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Alla riscoperta (genovese) di Carlo Alberto, il "Re nuovo" che sognava una nuova Italia

Un re del Piemonte che sognava di essere Re d’Italia e non ci riuscì. Un re a cavallo di due mondi, un mondo che guardava all’ancien régime e un mondo nuovo che guardava al liberalismo.

di  dal Giornale del 13/06/2018

Un monarca che ha comunque consegnato, al Piemonte prima e all’Italia poi, uno Statuto moderno che ci ha governato sin oltre la fine della Seconda guerra mondiale. Stiamo ovviamente parlando di Carlo Alberto (1798-1849), re del Piemonte.
Molti lati della personalità e della vita del monarca emergono dalla mostra genovese (che durerà sino al 31 luglio) organizzata nel Palazzo Reale della città: Il Re nuovo. Carlo Alberto nel Palazzo reale di Genova. Sono raccolte nelle sale del Palazzo, più specificamente negli appartamenti dei principi ereditari, opere d’arte, memorie e cimeli provenienti da collezioni private e pubbliche, ritratti su tela, cammei e miniature, avori e porcellane, alternati a busti in marmo e bronzo dorato, stampe e disegni, documenti e libri, arredi e oggetti preziosi legati al monarca. L’obiettivo è fissare l’iconografia del sovrano, sia quella ufficiale, sia quella più intima, fermando i punti salienti della biografia del re, e dei suoi famigliari, sullo sfondo della storia della nazione nascente e della complessa situazione della Prima guerra di indipendenza.
Ne esce un ritratto, del principe prima e del monarca poi, complesso e articolato, ben compendiato anche nei saggi che compongono il catalogo che accompagna la mostra. Tra questi spicca quello di Francesco Perfetti: Carlo Alberto da Principe di Carignano a Re di Sardegna. Racconta bene le peculiarità di questo monarca quasi per caso (era davvero improbabile che la successione passasse a lui). Proprio la sua infanzia, non già orientata verso il trono, gli diede la possibilità di venire in contatto con ambienti liberali che gli fornirono una visione della regalità diversa da quella che avrebbe sviluppato crescendo a corte. Ecco perché già nel 1820-1821 era visto come punto di riferimento da molti intellettuali, da Vincenzo Monti sino al repubblicano Luigi Angeloni. Carlo Alberto voleva porsi come mediatore tra la corte sabauda e gli ambienti rivoluzionari. Ma finì per trovarsi tra l’incudine e il martello. Non fu tentennante, semplicemente si trovò a gestire una situazione esplosiva. Dimostrò poi, una volta salito al trono, di essere l’uomo delle «riforme possibili». Concesse lo Statuto, in un certo senso, solo quando concederlo era diventato una conditio sine qua non per i suoi scopi. Ma lo concesse, e poi vi tenne fede. Egualmente non si tirò mai indietro nella sua guerra sfortunata contro l’Austria. Quindi non si possono negare i suoi meriti storici.
Visto da vicino, poi, Carlo Alberto appare un po’ diverso dal personaggio amletico che ci ha tramandato la storiografia patria. Anche dopo essere salito al trono fu mondano e brillante e persino dotato di «una grazia seducente». Solo nel finale della sua vita, che lui avrebbe preferito concludere su un campo di battaglia e non in esilio, prese corpo quel personaggio tragico che ispirò Carducci: «oggi ti canto, o re de’ miei verd’anni,/ re per tant’anni/ bestemmiato e pianto,/ che via passasti con la spada in pugno/ ed il cilicio// al cristian petto, italo Amleto».

80 Commenti

  1. Nel 1854 don Peppino col grado di capitano era imbarcato sulla nave “Carmen”, che da Callao trasportava guano a Canton. Lui stesso si racconta nelle “Memorie” descrivendo nei minimi particolari l’avventuroso viaggio. Elenca i giorni di traversata, i vari approdi, l’esatto peso del carico di guano e via così. Stranamente nulla emerge dal racconto su cosa trasportasse nel tragitto di ritorno. Alla sospetta mancanza di tale dettaglio, pone rimedio l’armatore, tale Pedro Denegri. L’armatore ligure, infatti, racconta che don Peppino ha sempre portato da Canton “cinesi grassi e in buona salute..”. Il tutto narrato nel volume “La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi”, scritto da Vecchi e pubblicato da Zanichelli.
    Quanto a Benso, io avrei fatto volentieri a meno del suo talento della menzogna, della truffa, del raggiro, dell’inganno, della prevaricazione e della crudeltà.

  2. Caro Signor Socrate noto con sommo piacere che il Trattato Di Altissima Cucina Risorgimentale è quasi pronto per vedere la luce e mi par di capire che diversi capitoli son dedicati alla Autentica Cucina Garibaldina, con tanto di ricete “pre-” e “post-” “unitarie”…. Mi perdoni ma devo assillarla con alcuni miei terribili dubbi gastronomici. Vede Signor Socrate il punto è che l’Italia oggi è una, ed è più o meno unita nonostante tutto. Teniamocela così com’è. E’ però vivamente sconsigliabile non indagare a fondo su come sia avvenuto il processo di unificazione se non si vuole andare incontro a solenni delusioni…. la retorica nazional-risorgimentale che glorifica una straordinaria tradizione militare di fatto mai esistita è notoriamente basata sull’aria fritta, quantomeno per chiunque abbia un minimo di cultura militare.
    Ad esempio Lei ricorda in quale scuola veneziana studiò il futuro ammiraglio Willhelm von Tegettoff? Ricorda quale era la lingua d’uso nella marina austriaca ai tempi dei fatti di Lissa? Ricorda il nome del timoniere della “Ferdinand Maximilian” che speronò la “Re d’Italia”? Come mai tanti marinai veneti e friulani non anelavano all’Unità d’Italia ed erano indifferenti al magnetico richiamo della causa dei Savoia e del loro Regno? Tutti bigotti pazzi e fanatici come
    Gennaro Fergola? Ma Gennaro Fergola non era forse un esponente di una famosa famiglia di intellettuali e artisti napoletani alcuni dei quali matematici e astronomi? Forse costoro non piacciono in quanto non astrocuochi? Il fatto che il Cialdini si sia rivolto al Fergola in francese anzichè in italiano non ci dice proprio nulla?
    E sull’innata e straordinaria incapacità militare di Tommaso Clary che possiamo dire? Che forse non fu casuale? O che per quanto tentennava non avrebbe certo sfigurato come eventuale Capo di Stato Maggiore di Carlo Alberto?
    A proposito… Domenico Carbone non mi pare proprio fosse oriundo napoletano!
    Quale fu il prezzo di Giuseppe Salvatore Pianell che meglio servì i Savoia di quanto non fece con i Borboni?
    Altro dubbio culinario: secondo lei il Pellion di Persano a Lissa o subito dopo quanto si pentì di aver corrotto…ehm pardon, “guadagnato alla causa unitaria” anni prima il Vacca?
    Ancora: come mai si tende quasi sempre a dimenticare Civitella del Tronto? Anche qui tutti pazzi, bigotti e fanatici?
    E ora passiamo all’arrosto e al brasato. E’ vero che per la storia è un esimio signor nessuno…ma che fine fece Manuel Duarte de Aguiar? E come morì realmente Anita Garibaldi? Facciamo pure ironia su Franceschiello e sulla sua latitanza in camera da letto….ma che dire dell’irresistibile fascino del condottiero di cui rimase vittima Giuseppina Raimondi?
    Eppure eppure eppure… dopo le eroiche gesta del “Feroce Monarchico Bava” qualche dubbio su quanto fosse bella l’Unità d’Italia la ebbero anche Gaetano Bresci e Giuseppe Pellizza da Volpedo…
    Asburgici saluti imperial-regi.

    • Chiacchiere. Nel 1915-1918 gli emigranti italiani che rientrarono per combattere per il Tricolore a decine di migliaia, costretti da nulla e nessuno, sono la migliore risposta a queste chiacchiere.

  3. Esimio Admiral Canoga, il trattato è a buon punto, soprattutto la parte dedicata alla Sicilia e ai suoi sapori più interessanti, da Marsala a Bronte.
    So bene che chi “mastica” cultura militare coglie subito il senso di “aria fritta” di molte portate sabaude, nonostante gli sforzi degli storici ortodossi nella scelta dell’olio migliore…Quanto a Domenico Carbone sono tutt’ora “indeciso” su quale “Don Ciccia” scegliere.
    Tutto il resto richiede sforzi non indifferenti per rendere i nuovi piatti digeribili a chi si è purtroppo abituato alla solita frittata risorgimentale.
    La saluto offrendole due “chiacchiere alla Emanuele”!

  4. Socrate, ma perchè non passa le vacanze estive in santa pace? Parlar del Risorgimento (anzi annaspare) le scuote i nervi, cagionandole convulsione affabulatoria, come su Domenico Carbone di cui è andato a leggiucchiare su wikipedia, che, ahimè, spesso dice una cosa e ne tace altre cento.
    Le Memorie di Garibaldi, pubblicate nella definitiva versione approvata da Menotti nel 1888, post mortem, non sono affatto ricche di particolari. Egli era sintetico e spesso laconico sennò avrebbe riempito volumi, non un libro. Premesso questo, l’anno del suo unico viaggio in Cina non è il 1854. A quella data egli aveva già lasciato il Perù dopo contrasti con l’armatore Pietro De Negri (Don Pedro) che lo licenziò l’anno prima.
    Il lungo elenco di cineserie e altri materiali caricati sulla nave guidata da Garibaldi (madreperle, cere, coralli, mobili, sete, etc.) è regolarmente inserito nel Registro de Comercio di Lima alla data 25 gennaio 1853, quando il brigantino “Carmen” di proprietà del De Negri rientrò dalla Cina, come ha constatato lo storico Kenneth Cowie che si scomodò a controllare, appurando che non vi erano passeggeri ma solo membri dell’equipaggio, una parte del quale era italiano. Uno di loro, rientrato in Italia per combattere le guerre d’indipendenza, rilasciò un’intervista a un giornale di Torino in cui denunciò che il De Negri era solito ridurre al minimo il vettovagliamento per l’equipaggio, al punto che durante il ritorno si trovarono in gravi difficoltà, soffrirono la fame e la sete, furon costretti a pescare e ci fu un principio di ammutinamento che solo il carisma di Garibaldi riuscì a evitare.
    Theodore Bent, nella sua “Biografia di Garibaldi” del 1881, confutò la ben nota accusa mossa al nostro eroe dai nemici che non gli mancavano andando a chiedere direttamente all’interessato il quale gli riferì d’aver mandato a quel paese il De Negri. Le sue prese di posizione sulla schiavitù infatti erano ben note, mentre in Perù la schiavitù era legale, e, anche quando fu abolita nel 1854, di fatto continuò. Secondo Pietro Tettamanzi, studioso e testimone oculare dello schiavismo nelle Americhe, la tratta di gialli in Perù cominciò proprio a quella data. Ma anche ammesso che fosse cominciata dopo la legge del 1849 che favoriva l’immigrazione, non c’è uno straccio di prova che il nostro eroe abbia caricato nessun tipo di passeggero neanche di nazionalità diversa, come invece moltissimi ce n’erano (tedeschi, russi, irlandesi, polacchi…) e proprio dall’Oriente, che volevano andare in Perù.
    Augusto Vittorio Vecchi, figlio di un grande amico di Garibaldi e ansioso di scrivere un libro su di lui, trovandosi a Lima nel 1865 con una nave della Marina, pensò d’incontrare De Negri per raccogliere notizie sul periodo che l’eroe aveva trascorso in Perù. Di cose da raccontare ce n’erano, ma il De Negri, la cui famiglia era trapiantata colà da due generazioni, parlava un misto di genovese, castigliano e “quechua”, l’idioma normalmente parlato allora in Perù. Da qui il magro risultato del colloquio, di cui il Vecchi riporta nel libro solo tre frasi striminzite, anche se tutte lusinghiere per Garibaldi: una delle tre, quella sui “cinesi belli grassi che Garibaldi sempre gli portava…”, considerata da buona parte degli storici come campata per l’aria, è stata infine interpretata come un equivoco, dato dal fatto, appunto, che il Vecchi non capiva.

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