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di Lorenzo Paolini – www.lorenzopaolini.it
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Alle 13 rientrava dalla Capitale l’Ammiraglio Bergamini che alle 15,30 convocò una riunione di Stato Maggiore, durante la quale: “accennò innanzi tutto alla sempre più deteriorata situazione nazionale, nella quale la Regia Marina rimaneva, per sua natura, la sola forza ordinata e coesa. Poi riferì dell’aumentata probabilità che si rendesse necessario reagire ad un colpo di mano tedesco ed attuare le conseguenti misure del Promemoria n. 1 del Comando Supremo. Qualora si fosse profilato un altissimo rischio di cattura, l’ordine esecutivo sarebbe stato impartito con la frase convenzionale “Raccomando massimo riserbo”. In tal caso, tutte le navi avrebbero dovuto uscire in mare ed autoaffondarsi in alti fondali, oppure anche in porto se impossibilitate ad uscire. Ribadì che in ogni caso, anche in assenza di ordini, nessuna nostra nave doveva cadere in mano straniera: in mancanza di alternative occorreva autoaffondarsi, ed utilizzare anche le cariche di autodistruzione se vi era il rischio di recupero dello scafo da parte angloamericana. Riferì infine quanto gli era stato detto nel caso in cui Supermarina non fosse più stato in condizione di emanare l’ordine di autoaffondamento: “ti regoli tu con il tuo giudizio, con l’idea che tutto è possibile, salvo ciò che in qualsiasi maniera possa menomare l’onore della Bandiera”. Poi arrivò l’ora fatidica: quelle 19,45 dell’8 settembre 1943. quando l’EIAR rese pubblica la notizia dell’armistizio. “Eravamo tutti assorti nei nostri pensieri, quando l’insolito silenzio che accompagnava la nostra cena nel Quadrato Ufficiali venne rotto da qualche sparo in lontananza, seguito da altri spari, un crepitio di mitragliere, il montante vociare dei marinai in coperta e l’irruzione del marò Santino, la nostra ordinanza, che balbettò concitatamente: “la radio … l’armistizio … la guerra è finita!”. Andammo fuori: il cielo sulla rada era illuminato da razzi da segnalazione multicolori e da proiettili traccianti sparati dalle batterie costiere in segno di festa. Un’analoga gioia collettiva aveva contagiato molti dei nostri marinai in coperta, che scaricavano la tensione ridendo ed abbracciandosi, mentre altri rimanevano stralunati ed attoniti. Tuttavia non fu difficile raffreddare quell’irrazionale e tragica euforia, raccomandando a quei ragazzi di attendere a vedere le conseguenze della sconfitta.
La decisione regia si era pertanto limitata ad una fiacca e rassegnata convalida dell’inesorabile annuncio della resa dell’Italia, diffuso da Radio Algeri alle 18.30. Solo nella successiva riunione convocata dal Comando Supremo, il Ministro della Marina, ammiraglio de Courten,aveva potuto prendere conoscenza delle clausole navali dell’armistizio (le sole veramente importanti ai fini degli Anglo-Americani), che prevedevano l’immediato trasferimento della Flotta nelle località che sarebbero state indicate. Egli aveva reagito duramente: “Avete fatto olocausto della Flotta, che era l’unica forza rimasta salda nel Paese . ..darò ordine che essa si autoaffondi questa sera stessa”, ma era poi tornato a più miti consigli, avendo ricevuto dal generale Ambrosio l’assicurazione che gli Anglo-Americani avrebbero rispettato l’onore delle nostre navi. Mentre venivano dibattute queste gravi questioni, Badoglio aveva letto ai microfoni dell’EIAR il proprio storico ed ultimo proclama.” Ed ecco i drammatici momenti dell’attacco e dell’affondamento: “… il rumore era assordante, come un rombo cupo accompagnato dal crepitio di esplosioni. Passai a poppavia della torre 3 da 381 e della torre 4 da 152. Il personale della prima stava uscendo attraverso il portellone del telemetro superiore. Superata la torre 4, rimasi senza fiato: una gigantesca nube di fumo nero illuminato da vampe giallastre si sprigionava dalle viscere della nave a prora sinistra del torrione e si innalzava come il fungo di un’eruzione vulcanica, trascinando verso l’alto un’infinità di frammenti strappati alla nave. Era evidentemente avvenuta la deflagrazione (cioè la combustione veloce) dei depositi munizioni.
Nello stesso momento apprezzai quella tragica conferma di quanto ci avevano insegnato sul pregio del nostro munizionamento: se avessimo avuto quello inglese, sarebbe esploso e la nave si sarebbe disintegrata. Era comunque più urgente soccorrere quelli che avevo sotto gli occhi. Chinati presso alcuni corpi che giacevano orrendamente bruciati o mutilati vi erano già due sottufficiali e tre marinai che cercavano di aiutare e rincuorare quei poveretti, pur essendo anch’essi abbastanza malandati. Non si preoccupavano né per sé stessi né per la nave che gemeva sinistramente mentre si inclinava: volevano solo riuscire a rimettere in piedi i loro amici. Aiutai a tamponare qualche ferita, poi acchiappai al volo un infermiere che, sebbene anch’egli ustionato, si prodigò subito nelle medicazioni di emergenza. Mentre due di quei feriti riuscivano così a procedere verso poppa con l’aiuto dei compagni, mi accorsi che in quei momenti terribili il prevalente anelito che accomunava tutti quelli che incontravo era di dare ogni possibile aiuto a chi era stato meno fortunato. Vidi un marinaio infilarsi in un boccaporto chiamando a squarciagola l’amico ch’egli sperava trovare nel buio dei locali sottocoperta; un sergente togliersi il salvagente ed infilarlo delicatamente ad un collega malamente sfregiato; un nocchiere portare in spalla il proprio nostromo semisvenuto; un altro arrampicarsi in tuga per recuperare dal motoscafo un mucchio di salvagenti da distribuire a chi non l’aveva indossato, come previsto. Giunse infine da una breve ispezione all’esterno del torrione, senza avervi trovato segni di vita, il Tenente di Vascello Agostino Incisa della Rocchetta (il marchese) – direttore del tiro dei cannoni da 90 di sinistra, quasi irriconoscibile per le bruciature – che mi disse di far andare a poppa tutti quelli che potevano muoversi, procedendo con calma perché la nave sembrava ancora in grado di galleggiare. Sparsi la voce, senza creare panico, fra i sottufficiali presenti poi andai a dare una mano ad un manipolo di volonterosi che si affannavano a liberare i Carley sistemati sul cielo delle torri: queste zattere di salvataggio finirono presto in mare, sia pure con qualche ammaccatura. Nel frattempo il Signor Incisa aveva constatato che la nave aveva ripreso ad inclinarsi. Accortosi di essere l’ufficiale di Stato Maggiore più anziano presente, ordinò “Abbandonare la nave!”. In quel momento il Roma era stato raggiunto dagli incrociatori Duca degli Abruzzi e Garibaldi, che defilarono ai due lati della nave morente, rendendole gli onori.
Non c’era più tempo da perdere. Il movimento di rotazione della nave era ripreso, facendo immergere di qualche centimetro il trincarino di dritta del ponte di coperta (cioè il bordo laterale del ponte, laddove questo si raccorda con lo scafo esterno). Questo allarmante segnale fece comprendere a tutti che occorreva sbrigarsi ad abbandonare la nave. Tuttavia i più si trattenevano ancora per aiutare ustionati e feriti ad allacciare il salvagente ed a scivolare delicatamente in mare. I miei erano già tutti in acqua, come lo erano già tanti altri marinai, sopra i Carley o aggrappati ai cavi esterni di queste zattere di salvataggio, oppure appoggiati ad altri galleggianti di fortuna. A poppa molti esitavano ancora a mettersi in salvo, non volendo far mancare un ulteriore sostegno a chi era stato più duramente colpito dalla deflagrazione. È quello che feci anch’io, ma fu ben poca cosa se confrontata al comportamento di Toni: quest’ultimo, dopo essersi fatto detergere il sangue che gli colava copiosamente sugli occhi, offuscandogli la vista, non si buttò in acqua – come era stato caldamente incoraggiato a fare – se non dopo aver preso con sé l’amico Michele, reso pressoché cieco dalle estese ustioni riportate. Mi colpì, poi, l’apparente calma ostentata dal Tenente di Vascello Incisa della Rocchetta che, nonostante le penose bruciature che lo rendevano quasi irriconoscibile, si tolse la giacca, il binocolo e la pistola, e poggiò diligentemente il tutto su di un fungo di ventilazione; si sfilò poi le scarpe e le depositò davanti alla base dello stesso fungo, prima di scendere in acqua. Ripetei meccanicamente gli stessi gesti, piegando per bene la mia giacca ed allineando le mie scarpe alle altre, con quell’automatica cura dell’ordine a cui pareva impossibile rinunciare, anche se non aveva più alcun senso in quella situazione. Infine mi tuffai, mi liberai della pistola lasciandola andare a fondo e mi allontanai con vigorose bracciate.
L’acqua era abbastanza calda, il mare era calmo ed il salvagente faceva il suo dovere. Non c’era la necessità di raggiungere qualche altro galleggiante. Evitai pertanto di avvicinarmi a chi fruiva già di un punto di appoggio, per non rischiare di comprometterne la tenuta. Dopo un poco mi accorsi che tutti gli sguardi si erano improvvisamente fissati in direzione della nave. Mi girai anch’io e vidi, con una stretta al cuore, che il movimento di rotazione stava accelerando. Vi era ancora a poppa una trentina di persone, il cui salvagente rosso spiccava in lontananza. Poiché la nave sbandava sempre più, qualcuno rotolò in mare e tentò di allontanarsi a nuoto, mentre altri riuscirono ad aggrapparsi alla battagliela sul lato sinistro. Guardai la nostra Bandiera al picco dell’albero poppiero mentre descriveva un arco di cerchio sulla dritta prima di toccare il mare, ove parve fermarsi un attimo, prima di immergersi del tutto.
La nave si stava ormai capovolgendo. Una decina di quelli che erano rimasti a poppa riuscirono a scavalcare la battagliola ed a sfruttare gli appigli degli oblò degli alloggi Ufficiali per arrampicarsi sulla carena. Tuttavia lo scafo non potè sopportare il nuovo assetto, rovinoso per le parti già gravemente ferite dalle due bombe: non appena la nave si fu completamente capovolta, con un agghiacciante schianto essa si spezzò in due. La parte poppiera assunse un’inclinazione di circa 45°, con le eliche ed i timoni in alto, sbalzando in acqua chi stava sulla carena; poi scivolò lentamente in mare e si inabissò. La metà prodiera della nave si erse invece in posizione verticale, fermandosi fuori dall’acqua come per mostrare un’ultima volta, con legittima fierezza, tutta la sua maestà. Poi, dopo essersi ulteriormente innalzata fino a coprire il sole, scese verticalmente in acqua. Guardavamo tutti ammutoliti quell’estremo addio della nostra nave. Ma quando, per ultimo, scomparve nei flutti anche il purpureo stemma dell’Urbe che ornava l’estremità della prora, si alzò spontaneo il grido con il quale si usava andare al combattimento: “Viva l’Italia, Viva il Re!”, seguito da un ancor più commosso: “Viva il Roma!”. Erano le 16.15 quando la corazzata Roma si inabissò, portando con sé l’ammiraglio Bergamini e tutto il suo Stato Maggiore, oltre al Comandante Del Cima e gran parte dei suoi uomini. Prima di capovolgersi, tuttavia, la nave era sopravvissuta per più di venti minuti all’immane deflagrazione provocata dalla seconda bomba; e questo aveva consentito il tempestivo svolgimento delle operazioni di abbandono nave da parte di circa un terzo del personale imbarcato.”
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L’allestimento e le caratteristiche Dopo il varo, a Trieste il 9 giugno 1940 l’allestimento della nuova nave da battaglia era stato condotto a ritmo serrato e con la sicura e rinomata maestria dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico. Dopo solo un anno e cinque mesi, il Roma aveva potuto effettuare le sue prime navigazioni autonome: il 9 novembre 1941 era salpato da Trieste per trasferirsi a Venezia, dovendovi effettuare dei lavori in bacino, ed era poi tornato al cantiere il 14 dicembre. Per i trasferimenti il Comando Superiore in mare era stato assunto dal Capitano di Vascello Gaetano Catalano Gonzaga cheaveva effettuato delle prove di velocità, superando ampiamente i 32 nodi, contro i 30 attesi. Fino allora, fra le navi in servizio nelle maggiori marine militari del mondo, nessuna corazzata era mai stata così veloce. Ma la velocità era solo una delle molte caratteristiche avanzate di questa nave. Vi era innanzi tutto il suo poderoso armamento, che includeva dei cannoni eccellenti, tutti progettati pochi anni prima dall’Ansaldo e costruiti dalla stessa ditta e dalla O.T.O. (Odero Terni Orlando). I nove cannoni da 381/50, montati in tre torri trinate corazzate, avevano una gittata massima di 42,8 km, superiore a quella dei 381 di tutte le altre marine, superiore anche a quella dei 406 statunitensi (40 km), e perfino a quella dei giganteschi 460 giapponesi della Yamato (42 km); la considerevole potenza dei nostri 381 conferiva ai proiettili una traiettoria molto tesa ed un superiore potere di penetrazione. I dodici cannoni da 152/52 erano ripartiti su quattro torri trinate, che risultavano tra le più moderne e funzionali dell’epoca; grazie alle loro elevate prestazioni ed affidabilità, questi impianti venivano utilizzati sia per il tiro antinave, sia per il fuoco di sbarramento contro i micidiali attacchi degli aerosiluranti. I dodici cannoni antiaerei da 90/50, disposti in impianti singoli ai due lati del torrione, erano quanto di più avveniristico si potesse immaginare in quegli anni, poiché le loro torri – protette da uno scudo avvolgente ed aventi un peso complessivo di circa 20 tonnellate – erano completamente stabilizzate da un sistema giroscopico automatico che compensava i movimenti di rollio e beccheggio della nave: la genialità della loro progettazione era venuta a capo di un problema tutt’altro che facile da risolvere con le tecnologie elettromeccaniche dell’epoca, realizzando quest’arma che si dimostrò potente, precisa e di notevole affidabilità. Un’analoga stabilizzazione era anche stata fornita alle relative stazioni di direzione del tiro (SOT). Le centrali di tiro, tutte di tipo elettromeccanico, avevano raggiunto una complessità e delle prestazioni di tutto rispetto, essendo anche state oggetto di specifiche migliorie scaturite dagli studi dell’ammiraglio Bergamini, il futuro Comandante in Capo delle Forze Navali da battaglia. Molte altre caratteristiche della nave raggiungevano dei livelli di assoluta eccellenza.
La corazzatura della nave, realizzata con piastre di acciaio di elevata qualità, di considerevole spessore e dotate di un’innovativa inclinazione sulle fiancate dello scafo (le altre marine le lasciavano verticali), assicurava all’unità un validissimo scudo contro i proiettili navali nemici. La protezione contro i siluri era affidata ai geniali Cilindri Pugliese, che, disposti lungo l’ampia intercapedine esistente tra lo scafo interno e la murata esterna, consentivano di assorbire le esplosioni dei siluri e delle mine, limitandone considerevolmente i danni. Per la radiolocalizzazione delle navi ed aerei nemici era stato messo a punto il radiotelemetro EC-3/ter, meglio conosciuto con il nome convenzionale di Gufo, la cui installazione era prevista su tutte le corazzate e le altre principali navi della flotta; si trattava del radar italiano, che aveva ormai raggiunto delle prestazioni nominali ottimali per la tecnologia dell’epoca: circa 16 miglia nautiche (30 km) di portata per la scoperta navale e 43 miglia (80 km) per quella aerea. La ricognizione aerea poteva essere effettuata dai tre velivoli imbarcati, lanciabili dalla catapulta presente a poppa; gli aerei in dotazione erano di due tipi: l’idrovolantc Ro.43, biplano e biposto, di costruzione Industrie Meccaniche Aeronautiche Meridionali, era un velivolo da ricognizione marittima molto maneggevole, che aveva già svolto un’intensa e proficua attività durante le precedenti operazioni belliche; il velivolo da caccia Re.2000 “Falco”, monoplano e monoposto, costruito dalle OMI-Reggiane, poteva essere impiegato sia come ricognitore che come caccia in funzione antiaerosiluranti. Le sistemazioni di bordo del Roma erano estremamente curate anche per il benessere dell’equipaggio: i marinai non dormivano più nelle vecchie amache, ma su vere e proprie brande, disposte in locali bene arredati e riscaldati con termosifoni; essi disponevano inoltre di un’infermeria attrezzata come i migliori ospedali, di una mensa moderna dotata di una macchina che lavava automaticamente la gamella, di una lavabiancheria e di una stireria; vi erano inoltre: bar, gelateria, cinema, sala biliardi, sale di lettura e biblioteche. In quell’ambiente così accogliente, vitale e complesso come una città, non mancava assolutamente niente.
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Dai microfoni dell’Eiar, 8 settembre 1943 Ore 19,45 Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza. Maresciallo Badoglio
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La Spezia, sera dell’8 settembre 1943 “Dite tutto questo ai vostri uomini. Essi sapranno trovare nei loro cuori generosi la forza di accettare questo immenso sacrificio. Dite loro che i 39 mesi di guerra che, insieme, abbiamo combattuto, ora per ora nell’impari lotta, che le navi affondate strenuamente, che i morti gloriosi, hanno conquistato alla Marina il rispetto e l’ammirazione dell’avversario. E la flotta, che fino ad un’ora fa era pronta a muovere contro esso, può ora che l’interesse della Patria lo esige, andare incontro al vincitore con la bandiera al vento e possono i suoi uomini tenere ben alta la fronte. Non era questa la via immaginata. Ma questa via dobbiamo noi prendere senza esitare, perché ciò che conta nella storia dei popoli non sono i sogni e le speranze e le negoziazioni della realtà, ma la coscienza del dovere compiuto fino in fondo, costi quel che costi. Sottrarsi a questo dovere sarebbe facile, ma sarebbe un gesto inglorioso e significherebbe fermare la nostra vita e tutta quella dell’intera nazione e chiuderla in un cerchio senza riscatto, senza rinascita, mai più. Verrà il giorno in cui questa forza vivente della Marina sarà la pietra angolare sulla quale il popolo italiano potrà riedificare pazientemente le proprie fortune. Dite tutto questo ai vostri uomini ed essi vi seguiranno obbedienti, come sempre vi hanno seguito nelle ore delle azioni piene di pericoli. il Comandante in capo delle Forze Navali da Battaglia CARLO BERGAMINI
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Il BomBardIere Junkers e la BomBa teleguIdata FrItz-x
Mio zio Vittorio Salini è morto su quella nave. Per cortesia, mi sapete indicare come fare per procurarmi una copia del libro?
Grazie.
desidero essere contattato dal Signor Lanfranco Luciani,sono figlio di un superstite della Corazzata Roma grazie
Si chiamava Romano ed era ,anni 1940, un marinaio con funzione di attendente di mio padre,maggiore della Capitaneria di Porto di Viareggio(Lucca). Era divenuto una persona di famiglia ed amico, praticamente ,di mio fratello quasi suo coetaneo. Nel 1942 fu trasferito e imbarcato nella corazzata Roma. Nella mia famiglia si parlava spesso di lui e i miei erano addolorati quando appresero della sua fine,in seguito all’affondamento della citata Roma. Allora io avevo tre anni, ma sentii più volte ricordare,in seguito,con rimpianto ,la sua figura,di marinaio e,come tutti i marinai e napoletano, per giunta,di impenitente dongiovanni….
Sono un grande appassionato di questa splendida nave. Volevo sapere come e dove era possibile reperire una copia del libro.
GRazie
Salve, vorrei sapere come reperire il libro. Grazie.