Anche sulla stampa italiana si torna a parlare del Project 1619, letteralmente progetto 1619, il numero speciale del The New York Times Magazine curato dalla giornalista Nikole Hannah-Jones e pubblicato nell’agosto 2019. Numero speciale che rilegge il ruolo della schiavitù e della segregazione razziale in America a partire dal 1619, l’anno dell’arrivo della prima nave negriera nelle 13 Colonie. Prima l’unica eco del Project 1619 in Italia si era avuta a settembre 2020 quando lo speciale del New York Times era diventato un tema politico all’ordine del giorno nell’ultima fase della campagna presidenziale statunitense. A mettere nel mirino il Project 1619 l’allora presidente Trump che prometteva di tagliare i fondi pubblici alle scuole che avessero adottato il cosiddetto Project 1619 curriculum, un pacchetto per le scuole sviluppato a partire dagli articoli del New York Times Magazine. Il fatto che ne parlasse male Trump aveva fatto assurgere il Project 1619 come esempio di revisionismo buono.
Revisionismo inclusivo
Il Project 1619 era stato lanciato nell’agosto 2019 dal New York Times come operazione volta a rendere la storia degli Stati Uniti “più obiettiva e inclusiva”. Curatrice del progetto che si pone come riflessione storica sul ruolo della schiavitù negli Stati Uniti è Nikole Hannah-Jones, giornalista investigativa con un bachelor’s degree in “history and African american studies“. Nell’occasione del 2019 come quadricentenario del primo schiavo sbarcato in Virginia il Project 1619 si pone come riflessione storica sul ruolo della schiavitù negli Stati Uniti. Ma più che l’obiettività e l’inclusività lo scopo nemmeno tanto velato è quello di traslare e cambiare il mito di fondazione degli Stati Uniti. Non più le 13 Colonie che si ribellano alla Corona britannica e la dichiarazione d’Indipendenza del 1776. Bensì considerare la storia degli Stati Uniti profondamente intessuta con quella degli schiavi, e far diventare quindi il 1619 de-facto l’anno di fondazione degli Stati Uniti.
Nel farlo il Project 1619 ha messo l’asticella molto in alto arrivando ad affermare che la rivolta delle 13 colonie contro la corona d’Inghilterra non fosse una rivoluzione nel solco del “no taxation without representation“, ma semplicemente, una rivolta a favore della schiavitù.
Ovvero che le tredici colonie volessero continuare a importare schiavi quando nel Regno Unito iniziava il percorso di affrancamento dalla schiavitù.
Basterebbe un incrocio di date per capire come l’affermazione del Progetto 1619 sia un po’ grossolana. È vero che nel Regno Unito il dibattito intorno alla schiavitù inizia nel 1772, un’anno prima della fondazione del Boston Tea Party e tre anni prima della guerra d’indipendenza delle 13 colonie. Ma è un dibatitto che avrà bisogno di sessant’anni per completarsi. In Inghilterra si inizia a parlare di schiavitù e della sua abolizione grazie al dibattimento intorno al caso Somerset v Stewart: Somerset uno schiavo e Stewart il suo proprietario entrambi residenti a Boston. Somerset era fuggito su suolo inglese e poi catturato. Il dibattimento si concluse con la liberazione di Somerset, evidenziando la diversità di trattamento tra le colonie e l’Inghilterra.
Già si bruciavano navi britanniche…
Come detto in terra inglese il dibattimento sulla schiavitù sarebbe stato lungo, cessando questa solo nel 1833, a più di sessant’anni da Somerset v Stewart. E non bisogna dimenticare che nelle 13 colonie, futuro nucleo degli Stati Uniti d’America, c’erano già state azioni “di rivolta” nelle colonie americane da parte degli “indipendisti” locali, come l’incendio della HMS Liberty nel 1768 e della HMS Gaspee nel 1772.
Insomma prima che gli inglesi iniziassero a prendere sul serio il problema della schiavitù già c’era chi bruciava navi britanniche nel New England. Inevitabile che fin da subito il 1619 Project iniziasse a raccogliere pareri negativi di molti storici titolati, a cui il New York Times rispondeva con una lettera che ovviamente non entrava mai nel merito delle obiezioni storiografiche poste dagli storici.
Controproducente dal punto di vista della trasparenza anche la scelta di correggere il tiro rimuovendo la frase di accompagnamento sul mini-sito del Project 1619 che recitava “to reframe the country’s history, understanding 1619 as our true founding” (per ridisegnare la storia del Paese, intendendo il 1619 come la nostra vera fondazione). Anche nel testo sono stati modificati dei passaggi che descrivevano il 1619 come “momento d’inizio” della storia degli USA. Questo lanciare il sasso e nascondere la mano alle prime critiche, nel quadro di un’operazione revisionista come il 1619 Project ha gettato altra benzina sul fuoco. E così l’area conservatrice e repubblicana ha avuto gioco facile ad iniziare a citare Orwell e il pericolo di riscrittura della storia.
Critiche afroamericane al 1619 Project
Il metodo e l’assenza di una reale revisione sulle parti più controverse come quella della Rivoluzione americana come riflesso delle istanze abolizioniste britanniche ha anche portato accademici in linea di principio favorevoli all’operazione e alla sua impostazione generale a prenderne le distanze. Come la storica e accademica Leslie Maria Harris che su Politico ha pubblicato un pezzo dal titolo inequivocabile “Ho aiutato il Fact-Cheking sul 1619 Project. E il Times mi ha ignorato“.
E se anche il pezzo è uscito su Politico, considerato su posizioni più vicine all’area repubblicana, la rivista è ben lontana dai toni e metodi di Fox o del New York Post. Allo stesso modo Maria Harris, donna afroamericana, è ben lontana dallo stereotipo del white male privilege in cui potevano cadere gli storici a cui rispondeva la lettera del New York Times. Una critica, quella della Harris, che non ammette sconti nemmeno a destra, visto che ribadisce come la tematica della schiavitù è stata effettivamente trascurata dagli storici statunitensi nelle origini degli Stati Uniti.
Altre critiche “nere” al 1619 Project sono arrivate da uno storico leader dei diritti civili, l’ottantaquattrenne Robert Woodson, che nel febbraio 2020 ha dato vita al cosiddetto 1776 Unites. Fin dal nome è evidente come lo spirito sia quello di contrastare l’operazione del New York Times considerata divisiva. Tra gli sponsor di questa iniziativa anche un’altro eminente accademico afroamericano Glenn Loury. Woodson è considerato un indipendente, ma il grosso del supporto è arrivato da area conservatrice, avendo 1776 Unites dalla sua il Washington Examiner.
Arriva il Pulitzer
Il New York Times ha comunque continuato per la sua strada, e la Hannah-Jones ha vinto il Pulitzer categoria “miglior giornalismo di commento” nel marzo 2020, avviando anche una partnership con le scuole (proprio grazie alla fondazione che gestisce il Pulitzer). Partnership scolastica che ha alzato il livello dello scontro, che è diventato un tema delle presidenziali di novembre. A settembre 2020 Trump ha promesso di tagliare i fondi alle scuole anche aderiscono al progetto 1619 Project Curriculum! Sempre su iniziativa di Trump è stata creata la 1776 Commission (da non confondere con la già citata operazione 1776 Unites). Il report di questa commissione presidenziale è stato pubblicato il 18 gennaio 2021, due giorni prima dell’insediamento di Biden, finendo sommerso di critiche per gli errori e le partigianerie. Ma non c’è stato il tempo per un’eventuale revisione, in quanto la 1776 Commission veniva terminata due giorni dopo, il 20 gennaio, uno dei primi atti da presidente di Joe Biden.
Trotzkisti e “giacobini” contro il 1619 Project
Tra gli altri sviluppi del dibattito intorno al 1619 Project anche la National Association of Scholars che ha dato vita a una campagna di firme per chiedere di revocare il Pulitzer alla Hannah-Jones. Tra i firmatari anche il già citato Glenn Loury, accademico ed economista famoso per le sue pubblicazioni sulle diseguaglianze razziali (e tra l’altro primo professore di economia nero ad Harvard negli anni’80). Altra figura che non può essere accusa di white privilege ma che potrebbe ricadere nella definizione di house negro. D’altronde la NAS è di area conservatrice.
Ma la destra trumpiana e conservatrice non sono sole nella battaglia contro il 1619 Project. Al loro fianco si trovano degli alleati inattesi e insospettabili. Sono i trotzkisti del World Socialist Web Site, WSWS, emanazione del Socialist Equality Party e del loro comitato per la 4a Internazionale. Veri comunisti vecchio stampo e con un sito ben organizzato che ha dedicato una serie di articoli contro la mistificazione operata dal 1619 Project. La serie di articoli, dal 2019 al 2020 è stata ampliata ed è diventato un volume tutto dedicato a smontare il 1619 Project.
Certo gli autori e curatori sono tutti bianchi e il primo motore che porta i comunisti di ispirazione trotzkista a porsi contro il Progetto 1619 è la prevalenza della coscienza di classe rispetto alle identità di genere, di razza e di intersezionalismi vari. Saremmo quindi a prima vista nell’area del cosidetto rossobrunismo, quella area comunista che continua a cercare la prevalenza dei diritti sociali su quelli civili, arrivando a convergenze parallele con le destre di ispirazione sociale. Ma i World Socialist Web Site vanno oltre l’etichetta rossobruna sottoponendo il Progetto 1619 a un attento scrutinio di stampo storiografico marxista. Avendo gioco facile, d’altronde il Progetto 1619 di Hannah-Jones alla fine è solo una furba operazione giornalismo narrativo. La serie di articoli del World Socialist Web Site è diventata il volume The New York Times’ 1619 Project and the Racialist Falsification of History che si aggiunge ai due altri testi di area conservatrice che criticano il Progetto 1619, quello di Peter W. Wood, presidente del già citato NAS, e Phillip W. Magness del think–tank conservatore John Locke Foundation.
Altra voce critica al Progetto 1619 che arriva stavolta dalla sinistra moderata è quella di Matthew Karp, storico e professore associato a Princeton, nonché collaboratore della rivista Jacobin. Rivista che come tradisce il nome è di chiara ispirazione socialista. Ma come fa notare lo stesso Karp molte voci della sinistra americana d’ispirazione socialista sono comunque a favore del 1619 Project, come il Communist Party USA.
L’approfondimento di Karp sul Progetto 1619 è pubblicato su Harper’s Magazine. Rivista che dopo la lettera aperta del luglio 2020 di cui ci siamo occupati su Iconoclastia rappresenta una delle voci di maggior ragionevolezza nel panorama culturale e intelettuale statunitense. E l’approfondimento di Karp rappresenta una delle chiavi di lettura più interessanti sul 1619 Project.
Più che rimarcare i singoli errori fattuali del New York Times, Karp evidenzia fin da subito come sia in atto su entrambi i fronti, favorevoli e contrari al 1619 Project, un tira e molla per piegare la storia ai propri fini. E l’articolo fin dal titolo gioca su questo aspetto, History as End. Dalla fine della Storia di Fukuyama a una storia come Fine. Così scrive Karp: «I conservatori americani, tradizionalmente attratti dalla storia come esercizio di devozione patrimoniale, nell’epoca di Trump hanno abbandonato molte delle loro vecchie virtù, oscillando invece tra l’incoerenza e il nichilismo vero e proprio. I liberali, nel frattempo, sembrano aspettarsi dal passato più che mai. Lasciandoci alle spalle la Fine della Storia, siamo arrivati a qualcosa come la Storia come Fine.»
Karp evidenzia il vero elefante della stanza del 1619 Project, che non è tanto negli errori fattuali o nelle ipotesi. Il ruolo dell’abolizionismo nella Rivoluzione americana è un’ipotesi storiografica di cui si può dibattere. Il problema del 1619 Project è nel proprorre una narrazione a senso unico in cui sono omesse figure chiave del percorso di emancipazione razziale negli Stati Uniti.
Finiscono quasi cancellate figure come quella di Frederick Douglass, probabilmente il più grande intelettuale nero del periodo a cavallo della guerra civile, nonché amico di Lincoln. Che come scrive Karp: «Sorprendentemente, Frederick Douglass appare più spesso nel Rapporto 1776 (quello di Trump NdR) che nel Progetto 1619, dove originariamente ricevette solo due brevi menzioni, entrambe in un saggio di Wesley Morris sulla musica nera.»
O lo stesso Martin Luther King Jr. Nuovamente facciamo riferimento a Karp: «Martin Luther King Jr., da parte sua, fa una sola apparizione nel Progetto 1619, lo stesso numero di Martin Shkreli (capitano d’impresa pregiudicato, citato a proposito di speculazioni farmaceutiche (NdR). In più di cento pagine di stampa, leggiamo di pochissimi grandi sostenitori dell’abolizione o del lavoro e dei diritti civili: Harriet Tubman, Sojourner Truth, Henry Highland Garnet, A. Philip Randolph, Ella Baker, Rosa Parks e Bayard Rustin sono solo alcuni di quelli che non vengono menzionati.»
Si arriva quindi all’ipersemplificazione: dovendo tutto discendere da quel 1619 e dovendo porsi nella critica degli Stati Uniti di oggi come realtà intrinsecamente razzista e segrazionista, si rischia di dimenticare gli sforzi di tutti quegli esponenti dei diritti civili che hanno lottato in quasi due secoli e che si mal integrano con la narrazione attuale. Osserva Karp: «Due temi fondamentali ancorano l’approccio del Progetto 1619 alla storia americana: origini e continuità. L’indice è una fucilata di fatti che sono emersi, in linee ininterrotte, da secoli di persecuzione. Che l’argomento sia il traffico di Atlanta, il consumo di zucchero, l’incarcerazione di massa, il divario di ricchezza, le deboli protezioni del lavoro, o il potere di Wall Street, il peso dell’argomento rimane lo stesso: tracciare le profonde continuità tra la schiavitù, Jim Crow, e l’ingiustizia razziale oggi.»
Parole di buon senso che passeranno in secondo piano in un dibattito sempre più infiammato. Anche perché a novembre 2021 arriverà nelle librerie statunitensi The 1619 Project: A New Origin Story, volume di oltre 600 pagine in cui Nikole Hannah-Jones combina i 18 saggi originali che facevano parte del numero monografico originale del 1619 Project con con «trentasei tra poemi e opere di narrativa che illuminano momenti chiave di oppressione, lotta e resistenza». Come si legge dal lancio del volume.
Inevitabile che di questo dibatitto a farne le spese sarà la Storia, ridotta mero pretesto per le narrazioni contemporanee.
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