Aguyar era l’ombra di Garibaldi e lo salvò in varie occasioni. Grande e maestoso si aggirava con la camicia e il poncho rossi, un cappello grigio, la piuma bianca, le donne di Trastevere lo ammiravano («occhi neri di malizia e denti bianchi di allegria» secondo lo scrittore colombiano German Arciniegas), prendeva al lazo i nemici a cavallo. Una granata francese lo colpì in via Garibaldi di fronte al Monastero dei Sette dolori, spirò nell’ospedaletto di Santa Maria della Scala poco più che trentenne a fianco di altri morenti come Luciano Manara e Goffredo Mameli. Non è chiaro se il vicolo omonimo di Trastevere abbia preso il nome da lui o da un caffè con un’insegna coloniale di fine ‘800.
Alcuni garibaldini come Vecchi e Hofstetter ricordarono l’impressione che provocava Aguyar nel campo di battaglia: «C’era una voce che correva tra quei superstiziosi soldati, che quel negro enorme tutto vestito di rosso, che caricava come se nessuno potesse ferirlo – la lancia in una mano e il coltello nell’altra – come un essere invulnerabile, fosse l’incarnazione del demonio». All’epoca venne detto “il negro di Garibaldi”, ovviamente senza alcun accenno dispregiativo.
La granata che lo uccise è conservata al Museo garibaldino in Campidoglio. Il suo corpo giace nel Museo garibaldino del Gianicolo dove – è stato ricordato – andrà messo un busto che manca, il suo.
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