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Barbero: “Ma Fenestrelle non fu come Auschwitz”

Con un libro sui soldati borbonici prigionieri nel forte dei Savoia, Alessandro Barbero ha scatenato le proteste del Sud. Ora risponde a chi lo accusa.

di Alessandro Barbero da “La Stampa” del 21 ottobre 2012 

Nell’estate 2011 mi è successa una cosa che non avrei mai creduto potesse capitarmi nel mio mestiere di storico. In una mostra documentaria dedicata ai 150 anni dell’Unità mi ero imbattuto in un documento che nella mia ignoranza mi era parso curiosissimo: un processo celebrato nel 1862 dal Tribunale militare di Torino contro alcuni soldati, di origine meridionale, che si trovavano in punizione al forte di Fenestrelle. Lì avevano estorto il pizzo ai loro commilitoni che giocavano d’azzardo, esigendolo «per diritto di camorra». In una brevissima chiacchierata televisiva sulla storia della camorra, dopo aver accennato a Masaniello – descritto nei documenti dell’epoca in termini che fanno irresistibilmente pensare a un camorrista – avevo raccontato la vicenda dei soldati di Fenestrelle.

La trasmissione andò in onda l’11 agosto; nel giro di pochi giorni ricevetti una valanga di e-mail di protesta, o meglio di insulti: ero «l’ennesimo falso profeta della storia», un «giovane erede di Lombroso», un «professore improvvisato», «prezzolato» e al servizio dei potenti; esprimevo «volgari tesi» e «teorie razziste», avevo detto «inaccettabili bugie», facevo «propaganda» e «grossa disinformazione», non ero serio e non mi ero documentato, citavo semmai «documenti fittizi»; il mio intervento aveva provocato «disgusto» e «delusione»; probabilmente ero massone, e la trasmissione in cui avevo parlato non bisognava più guardarla, anzi bisognava restituire l’abbonamento Rai.

Qualcuno mi segnalò un sito Internet dove erano usciti attacchi analoghi; del resto, parecchie e-mail si limitavano a riciclare, tramite copia e incolla, dichiarazioni apparse in rete. Scoprii così che il forte di Fenestrelle – che la Provincia di Torino, con beata incoscienza, ha proclamato nel 1999 suo monumento-simbolo – è considerato da molti, nel Sud, un antesignano di Auschwitz, dove migliaia, o fors’anche decine di migliaia, di reduci meridionali dell’esercito borbonico sarebbero stati fatti morire di fame e freddo e gettati nella calce viva, all’indomani dell’Unità. Questa storia è riportata, con particolari spaventosi, in innumerevoli siti; esistono comitati «Pro vittime di Fenestrelle» e celebrazioni annuali in loro memoria; e al forte è esposta una lapide incredibile, in cui si afferma testualmente: «Tra il 1860 e il 1861 vennero segregati nella fortezza di Fenestrelle migliaia di soldati dell’esercito delle Due Sicilie che si erano rifiutati di rinnegare il re e l’antica patria. Pochi tornarono a casa, i più morirono di stenti. I pochi che sanno s’inchinano».

Superato lo shock pensai che l’unica cosa da fare era rispondere individualmente a tutti, ma proprio a tutti, e vedere che cosa ne sarebbe venuto fuori. Molti, com’era da aspettarsi, non si sono più fatti vivi; ma qualcuno ha risposto, magari anche scusandosi per i toni iniziali, e tuttavia insistendo nella certezza che quello sterminio fosse davvero accaduto, e costituisse una macchia incancellabile sul Risorgimento e sull’Unità d’Italia. Del resto, i corrispondenti erano convinti, e me lo dicevano in tono sincero e accorato, che il Sud fino all’Unità d’Italia fosse stato un paese felice, molto più progredito del Nord, addirittura in pieno sviluppo industriale, e che l’unificazione – ma per loro la conquista piemontese – fosse stata una violenza senza nome, imposta dall’esterno a un paese ignaro e ostile. È un fatto che mistificazioni di questo genere hanno presa su moltissime persone in buona fede, esasperate dalle denigrazioni sprezzanti di cui il Sud è stato oggetto; e che la leggenda di una Borbonia felix, ricca, prospera e industrializzata, messa a sacco dalla conquista piemontese, serve anche a ridare orgoglio e identità a tanta gente del Sud. Peccato che attraverso queste leggende consolatorie passi un messaggio di odio e di razzismo, come ho toccato con mano sulla mia pelle quando i messaggi che ricevevo mi davano del piemontese come se fosse un insulto.

Ma quella corrispondenza prolungata mi ha anche fatto venire dei dubbi. Che il governo e l’esercito italiano, fra 1860 e 1861, avessero deliberatamente sterminato migliaia di italiani in Lager allestiti in Piemonte, nel totale silenzio dell’opinione pubblica, della stampa di opposizione e della Chiesa, mi pareva inconcepibile. Ma come facevo a esserne sicuro fino in fondo? Avevo davvero la certezza che Fenestrelle non fosse stato un campo di sterminio, e Cavour un precursore di Himmler e Pol Pot? Ero in grado di dimostrarlo, quando mi fossi trovato a discutere con quegli interlocutori in buona fede? Perché proprio con loro è indispensabile confrontarsi: con chi crede ai Lager dei Savoia e allo sterminio dei soldati borbonici perché è giustamente orgoglioso d’essere del Sud, e non si è reso conto che chi gli racconta queste favole sinistre lo sta prendendo in giro.

L’unica cosa era andare a vedere i documenti, vagliare le pezze d’appoggio citate nei libri e nei siti che parlano dei morti di Fenestrelle, e una volta constatato che di pezze d’appoggio non ce n’è nemmeno una, cercare di capire cosa fosse davvero accaduto ai soldati delle Due Sicilie fatti prigionieri fra la battaglia del Volturno e la resa di Messina. È nato così, grazie alla ricchissima documentazione conservata nell’Archivio di Stato di Torino e in quello dello Stato Maggiore dell’Esercito a Roma, il libro uscito in questi giorni col titolo I prigionieri dei Savoia : che contiene più nomi e racconta più storie individuali e collettive di soldati napoletani, di quante siano mai state portate alla luce fino ad ora. Come previsto, si è subito scatenata sul sito dell’editore Laterza una valanga di violentissime proteste, per lo più postate da persone che non hanno letto il libro e invitano a non comprarlo; proteste in cui, in aggiunta ai soliti insulti razzisti contro i piemontesi, vengo graziosamente paragonato al dottor Goebbels.

Però stavolta c’è anche qualcos’altro: sul sito compaiono, e sono sempre di più, interventi di persone che esprimono sgomento davanti all’intolleranza di certe reazioni, che sollecitano un confronto sui fatti, che vogliono capire. Col mestiere che faccio, dovrei aver imparato a non farmi illusioni; e invece finisco sempre per farmene. Forse, dopo tutto, sta tramontando la stagione in cui in Italia si poteva impunemente stravolgere il passato, reinventarlo a proprio piacimento per seminare odio e sfasciare il Paese, senza che questo provocasse reazioni pubbliche e senza doverne pagare le conseguenze in termini di credibilità e di onore.

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Inserito su www.storiainrete.com il 22 ottobre 2012

65 Commenti

  1. Signor Festa, distinguiamo. La propaganda risorgimentale ha seminato da sempre colossali sciocchezze e menzogne. Mille mercenari conquistano un regno sconfiggendo un esercito di sessantamila uomini. Corruzione? No! Eroismo e audacia del biondo don Peppino… Centomila soldati piemontesi per anni combattono una guerra civile contro qualche centinaio di eroici partigiani? No! Stanno liberando il sud dallo straniero, stanno unendo l’Italia e stanno liberando il mezzogiorno dal brigantaggio… Il Piemonte esporta il suo debito pubblico nel Sud e in cambio si prende tutto l’oro del Regno di Napoli? No! Politica economica moderna… Credo possa bastare! Siete senza vergogna…

  2. Come dicevo, i neo borbonici continuano a disseminare sciocchezze su ogni sito. Facciamo qualche altro esempio. I garibaldini erano “mercenari” (ma costoro conoscono il significato delle parole che usano?): tra poco ci sveleranno finalmente che Nievo era un rapinatore di banche, Giacinto Carini un borseggiatore, Abba uno stupratore di vergini. I garibaldini? Rimasero sempre mille, anche i tremila di Calatafimi, gli oltre settemila di Palermo, i quarantamila del Volturno. E quanti erano i borbonici? Sempre sessantamila, anche a Milazzo o a Catania. Certo, De Sivo (Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, libro XVIII, par. 17) afferma che “l’esercito napolitano effettivo pronto a combattere non passava i sessantamila, su tutta la superficie del regno”, ma parla di “reclute poco istruite” per le leve dal 1858 al 1860, di ufficiali vecchi e inerti, di un esercito nel 1858 “fievole per numero, arme, scienza e pensieri”: ma anche lui aveva certo incassato mucchi di “piastre d’oro turche”. Quanti furono nel complesso i componenti le bande dei “briganti” tra il 1861 e il 1865? “Qualche centinaio”. Roberto Martucci, storico ferocemente anti-risorgimentale, calcola che possano essere giunti a 80.000, o più credibilmente alla metà: ma forse è un bisnipote di Cialdini. E chi erano i soldati che li combattevano? “Piemontesi”, anche quelli del “Reggimento Sicilia” e i battaglioni della Guardia mobile, arruolati sul posto. E non dimentichiamo “tutto l’oro del Regno di Napoli” rubato dai soliti piemontesi, anche se il Banco di Napoli le sue settanta tonnellate d’oro le cedette solo nel 1926 alla Banca d’Italia, quando a quell’istituto venne attribuito il monopolio esclusivo delle emissioni. Ma a giustificazione delle fandonie che continuano a spacciare, non dimentichiamo i danni subiti dai poveri neo borbonici a seguito della chiusura per dieci anni – o forse quindici o più? – delle scuole nell’Italia del Sud.

  3. Si, siete veramente senza vergogna. Tutte le sciocchezze elencate da Augusto dimostrano solo mala fede. Come si fa a dare credito alla messa in scena da Quarto a Marsala, fino all’arrivo in treno a Napoli in compagnia di quattro famosi camorristi, quando si sa benissimo che tutto fu pianificato a tavolino da Benso e La Farina anni prima in gran segreto, compreso il “furto” dei legni del Rubattino. Com’è possibile far sparire tutti i documenti amministrativi delle spese sostenute dalla spedizione dei Mille, imbarcati sulla nave a vapore Ercole, facendo passare un sabotaggio premeditato come naufragio… Per 150 anni in ogni libro, opuscolo, articolo o testo scolastico la legittima resistenza della popolazione meridionale all’invasione piemontese è stata etichettata con la becera espressione “brigantaggio”, termine volutamente denigratorio e mai presentata per quello che realmente fu: guerra civile! Quanto alla inutile ironia sul sistema scolastico nel Regno di Napoli, prima e dopo l’invasione piemontese, basterebbe leggere il prof. Giuseppe Fioravanti.

  4. Recuperare dieci o quindici anni di mancati studi è proprio impresa ardua: meglio ricorrere alla scorciatoia di scopiazzature da personaggi alla Pellicciari, che ricicla il buon Giacomo Margotti. Certo è da chiedersi in quali regioni vivessero quei poveretti che trovavano le scuole chiuse. Non sarà perciò forse inutile precisare ai lettori di “Storia in Rete” qualche numero essenziale. Ricordo innanzi tutto che nel 1860 sui 1845 comuni dei domini “al di qua del Faro”, e cioè nell’ex Regno di Napoli, solo poco più della metà fornivano l’istruzione primaria sia maschile che femminile. Gli alunni frequentanti risultavano appena 67.431.
    Al termine dell’anno scolastico 1861-1862 in Abruzzo Citeriore erano aperte 166 classi di scuola elementare frequentate da 4930 alunni. L’Abruzzo Ulteriore I aveva 94 classi con 2965 alunni.
    In Abruzzo Ulteriore II le classi erano 271, gli alunni 10.823. E questo in una regione nella quale nel 1857, secondo la circolare n. 141 del 27 marzo di quell’anno emanata dal Presidente del Consiglio Generale di P.I. del regno borbonico Capomazza, “ne’ comuni di frontiera” mancava “quasi interamente la istruzione primaria”, e una simile situazione si registrava anche in tutte le altre province, tanto che il Consiglio sollecitava gli Intendenti affinché i Decurionati si adoperassero per trovare maestri e soprattutto maestre per aprire le scuole, autorizzando l’assunzione in qualità di maestre anche di donne che non sapessero leggere, scrivere e l’aritmetica pratica (La circolare è pubblicata in F. Dias, Reali Rescritti, Regolamenti, Istruzioni Ministeriali e Sovrane Risoluzioni riguardanti massime di Pubblica Amministrazione, Presso Giovanni Pellizzone, Napoli 1859, p. 203).
    Per quanto riguarda le altre regioni dell’ex Regno delle Due Sicilie, in quello stesso anno scolastico in Basilicata le scuole aperte erano 226 con 8489 alunni; nelle Calabrie 24.251 bambini e bambine frequentavano 718 scuole; in Puglia di alunni ce n’erano 20.611 in 475 scuole; in Molise gli alunni erano 10.046, le scuole 253. La Campania era naturalmente al primo posto in questa classifica con 1541 scuole e 61.884 alunni. (Per questi dati cfr. Statistica del Regno d’Italia. Istruzione primaria. Istruzione elementare pubblica per Comuni, Riepilogo per Province, pp. 216-217, Cappelli, Modena 1863).

  5. Disamina inutile e fuorviante. Esporre dati decontestualizzati e non accompagnati da considerazioni di carattere sociale, geografico e politico è sbagliato, è voler rappresentare fatti non rispondenti alla realtà e comunque, se è vero che il numero degli scolarizzati era basso, la qualità di chi completava i vari corsi di studio era altissima non solo in Italia ma in Europa (Giannone, Filangieri, Lomonaco, Genovesi, Giambattista Vico, ecc.).
    Piuttosto l’introduzione della legge Casati, non migliorò la situazione anzi. I programmi ministeriali e i regolamenti sabaudi erano spesso inapplicabili alle realtà meridionali e l’odio massonico nei confronti della chiesa causò la soppressione di tutte le scuole cattoliche e in particolare dei collegi tenuti dall’Ordine degli Scolopi (ben 25). Scuole d’eccellenza, gratuite riservate ai meno abbienti i cui archivi furono totalmente distrutti da un incendio appiccato deliberatamente dal buon Luigi Settembrini (chissà perché).
    Noto, infine, che su Nievo e sul teatrino dei mille ha elegantemente glissato!…

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