno partecipato diversi “Storici” tra cui anche il prof. Barbero (storico medioevale), il prof. De Crescenzo, noto Neoborbonico, Il giornalista Pino Aprile, moderati dal Vicedirettore del TG1 Gennaro Sangiuliano davanti ad una platea di oltre 600 persone tutte attivamente interessate.
    Dal Sito dei Neoborbonici si legge: “… sorprendenti gli interventi di Alessandro Barbero: nessuna citazione del suo libro “sui quattro morti di Fenestrelle”. Nessuna risposta alle sollecitazioni in merito alle verità sui prigionieri borbonici (forse per timore di scivolare nella spigolosa questione storiografica-archivistica con le numerose lacune già sottolineate nel confronto di Bari?): qualche qualche vaga considerazione sulla difficoltà di fare storia “serenamente” in Italia (da che pulpito… considerato il tono delle accuse pubblicate nel suo libro),qualche vaga difesa (di fronte agli attacchi di un Pino Aprile più che mai in grande forma, carico e brillante) degli storici ufficiali che avrebbero sempre “parlato di saccheggi e massacri” (ma non nei testi scolastici!), qualche considerazione sulla complessità del fenomeno-brigantaggio che, secondo lui, sarebbe stato anche “endemico” [ma mai nella storia del Sud erano stati necessari oltre 200.000 soldati per debellarlo], era “finanziato da Francesco II” [due domande logiche: con quali soldi, visto che aveva lasciato a Napoli finanche i suoi risparmi? E perché mai -come già sostenne Calà Ulloa- il cuore del brigantaggio sarebbe stata la Basilicata e non l’Abruzzo così vicino anche allo Stato Pontificio?], sarebbe stato il sintomo di una antica “lotta di classe e agraria” [misteriosamente partita il giorno stesso dell’arrivo di Garibaldi a Napoli?]. Così Barbero, allora, attribuisce a interpretazioni parziali e attuali la visione di quel brigantaggio come lotta nazionale e borbonica [e i documenti degli archivi militari e civili, del Sud come del Nord dimostrano l’esatto contrario] contrapposta all’adesione di molti meridionali al “progetto unitario” [mentre i documenti dimostrano l’impercettibilità dei dati relativi ai garibaldini meridionali, degli “ascari” della Guardia Nazionale-consueta presenza di tutte le colonizzazioni- o di quegli esuli che rinnegarono la loro antica Patria e la loro gente spesso pentendosene tardivamente]. Del resto la confutazione della tesi della rivolta per i Borbone e per la Patria delle Due Sicilie è il cavallo di battaglia di tutti gli “storici ufficiali” perché quella rivolta dimostra la debolezza della tesi di fondo costitutiva dell’Italia:si trattò di un’invasione non voluta al Sud e contro la quale si ribellarono soldati e non soldati, “briganti e non briganti” per dieci anni e su tutto il territorio nazionale delle Due Sicilie. La stessa tesi, del resto, è stata portata avanti da Lucy Riall, docente di origini irlandesi e di cultura inglese che nel corso della serata ha fatto alcune dichiarazioni che meritano di essere analizzate. “Non dovete fare politica” [premesso che nessuno di noi si è mai candidato da qualche parte negli ultimi 150 anni, a che serve una storia fine a se stessa e senza collegamenti con il presente se, tra l’altro, mai come in questo caso parlando di questioni meridionali, molte scelte dimostrano una continuità drammatica e le conseguenze delle scelte del passato sono ancora vive sulla pelle dei meridionali? E’ come se qualcuno custodisse una grande biblioteca con diritto esclusivo di consultarla e senza possibilità di accesso per gli estranei: tanto varrebbe bruciarla…]; il Regno delle Due Sicilie “collassò da solo” [una tesi superata dall’accertamento della traumaticità di quello che subì il Sud e mentre lo stesso Croce sosteneva che il Regno era “crollato per un urto traumatico esterno”]; il governo borbonico “restava uno dei più spietati del mondo con le sue condanne a morte” [in contrasto evidente con la verità dei documenti: 113 le condanne a morte nel Piemonte tra il 1851 e il 1855, nessuna nelle Due Sicilie]; “una sola nave non faceva la differenza economica” [mentre non si trattava di una sola nave ma di un’intera flotta, prima in Italia e terza in Europa per tonnellaggio e traffici]; “le industrie del Sud e del Nord erano poca cosa rispetto a quelle del resto del mondo” [ma in questa sede si sta approfondendo il divario tra quelle del Nord e del Sud dell’Italia e conta non poco la potenzialità cancellata delle fabbriche del Sud dopo il 1860 con un numero di addetti e una varietà di produzioni superiori a quelli del Nord]; “scorretto citare le frasi razziste di D’Azeglio e degli altri perché si deve sempre contestualizzare: anche gli inglesi definivano gli irlandesi ‘scimmie verdi’ ma oggi dobbiamo capire perché” [per quanto sconcertante, l’affermazione è anche immotivata: se uno è razzista è razzista, a prescindere da dove e come ha definito “carogne o feccia” qualcuno]; “la storia va letta con serenità, freddezza e distacco” [al di là dell’aplomb britannico, alla Riall ovviamente non deve far male il pensiero che i cittadini di Pontelandolfo morivano “abbrustoliti nelle loro case” o che i piemontesi avessero “il diritto di decapitare i briganti per comodità di trasporto” e nessuno ce lo aveva mai detto…]; chicca finale, poi, l’affermazione secondo la quale in fondo “Garibaldi venne acclamato dal popolo in tutto il Sud” [come se il prof. Eugenio Di Rienzo, suo collega universitario, non avesse scritto il suo monumentale e documentatissimo libro nel quale è evidente il ruolo degli inglesi nell’unificazione o come se non fosse ormai più che dimostrata l’importanza dell’accordo stipulato con la mafia e la camorra che garantirono quelle “acclamazioni” in cambio di un potere ancora drammaticamente attuale].
    A conti fatti, di fronte alle lacune soprattutto archivistiche degli storici ufficiali spesso rimasti ancorati a teorie e tesi di 50 o 100 anni fa, il Festival della Storia ha dimostrato ancora una volta, oltre alla necessità di continuare il nostro lavoro di ricerca e divulgazione collegando (piaccia o no alla Riall) passato e futuro, la possibilità di vincere (e anche in trasferta) la nostra battaglia culturale.
    Gennaro De Crescenzo.”
    Come si vede Il prof. Barbero ha perso un’altra ghiotta occasione per rafforzare la “sua cervellotica convinzione ” che i morti a Fenestrelle furono solo 4 (o 5 ?). Professore accetti un consiglio, lasci stare il “falso mito del risorgimento”. Lei è più indicato per la materia che conosce bene. Si dedichi pertanto alla Storia Medioevale dove sicuramente non incorrerà in “grosse lacune”. p.s. d’altronde nel mio commento del 19 marzo u.s. su questo stesso sito già Le elencai circa una cinquantina di nomi di persone fatte morire a Fenestrelle dai ns. “fratelli d’italia piemontesi” venuti a “liberare il Sud”. per favore, potrei sapere da chi?). Nupo da Napoli

  3. Guarda! Guarda! CENSURA PREVENTIVA!!(a favore dei “filo-piemontesi e quindi anche del “medioevalista” Barbero).

    Ho letto in rete (“Rete di informazione Del Regno delle Due Sicilie-30/05/2013-)quanto riporto sotto:

    ÈSTORIA 2013 L’EDIZIONE DEL “CONFRONTO”
    SCIVOLA NELLA CENSURA PREVENTIVA?

    Intervista ad Adolfo Morganti,
    Presidente di Identità Europea

    Prof. Morganti, lei è il Presidente dell’Associazione Identità Europea, che ha patrocinato l’uscita del saggio di Francesco Mario Agnoli “La vera storia dei prigionieri borbonici dei Savoia”, ed in tal veste era presente a Gorizia durante l’edizione del Festival E’Storia che si è chiuso il 26 scorso sul tema “Banditi”. Cosa è successo?

    Si è verificata una situazione veramente incresciosa, in modo particolare nel contesto di una manifestazione che si è presentata come “l’edizione del confronto”. Dopo aver pattuito con ampio anticipo con l’organizzazione dell’eccellente manifestazione una presentazione del testo in oggetto con la presenza dell’Autore, cui avremmo voluto invitare il prof. Alessandro Barbero per garantire il necessario contraddittorio, nell’imminenza della manifestazione stessa abbiamo notato che la presentazione non compariva nel Programma di E’Storia. La segreteria della manifestazione ci ha comunicato che a causa dell’indisponibilità del prof. Barbero la presentazione non ci sarebbe stata.

    Ma qual’è il nesso fra il libro di Agnoli e il prof. Barbero?

    Barbero, eccellente “medievista”, uscendo ineditamente dall’età di Mezzo ha recentemente pubblicato un saggio polemico, “I prigionieri dei Savoia”, in cui ha fortemente criticato metodi e tesi di quelli che definisce i revisionisti neoborbonici partendo da un singolo episodio storiografico, l’internamento a Fenestrelle e dintorni dei prigionieri borbonici dopo l’invasione del Regno delle Due Sicilie nel 1860-61; le sue conclusioni, sorrette da una vis polemica che non ha evitato toni molto pesanti sul piano personale, è che tutti coloro che si sono occupati del periodo risorgimentale sul fronte “revisionista” manchino dei fondamenti stessi della ricerca storiografica, essendo servi dello stereotipo che contrappone il “sud” oppresso al “nord” oppressore.

    L’accusa – ammesso che sia tale – coglie nel segno? Francesco Mario Agnoli è definibile un neoborbonico?

    Ovviamente no, essendo di ceppo trentino ed essendo noto per le sue ricerche su Andreas Hofer, la Repubblica Romana e le Insorgenze antinapoleoniche in Italia. Ma secondo Barbero avrebbe avuto il torto di segnare una prefazione ad un testo di uno di questi studiosi “meridionalisti”, ed evidentemente di condividere con costoro un orientamento “revisionista” sul periodo risorgimentale. Barbero dedica tre pagine del suo testo a questa singola prefazione di Agnoli, ignorandone la bibliografia e lasciandosi andare ad apprezzamenti sul suo conto obiettivamente grevi. Preso atto dell’affondo di Barbero, Agnoli ha voluto replicare sul piano delle tesi, e nel saggio sopra citato ha cercato di dimostrare che proprio i documenti citati da Barbero in chiave “filopiemontese”(come ognun ben sa Barbero è torinese) conducono a conclusioni esattamente opposte a quelle da lui sostenute nel suo libro.

    Una “normale” polemica storiografica, quindi…
    Normale e doverosa. È esattamente da questi scambi di opinioni, fondate sui documenti e non farcite di offese gratuite,che il dibattito storiografico può progredire. Altrimenti non rimane che la dittatura dell’insulto televisivo, anticamera all’egemonia del pensiero unico.

    Quindi a vostro parere la presentazione dentro E’Storia del libro di Agnoli sarebbe saltata a causa delle tesi ivi espresse, critiche nei confronti del precedente saggio di Barbero…

    Noi cerchiamo di mantenerci strettamente ai fatti che sono: a) la pattuizione di una presentazione del testo all’interno del festival E’Storia 2013; b) la reiterata comunicazione scritta da parte della Segreteria organizzativa della manifestazione che a causa della mancata disponibilità di Barbero a partecipare alla presentazione, questa non si sarebbe più tenuta.

    E a Gorizia durante E’Storia che è successo?

    Alcuni episodi divertenti. L’Editore del testo di Agnoli, Il Cerchio, ha usato un poco di ironia ed ha affisso nel proprio Stand alcuni cartelli che annunciavano la “non-presentazione” del libro all’interno del Festival. Ovviamente la cosa – in sé obiettivamente curiosa – ha fatto immediatamente il giro dei partecipanti e della stampa presente in loco. L’Editore risulta soddisfatto per la pubblicità ottenuta.

    E il professor Barbero è venuto ad E’Storia?

    È stato ovviamente presente a Gorizia per affrontare esattamente lo stesso tema del dibattito in questione, nel contesto di una tavola rotonda che, come ci ha confermato il giornalista meridionalista Pino Aprile che vi ha partecipato, ” è stata gradualmente ed obiettivamente addomesticata in senso rigorosamente filosavoiardo ” e pertanto è risultata ben poco utile. Sul punto in questione non abbiamo avuto il piacere di una sua parola in merito, né di conferma, né di smentita, benché fin dal mattino di venerdì Mario Bernardi Guardi sul Tempo di Roma avesse reso pubblica la querelle, divenuta quindi di pubblico dominio molto rapidamente.

    In sintesi, perché avete così criticato questa cancellazione?

    Perché odora di censura preventiva, e l’atteggiamento elusivo di tutte le parti in causa non aiuta certo a scacciare questo sospetto. Bisogna stare molto attenti a queste tentazioni, che sono ricorrenti: uccidere il dibattito storiografico in nome di una verità che “deve” essere confermata. Già durante i festeggiamenti del 150° della proclamazione del Regno d’Italia abbiamo dovuto prender atto di casi del genere, che comunque sono la prova provata della fragilità del “pensiero unico” risorgimentalista nel nostro paese. Quando si impedisce non solo il dibattito, ma la presentazione pubblica di tesi sgradite, si è alle porte di una nuova, inedita dittatura culturale azionista/giacobina, cui è necessario ribellarsi.

    A cura di Giovanni Vinciguerra

    (segreteria@identitaeuropea.it) ”

    Che dire! Di “storici e scrittori ” (ma poi lo sono?) ancora “a libro paga” dei “filopiemontesi” e che “volutamente” vogliono “storpiare” la Storia, quella VERA!, ne esisteranno sempre, fin quando non sarà deciso di togliere “il veto” a tutte quelle nefandezze compiute dai cosidetti “fratelli d’italia piemontesi” e fin quando tutti gli “scheletri, nefasti e puzzolenti”, non saranno “tirati fuori” dagli armadi.
    Dispiace che uno “Storico” di grossa fama (medioevalista), si “riduca”, ora, ad ingrossare la folta schiera degli storici e scrittori “prezzolati2 di regime. Nupo da Napoli.

  4. Barbero (storico medioevale) si è sottratto all’incontro di Gorizia per garantire il necessario contraddittorio, su “La vera storia dei prigionieri borbonici dei Savoia”,con Francesco Mario Agnoli.
    Ecco,invece, cosa ne pensa “Lo storico dilettante” Agnoli su Barbero.
    Apologia di uno storico dilettante
    di Francesco Mario Agnoli – 31/10/2012
    Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

    ” Il libro di Alessandro Barbero “I prigionieri dei Savoia”, appena pubblicato (ottobre 2012) da Laterza, non solo si propone di raccontare la vera storia del trattamento riservato dai piemontesi ai soldati napoletani caduti prigionieri nel corso della guerra che portò alla distruzione del Regno delle Due Sicilie, ma anche, soprattutto e fin dalla prefazione, di aprire una pesante polemica nei confronti di quegli esponenti del revisionismo risorgimentale che tale trattamento hanno descritto con toni assai cupi fino a proporre paragoni con quanto in seguito praticato dal regime nazista.

    Trovandomi citato fra questi revisionisti a causa della prefazione (a suo tempo richiestami dall’Autore) al bel libro di Fulvio Izzo “I lager dei Savoia” (criticato anch’esso dal Barbero, ma, nonostante il titolo ricco di evocazioni, con qualche benevolo distinguo), mi sono posto il problema se, invece di imbastire una mia replica, non fosse più opportuno lasciare il compito ad altri, che, come Roberto Martucci, ugualmente tirato in ballo, possono fare valere agli occhi del cattedrattico Barbero la loro qualità di storici professionisti e colleghi. D’altra parte una risposta personale e diretta è quasi imposta dalla natura di una polemica condotta con toni così pesanti da sollecitarla in tempi brevi che non sarebbero compatibili con quelli richiesti da una replica complessiva ad un libro di oltre 360 pagine. Mi è, quindi sembrato opportuno rinviare ad un secondo momento una risposta più ampia se non vi avranno nel frattempo provveduto il Martucci o altri, per dedicarmi in prima battuta alle questioni che riguardano direttamente la polemica del Barbero nei confronti del ”magistrato di carriera” (ora a riposo) nonché revisionista dilettante (dal momento che non sono né meridionale, né meridionalista e neo-borbonico e nemmeno storico professionista, debbo ritenere di essere stato collocato in questa categoria).

    Va precisato che questa replica pur ad oggetto limitato, per evitare nuove accuse di dilettantismo sarà “condotta criticamente sulle fonti”, e poiché nel caso queste sono costituite dal libro del Barbero, sulle sue affermazioni e sui dati che vi sono riportati. Il che, ovviamente, significa accettare la realtà del dato, ma, appunto criticamente, cominciando da quello solo in apparenza innocuo: le distinzioni fra “prigionieri di guerra” (i militari borbonici catturati o consegnatisi fino al 13 febbraio 1861, data della capitolazione di Gaeta), “sbandati” (i militari ancora a piede libero dopo tale data), “renitenti” (i giovani sottrattisi alle prime leve “piemontesi”), “refrattari” (i renitenti alle leve borboniche fino al 1860)), “disertori” (tutti coloro che fuggivano dopo avere indossato la divisa del Regio Esercito). Distinzioni tecnicamente esatte e storicamente non prive d’interesse, così come i provvedimenti del governo sabaudo che, ad arbitrio dei vincitori, trasformarono lo status dei militari napoletani da prigionieri di guerra a quello di generici carcerati o internati e infine di truppa italiana. Soprattutto distinzioni molto funzionali al progetto di chi, suddividendo e parcellizzando, mira a ridurre l’importanza del fenomeno, ma scarsamente rilevanti per un giudizio complessivo sul trattamento riservato dai Savoia ai soldati dell’esercito sconfitto, poco importa come classificati se la loro situazione dipese comunque dal servizio prestato nell’esercito borbonico e dal rifiuto dell’arruolamento in quello italiano.

    Vanno, quindi, messi in conto come componenti di una medesima umanità dolente e perseguitata tutti i militari ex-borbonici (e a rigore nemmeno si dovrebbero escludere i “renitenti” quanto meno delle prime leve “italiane”) che comunque finirono nei “depositi” piemontesi, nel campo di S. Maurizio e soprattutto nella fortezza di Fenestrelle, anche se, da ultimo, per assegnazione ai reggimenti di punizione dei Cacciatori Franchi lì di stanza, fra i quali tutt’altro che per caso numerosissimi erano i meridionali.

    Tornando a noi, le espressioni che mi vengono addebitate sono di avere definito “inferno carcerario”, la fortezza rupestre di Fenestrelle, e descritto i luoghi dove vennero deportati e detenuti prigionieri e sbandati come “il modello, di base di quell’universo concentrazionario di campi di deportazione e prigioni destinate ad attingere nel nostro secolo i supremi fastigi dei lager e dei gulag”, nonché di avere visto l’anticipazione di Pol Pott nella cittadella di Alessandria, nei depositi di Genova “e specialmente nel campo di concentramento e di rieducazione di San Maurizio Canavese nei pressi di Torino, e, infine, nell’ultimo cerchio di quell’inferno carcerario cui purtroppo è mancato un Solgenitsyn, la fortezza di Fenestrelle”. Affermazioni dalle quali lo storico piemontese deduce la mia ignoranza su “cosa fossero Fenestrelle e San Maurizio, quali le condizioni disumane in cui là il militare ribelle era incarcerato”, un’ignoranza dichiarata “profondamente offensiva innanzitutto verso la memoria degli uomini che passarono da quei luoghi, e che qui si pretende di onorare” (rilievo del tutto gratuito e da addebitare alla polemica ad ogni costo cui si abbandona il Barbero dal momento che gli unici legittimati a farlo, i discendenti o i compaesani dei carcerati di Fenestrelle, mai mi hanno rimbrottato per averne offeso la memoria).

    E veniamo al dunque per dire anzitutto che, essendomi occupato della situazione dei “prigionieri dei Savoia” esclusivamente nella citata prefazione, non ho nessuna difficoltà a riconoscere di non avere previamente svolto ricerche d’archivio, che mi azzardo a credere non indispensabili per i prefatori. Senza dubbio l’autore di una prefazione non può permettersi, nemmeno lui, di sbrigliare la fantasia ed è tenuto, oltre che alla lettura dell’opera prefata, ad una certa conoscenza della materia, ma non anche allo spoglio degli archivi per il controllo di tutti i dati (impresa oltretutto non semplice per un revisionista dilettante, che, a differenza di un cattedrattico, non ha a disposizione studenti e collaboratori cui delegarlo).

    In definitiva, le mie considerazioni sui lager sabaudi si fondavano sia su articoli e saggi pubblicati su “L’Alfiere”, una delle più colte e prestigiose riviste del Meridione (brillantemente diretta da un altro magistrato di carriera), e su altri periodici come Due Sicilie, sia sui libri di quegli stessi autori incorsi nei fulmini dello scrittore piemontese. Studiosi tutti che stimavo e stimo non solo per la conoscenza personale che ho con alcuni di loro, ma perché tuttora convinto che abbiano rappresentato la triste situazione dei militari borbonici prigionieri in modo assai più prossimo alla realtà del libro del Barbero pur ricchissimo di note e citazioni.

    Per quanto mi riguarda, se non ho svolto ricerche d’archivio e non ho visitato il campo di rieducazione (insisto) di San Maurizio Canavese da tempo soppresso, sono però andato qualche anno fa a Fenestrelle, riportandone, nonostante la bella stagione e il mio amore per le montagne, un’impressione tutt’altro che piacevole a causa dell’asprezza dei luoghi e del grigiore della costruzione, resa angosciante dal ricordo delle molte persone che a forza vi hanno soggiornato per periodi più o meno lunghi. Una visita che mi ha reso evidente perché Fenestrelle sia stata classificata fortezza di correzione e utilizzata per molti anni come prigione di Stato, prima da Napoleone poi dalla monarchia sabauda e di nuovo nel secolo scorso, dopo un ritorno a sede di punizione e correzione per militari, dal fascismo.

    Dalla mia visita ho riportato il ricordo di una scritta a grandi caratteri neri sopra una parete interna, nell’ala destinata al comando della fortezza di correzione: “Ognuno vale non per ciò che è ma per ciò che produce”, che forse lascia indifferenti gli storici di cultura azionista, ma che alla mia mentalità cattolica è sembrata orrenda, peggiore, come sintesi di un programma e di un’idea, del nazista “Arbeit macht frei”, di per sé innocuo e addirittura accettabile se non fosse stato stravolto e capovolto nell’attuazione.

    Di conseguenza mi rifiuto di credere che sia stato per caso o per insufficienza di altre sistemazioni, come invece pretende il Barbero, che una grande quantità di soldati napoletani sia passata prima o poi per Fenestrelle non per venire soppressi, ma per esservi “corretti” (è assolutamente pacifico, e non occorreva il libro dello storico piemontese per ricordarlo dal momento che nessuno ha mai sostenuto il contrario, che il sistema concentrazionario sabaudo mirava non alla eliminazione dei ricoverati, ma al loro arruolamento e conversione, perché Vittorio Emanuele II e il suo governo, convintissimi di un prossimo attacco in forze da parte dell’Austria, avevano un disperato bisogno di uomini da mandare a combattere e morire per la grandezza della dinastia).

    Comunque non si tratta soltanto di Fenestrelle, pur se questa temibile fortezza di correzione, stava al centro del sistema, e del campo d’istruzione creato nell’estate del 1861 a San Maurizio Canavese e definito dalla stampa dell’epoca “luogo di risanamento fisico oltre che morale”, ma di tutta una serie di “depositi”, soprattutto in Piemonte e in Lombardia (“centri di raccolta” vennero in un secondo momento istituiti anche a Livorno, Ancona, Rimini e Fano), dove, a cominciare dall’autunno 1860, vennero collocati i prigionieri napoletani.

    Restando al 1860, già nella prima metà d’ottobre, di fronte alla difficoltà di sistemare a Genova, dove erano stati condotti per mare ammucchiati nelle navi alla bell’e meglio, i primi prigionieri di guerra (il Barbero quantifica in 8.000 uomini questa prima ondata, una parte dei quali subito dislocata ad Alessandria e a Bergamo), e al loro rifiuto di arruolarsi, il ministero della Guerra, pur riconoscendo che non si poteva per il momento procedere ad arruolamenti forzati, non trattandosi di “regi sudditi” per non essere stata ancora proclamata l’annessione, dispose che “ove il numero di quelli che rifiutano sia troppo grande e non possano essere ritenuti prigionieri (…) il Ministero penserà a mandarli a Fenestrelle”. Pochi giorni dopo il generale Carlo Boyl di Putifigari, incaricato della sistemazione, ricevette l’ordine di designare ”fra i prigionieri napoletani 300 od intorno dei più rivoltosi per essere mandati a Fenestrelle”. Ben conoscendo il significato del ricovero nella fortezza di correzione, il generale reputò eccessiva la misura e nel tentativo di evitarla rispose che i prigionieri napoletani, pur non volendo prestare servizio, erano quietissimi e che la loro ostinata fedeltà a Francesco II andava attribuita alla loro natura di “gente alquanto idiota, non scevra di pregiudizi e alquanto bigotta”.

    Ciò nonostante, giunti a Genova altri 5.000 prigionieri, 1.200 vennero spediti a Fenestrelle, mentre altri furono collocati a Genova, Alessandria e Milano. Il Barbero, nell’evidente intento di sminuire il carattere particolarmente correttivo dell’invio a Fenestrelle, riferisce che il comandante della fortezza venne sollecitato a prendere “gli opportuni provvedimenti affinché ai prigionieri napoletani che vennero destinati a questa fortezza siano usati i riguardi possibili perché la rigidezza del freddo di codesto clima non riesca perniciosa alla salute di gente abituata alla mitezza dei climi meridionali”. Può sembrare un provvedimento ispirato a umanità e al desiderio di convincere con le buone i napoletani a prendere servizio nel Regio Esercito. Lo confermerebbe la successiva circolare del 20 novembre 1860, che detta le regole per il trattamento di tutti i prigionieri, che doveva essere ispirato a giustizia e addirittura ad amorevolezza “affine di animarli a prender servizio nell’Esercito” e dispone la distribuzione di “quegli effetti di vestiario e calzatura che siano riconosciuti veramente indispensabili” sia pure “scegliendoli di preferenza fra quelli di minor costo”. Purtroppo la realtà fu assai diversa a quanto risulta, non dai resoconti filoborbonici o dalla stampa cattolica dell’epoca, ma, pur se riguardano solo prigionieri collocati a Milano e non, direttamente, quelli di Fenestrelle, dai rapporti del generale Alfonso La Marmora a Cavour, che gliene aveva dato incarico, e al Ministero della Guerra subito prima e subito dopo la circolare del 20 novembre. Il La Marmora mostra profondo disprezzo per i soldati napoletani (del resto largamente condiviso, riconosce il Barbero, dai comandi del Regio Esercito, dai giornali e dall’opinione pubblica settentrionale in genere, e piemontese in particolare), definiti “canaglia” e “feccia” e descritti “tutti coperti di rogne e di vermina, moltissimi affetti da mal d’occhi o da mal venereo”. Con tutta la scarsa considerazione che prova per loro e la sua contrarietà al loro arruolamento nel Regio Esercito, il La Marmora critica però la decisione di collocare questi uomini nelle caserme in condizione prossima a quella dei “servi di pena”, adibendoli cioè a lavori di solito assegnati agli ergastolani, e chiede di assegnargli “un trattamento pari ai nostri soldati” e di non lasciarli uscire senza averli prima rivestiti e dotati di abiti “per la riflessione stessa che trovandosi così malvestiti e laceri potrebbe incoraggiarli di più a commettere delle bassezze”.

    Insomma il La Marmora ci fa sapere che nel Castello Sforzesco i napoletani, pur essendo frammisti ai soldati “piemontesi” e in apparenza liberi (ma la libera uscita doveva esser espressamente concessa e lo era solo “ai più meritevoli”), erano malvestiti e laceri, svolgevano lavori da ergastolani ed erano trattati molto diversamente da quelli che si sperava diventassero i loro futuri commilitoni. Situazione destinata a protrarsi anche a mesi di distanza dalla cattura. Ne fornisce prova, certa perché del tutto involontaria, il quotidiano ministeriale torinese L’Opinione. In un articolo pubblicato il 4 dicembre 1860 lo scrittore milanese Cleto Arrighi riferì di essersi recato con un ufficiale al Castello Sforzesco e di avervi trovato circa duecento prigionieri napoletani “laceri e seminudi, che avrebbero fatto compassione ad un codino” e tuttavia ostinati, o per imbecillità o per fedeltà al loro Re, a non prendere servizio, pur sapendo che se si fossero decisi a “giurare alla nuova bandiera italiana” avrebbero subito ricevuto vestiti, paga e tabacco.

    Una testimonianza che costringe il Barbero ad ammettere che “sembra” che ci fosse “davvero il piano di forzarli ad arruolarsi a furia di maltrattamenti”. Il dubbio è di troppo tanto più che è ragionevole supporre che la situazione del Castello Sforzesco fosse migliore di quella della caserma di S. Girolamo, dove erano stati “ricoverati” “i più turbolenti e decisi alla resistenza” e dove il 1° dicembre si erano verificati incidenti fra carabinieri e napoletani, che avevano opposto resistenza, dapprima passiva poi usando come armi le panche e le gamelle del rancio, al trasferimento presso reparti dislocati in diverse località lombarde.

    Le notizie per Alessandria, Bergamo, Genova, Biella (dove pure si ebbe un ammutinamento di soldati napoletani che le autorità militari ritenevano invece pronti ad arruolarsi) e, appunto, Fenestrelle sono, per questo aspetto, più scarne, ma non c’è ragione di pensare che le cose andassero diversamente, dal momento che anche in questi “depositi” e fortezze i prigionieri borbonici si rifiutavano di passare all’esercito italiano.

    Per quanto in particolare concerne Fenestrelle e i riguardi usati ai napoletani che vi erano destinati è lo stesso Barbero a descrivere già nella polemica premessa al suo libro la “colonna di soldati in lacere uniformi turchine, disarmati e sotto scorta”, che la sera del 9 novembre, “marciava lungo la tortuosa strada alpina che risale la Val Chisone, nelle montagne piemontesi, verso la fortezza di Fenestrelle, costruita a 1200 metri di altezza sul livello del mare”, e a spiegare che si trattava di “prigionieri dell’esercito borbonico catturati per lo più alla resa di Capua il 2 novembre, trasferiti per mare da Napoli a Genova dove erano approdati il giorno prima, poi trasportati in treno fino a Pinerolo e ora avviati a piedi, giacché non c’era altro mezzo, alla fortezza. Esausti per l’interminabile marcia, arrivarono a Fenestrelle per tutta la notte, a drappelli sbandati. Uno di loro morì appena giunto, nei giorni seguenti ben 178 su 1186 vennero ricoverati in ospedale e altri quattro vi morirono”.

    A parte queste amorevolezze del governo e dei comandi militari piemontesi, è dunque provata l’esistenza di una quantità di luoghi, in un primo tempo collocati tutti in Alta Italia (ne vennero poi realizzati anche in Meridione, con una netta preferenza per le piccole isole, nelle quali i prigionieri potevano essere più facilmente controllati, non avendo modo di allontanarsene), dove i napoletani venivano collocati e spostati dall’uno all’altro in condizioni che si possono benevolmente definire di estremo disagio. Difficile allora comprendere perché il Barbero trovi fuori luogo la definizione di “universo concentrazionario”, non bastando certo il fatto che i luoghi di custodia fossero non “campi”, ma fortezze e caserme, e che l’unico campo, quello di San Maurizio fosse (come ha l’ardire di scrivere nel suo attaccamento al dato formale) “un campo di addestramento per truppa italiana e non campo di, prigionia”, quando quella “truppa italiana” di 6.000 ex-militari napoletani non veniva per prudenza fornita di armi nemmeno durante le esercitazioni, riceveva un rancio immangiabile e pochi abiti, ed era sorvegliata da due battaglioni di fanteria “piemontese”.

    Il termine “concentrazionario” viene da qualche decennio usato per individuare una particolare realtà, quella, appunto, di un mondo separato da quello normale, nel quale vengono collocati, non per loro libera scelta, soggetti avviati dal potere ad un destino particolare, che, nei casi estremi, può essere l’eliminazione fisica, in altri il lavoro forzato (laogai cinesi) in altri la rieducazione politica e l’arruolamento. L’universo concentrazionario piemontese mirava a convincere il maggior numero possibile di napoletani ad entrare nel Regio Esercito e a rimanervi fino al termine della ferma senza fare storie. Per questo il numero dei morti, a Fenestrelle, nei depositi e nel campo di S. Maurizio, comunque consistente perché le condizioni sanitarie erano quasi dovunque pessime e negli spostamenti non si usavano, come si è appena visto, troppi riguardi, risulta infinitamente più basso che in altri universi finalizzati invece alla soppressione.

    Si è detto che il centro del sistema era la fortezza di Fenestrelle. Se dovunque le condizioni di detenzione, educazione e addestramento erano cattive, nella fortezza di correzione erano necessariamente pessime. Difatti, ad esempio, il destino dei prigionieri (o, se si preferisce, ma la sostanza non cambia, formalmente ex-prigionieri) addestrati (sotto sorveglianza armata) nel campo di S. Maurizio era di essere inviati ai reggimenti del Regio Esercito per quelli che, progrediti nell’istruzione, “mostrino di aver acquistate le qualità che si richiedono a formare de’ buoni soldati”, mentre gli altri “si manderanno a Fenestrelle, per esservi tenuti sotto più rigida disciplina, finché si correggano e diventino idonei al servizio”.

    Ugualmente difficile comprendere, questa essendo la situazione, la ragione per la quale il Barbero ritenga inappropriata la definizione di “inferno carcerario” per la fortezza di Fenestrelle, pur riconoscendo che alcuni napoletani vi morirono e che altri, arruolati nei Cacciatori Franchi, vi rimasero per tutto il tempo della ferma, cioè per anni. Certamente non basta la sua pretesa di non tenere conto dei napoletani inviati a Fenestrelle in veste di soldati italiani assegnati ai Cacciatori Franchi per quelle stesse ragioni formali che dovrebbero fare del campo di S. Maurizio un semplice “campo di addestramento per truppa italiana”.

    Non vorrei deludere del tutto il Barbero sulle virtù correttive del suo lavoro e debbo riconoscere che dopo la lettura delle 360 faticose pagine che lo compongono se dovessi riscriverla modificherei due punti della mia contestata prefazione. Il primo là dove ho recepito la notizia che “la stragrande maggioranza e addirittura la quasi totalità fra i semplici soldati, i sottoufficiali e gli ufficiali dei gradi inferiori rifiutò l’arruolamento” senza precisare che la situazione cambiò, sia pure controvoglia, quando la legislazione piemontese rese obbligatorio l’arruolamento. Il secondo riguarda gli ufficiali napoletani dal momento che, secondo quanto scrive il Barbero, “nessuno di loro passò per Fenestrelle, né per San Maurizio né fu inviato ai Cacciatori Franchi”. Non sono in possesso di dati in contrario. Tuttavia, pur se quanto ho scritto può essere inesatto per Fenestrelle, resta il fatto che anche ufficiali napoletani subirono la prigione come quelli che, pur avendo avuto la garanzia di ricevere il trattamento patteggiato al momento della capitolazione per i loro colleghi della guarnigione di Gaeta, vennero invece arrestati, tenuti in detenzione a Napoli e, quindi, internati a Ponza, dove si perdono le loro tracce, che, a quanto si deduce da un accenno dell’autore, presero la via della giustizia penale. Altri poi vennero arrestati, fra la fine del 1860 e l’inizio dell’anno successivo, d’ordine del luogotenente Luigi Carlo Farini, romagnolo, che li definiva “svergognati” e “vile e disonorata gente”, e inviati i primi (tutti di grado molto elevato) a Genova, gli altri in due depositi istituiti appositamente per loro a Savona e a Chiavari. Si può immaginare che, nonostante i pregiudizi classisti dell’epoca, il trattamento riservato a questi ufficiali napoletani, considerati, a differenza dei piemontesi, non gentiluomini, ma “disonorata gente” non sia stato molto migliore di quello inflitto alla bassa forza. ”

    Allora, come più volte consigliato, non è meglio che Barbero si dedichi maggiormente dove è più ferrato ?
    (Mi riferisco alla “storia medioevale”.).
    Nupo da Napoli.

  5. “GRAZIE BAEBERO”
    Su “IL MATTINO” di Napoli è apparso questo articolo di Gigi Fiore. Io “ringrazio” il prof(?)Barbero (medioevalista e non risorgimentalista)per il suo contributo dato affinchè si verificasse quel che poi è avvenuto.

    Fortezza di Fenestrelle, basta con la lapide! Distrutto il ricordo dei prigionieri meridionali.
    “Anche se ne fosse morto solo uno di quei prigionieri, sarebbe giusto ricordarlo”. Fui chiaro, a Torino, con il professore Alessandro Barbero. Mi chiese cosa ne pensavo della lapide sistemata nel 2008 all’interno della fortezza-carcere di Fenestrelle. Fui chiaro mentre si dibatteva su un suo lavoro, nato da una ricerca impostata, in maniera limitata, quasi esclusivamente su documenti dell’Archivio storico di Torino. Limitava il numero dei morti tra i prigionieri dell’ex esercito delle Due Sicilie e dello Stato pontificio, rinchiusi dopo gli scontri con i garibaldini e le truppe piemontesi. Poche decine, ho più volte scritto, non certo migliaia. Ma pur sempre morti lontano dalle loro terre e in stato di prigionia.
    Voglia di revisionismo delle controstorie. Voglia di strizzare l’occhio ad un mercato che si era rilevato incuriosito dalle controstorie, senza che il mercato rispondesse a Barbero come sperava: il libro è rimasto lì, con il suo 2 per cento di documenti consultati tra quelli disponibili sulle prigionie risorgimentali tra il 1860 e il 1862. Senza aver chiuso la ricerca sul tema dei prigionieri di una guerra non dichiarata tra italiani.

    L’effetto violento di quel testo è stata, invece, la distruzione della lapide che non dava fastidio a nessuno. Era stata affissa dai Comitati presieduti da Fiore Marro e diceva: “Tra il 1860 e il 1861 vennero segregati nella fortezza di Fenestrelle migliaia di soldati dell’esercito delle Due Sicilie che si erano rifiutati di rinnegare il re e l’antica patria. Pochi tornarono a casa, i più morirono di stenti. I pochi che sanno s’inchinano”.

    Nulla di esplosivo, di “secessionista”, di violento. Un ricordo, come in migliaia di lapidi che inneggiano alle case e alle casette dove ha dormito o è solo passato (ma sarà poi sempre vero?) Giuseppe Garibaldi in Italia.

    Tra bar e spettacoli ameni, la fortezza di Fenestrelle, carcere duro del regno sardo-piemontese e poi dei primi anni dell’Italia unita, viene visitata dai turisti. Niente ricordo degli italiani che vennero rinchiusi tra quelle mura, dopo una guerra di conquista che portò all’annessione di territori dello Stato pontificio e dell’intero Mezzogiorno.

    Gli accademici che hanno ricordato quelle prigionie, come Roberto Martucci o Eugenio Di Rienzo, sono a volte guardati con diffidenza dai loro colleghi. Mentre monta la voglia accademica di avviare finalmente ricerche su temi sollevati anche da storici non di professione.

    Temi della nostra storia di 152 anni fa, su cui l’accademia si era seduta. E per anni ci si poteva chiedere a cosa servissero le cattedre di storia del Risorgimento se tutto era stato scritto, esplorato, interpretato. Molto invece era rimasto nel buio. E ci volle un non storico-accademico, come Franco Molfese, per fare finalmente luce per intero sulla storia del brigantraggio post-unitario, con documenti inediti.

    Misteri dell’Italia, che non sa davvero fare i conti con la propria storia. E, in questo clima, ci sta anche la distruzione della lapide a Fenestrelle, anticipata dalle parole di Barbero. Parlò di “lapide menzognera che l’amministrazione del forte ha incredibilmente acconsentito di collocare, su falsità che hanno influenzato un’opinione pubblica particolarmente incattivita e frustrata”.

    Così parlò il docente di storia medievale. Con toni di insolita violenza che contestava ad altri. L’effetto è stata la rimozione della lapide a Fenestrelle. Ridotta a pezzi. E non ritrovata da chi era tornato nel forte per rivederla. Gigi Di Fiore.

    Stralcio del comunicato del “Movimento Neoborbonico”
    …..Distrutta la lapide di Fenestrelle: un’offesa grave (e inutile) alla memoria storica. Foto Quali le “controindicazioni” di quella piccola lapide cristianamente rispettosa della nostra storia a fronte, tra l’altro, di migliaia di lapidi retoriche e bugiarde dedicate magari ai massacratori dei meridionali in giro per l’Italia? Quali le motivazioni per il suo spostamento dalla piazza ad una cella e da quella cella, in pezzi, in un contenitore di plastica? I cocci li hanno raccolti gli stessi Comitati durante la loro ultima manifestazione (già pronta, naturalmente, una nuova lapide… Nessun collegamento, è ovvio, tra le polemiche di Barbero e la cancellazione di quel pezzetto di memoria storica ma ci aspettiamo, dopo il silenzio in occasione delle recenti cenette a lume di candela (burlesque compreso) oggettivamente poco rispettoso della stessa tragica e secolare storia di quel luogo di sofferenza e morte, un suo intervento contro chi, effettivamente “frustrato e incattivito”, ha pensato di fermare la dilagante e sacrosanta opera di ricostruzione di verità storica e memoria avviata dagli antichi Popoli delle Due Sicilie ma senza riuscirci e, anzi, rafforzandone addirittura le motivazioni: le lapidi del cuore e dell’anima non si possono più cancellare.” Gennaro De Crescenzo

    Il sottoscritto, nel provare esecrazione profonda per chi ha distrutto la lapide, “ringrazia” il prof(?) di storia medioevale, Alessandro Barbero, per il “suo contributo” affinchè ciò avvenisse. Nupo da Napoli
    Foto

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